Il documento ci arriva dagli archivi parrocchiali. Si tratta di una nota rinvenuta nel libro di battesimo di Pontone, risalente al 1825 e vergata da don Giovanni Zobbi, rettore della parrocchia dal 1815 al 1834. Nell’annotazione si parla di morti, di carestia e pure di un’epidemia: “Nota il dì 16 maggio 1825 qui in Pontone vi erano oncie quattro di neve ed il Villaprara di S. Pietro oncie sette, e più. È pure da notare che nell’anno 1815-1816-1817 fù una continua carestia, onde nel 1817 perirono di fame circa cento persone in questa parrocchia di Pontone; si trovavano per le strade moribondi, e morti per le boscaglie divorarti dai cani e dalle fiere. Più si solevò una malatia a cui li medici diedero il nome di tifo, ed anche di questa perirono molti non solo poveri, ma anche benestanti. Molti altri per il vivere insalito, o male a proposito morirono poi nel 1818 tempo di abbondanza.”
Fino a duecento anni fa, la fame era ancora uno spauracchio per tutti i Paesi europei. Le risorse alimentari erano scarse e la gran massa della popolazione raggiungeva appena il livello di sussistenza. Le carestie provocavano migliaia di morti e, in genere, derivavano dal cattivo tempo, o da epidemie e guerre che comportavano la devastazione dei campi e l’impossibilità di seminare e raccogliere le messi. Sempre dall’Archivio diocesano di Reggio Emilia, ecco una pagina del registro dei defunti di Vezzano del 1817, dove, al numero 87, 28 febbraio, è registrato: “Massimiliano di Domenico Campani e Margheritta Ricci di 48 anni morto ob debilitatem et fame consumptus” (per debolezza e consumato dalla fame).
È solo uno dei tanti esempi. Nel biglietto collocato sulla stessa pagina si legge: “Nel giorno 17 gennaio alle ore 7 antemeridiane Donna ritrovata morta. In questa parrocchia di Vezzano in luogo detto la Rocca sulla Strada che guida alla Vecchia è stata ritrovata morta come si tiene di fame e di freddo, ho usata diligente ricerca chi ella fosse e di qual Patria, ma non enimi riuscito di venirne a cognizione, mentre nessuno mi ha saputo darne informazione, io per me son d’opinione ch’ella fosse Toscana, ella fu trasportata in questa casa Pretoria perché fosse visitata, ma siccome simili casi accadono frequentemente or quà or là per le critiche circostanze di carestia. Così senz’essere visitata è stata, premesse le solite esequie, tumulata in questo Parrocchiale cimitero il giorno 19 mese suddetto. Fabbiani Girolamo Rettore”
Ma cos’era successo? Perché una carestia durata tutti quegli anni e poi il tifo?
Il vulcano, Napoleone e Frankenstein
Il 10 aprile 1815, il vulcano Tambora – nelle Indie orientali olandesi, oggi Indonesia - esplose e le sue ceneri si diffusero nell’atmosfera in quantità tale da oscurare il sole, raffreddando la Terra di diversi gradi. “L’ultima grande crisi di sussistenza del mondo occidentale” fu l’effetto dell’eruzione, secondo lo storico John Post. Solo nell’Impero russo vi fu un aumento delle temperature medie e si verificarono condizioni positive per le attività agricole. Dal punto di vista storico, vi sono in Italia pochi riscontri sulla crisi economico-sociale del 1815-1817 in quanto è quasi dimenticata; rimangono invece i documenti di natura sanitaria di quei medici che cercarono di arginare l’epidemia di tifo che ne seguì. Negli archivi parrocchiali e comunali vi sono poi le pagine con i nomi dei morti. La nostra montagna era sotto il dominio estense e il Duca si impegnò per fronteggiare la situazione, vietando l’esportazione del frumento, acquistandone delle quantità all’estero e organizzandone lo smistamento a prezzi calmierati, mentre ne fu garantita a titolo gratuito la distribuzione agli indigenti. Sicuramente, le misure non furono adeguate per i bisogni di tutti. Il racconto dell’eruzione del Tambora e delle sue conseguenze lo ritroviamo più avanti nella ricostruzione di Henry ed Elisabeth Stommel, nel volume dal titolo “Volcano Weather: The Story of 1816, the Year Without a Summer”. La cenere del vulcano rimase sospesa nell’atmosfera per molti anni, riducendo la quantità di radiazione solare. Gli effetti furono tragici. Le condizioni climatiche anomale portarono a gelate estive che segnarono il 1816 come “L’anno senza estate”, con la perdita dei raccolti estivi ed autunnali: questo determinò una terribile crisi alimentare. L’esito finale della carestia fu poi una vasta epidemia di tifo petecchiale di cui fecero le spese soprattutto i ceti meno abbienti. “La prima delle tre ondate di freddo fuori stagione si abbatté sul New England nelle prime ore del 6 giugno in direzione est. Il freddo e il vento durarono fino all’11 giugno, lasciando sul terreno da 8 a 15 centimetri di neve. Una seconda gelata colpì le stesse zone il 9 luglio, una terza e una quarta il 21 e il 30 agosto, proprio quando stava per incominciare il raccolto delle colture già due volte devastate. Le ripetute gelate estive distrussero tutte le granaglie e tutti gli ortaggi a eccezione di quelli meno sensibili al freddo”
L’eruzione influì anche sulla battaglia di Waterloo (18 giugno 1815), poiché il terreno fradicio per le piogge, insieme all’umidità causata dall’offuscamento del sole, sconvolsero i piani di Napoleone, contribuendo alla sua sconfitta. E il primo romanzo di fantascienza, “Frankenstein”, di Mary Shelley, vide la luce proprio nei mesi cupi dell’estate 1816, gelida e buia più dell’inverno.
Ghiaccio, buio, pioggia, fame
Un punto di riferimento per gli studi su epidemie ed eventi meteorologici in Italia è Alfonso Corradi, (1833-1892), medico bolognese che, nei suoi scritti, non menziona però mai l’eruzione del Tambora. Circa 50-60 anni dopo quel drammatico (e per lui sconosciuto evento), pubblica gli “Annali delle epidemie occorse in Italia dalle prime memorie fino al 1850”, descrivendo con puntualità la situazione climatica del 1816, pur senza ipotizzarne le cause. Nel volume III degli Annali, ecco le osservazioni agrarie dell’annata 1816 esposte all’Accademia di Verona dall’abate e agronomo Bartolomeo Lorenzi: “Il principio dell’anno, ne’ primi tre mesi difficile, incomodo e talora intrattabile per nevi e geli e piogge molesto; né più mite l’Aprile. Comincia la fame per chi non può guadagnarsi il vitto, neppur lavorando; e cresce, secondo che il lavorare è da cattivi tempi impedito. Maggio contristato in molti luoghi da tempesta desolatrice, dappertutto poi per nebbia, per freddura di cielo, e per pioggia, onde ritardasi di un mese oltre l’usato il covar de’ filugelli, e la scarsa raccolta della seta, e del fieno; e si vede a poco a poco, convertiti in cirri i racimoli, sparir la speranza della vendemmia. Luglio, che dovea emendare il difetto del calorico, non parve mai meno simile a sé stesso che in quest’anno […] Le scandelle, le veccie, i saraceni provarono molto bene, e così pure le patate, venute in tanta grazia di quelli, che pur le sprezzavano […] Riguardo agli altri prodotti si può dir l’anno senza frutta, senza vino, e senz’olio”.
Nella provincia bolognese, il 1816 è “l'an d'la fam”, l'anno della fame. I raccolti stagionali sono insufficienti e vengono distrutti da continue piogge, gelate e nevicate anomale. La penuria di cibo provoca in città "un lagno generale, un malessere in tutti, uno spolpamento di membra". I disordini costringono le autorità a vietare la questua almeno di notte. La fame colpisce di più i paesi dell'Appennino, dove si registrano “morti di languore”. Intere famiglie di montanari si riversano in città, rifugiandosi sotto i portici, diventati così un grande bivacco: "Sono innumerevoli questi sventurati, i quali, indeboliti dai digiuni e dai cibi cattivi, cadono ammalati di tifo appestando la città". In una notificazione del 17 dicembre, il cardinale Oppizzoni scrive di “una folla di mendici che straziano il cuore con i loro pianti e lamenti”. Immenso gli appare il numero degli accattoni “e vecchi e giovani e donne e fanciulli” che gridano per la fame.
La coltivazione del “frutto del diavolo”
Sull’altro versante del nostro Appennino, in Lunigiana, nel “Liber Chronicus di Vignola” compilato dall’arciprete Pietro Orsini, si legge testualmente. “1816: grande carestia. Fu tanta e tale la carestia dei raccolti in ogni genere dei prodotti della terra che gran parte del popolo fu costretta a partire per la Maremma, per la Lombardia, ed in altre parti, di dove gran parte non sono tornati e di quelli che restarono, non vi era modo di trovare denari a censo, né di vendere le migliori sostanze che avevano, né tampoco trovavano vettovaglie a credito, e perciò molti andarono all’Ospitale di Pontremoli ed ivi morirono, massime che si aggiunse certa malattia chiamata tifo, quale in breve tempo li mandava all’eternità. Nel 1817 nel paese ci furono 50 morti, più del doppio della media di quegli anni”. Sempre sul versante toscano, apprendiamo dal ricercatore Paolo Marzi dell’introduzione delle patate in Garfagnana grazie a un prelato: “Lui era un prete, si chiamava don Pietro Salatti, parroco di Metello (oggi comune di Sillano Giuncugnano), nonché cappellano militare alle dipendenze di Napoleone Bonaparte. Fu appunto in una di quelle faraoniche campagne militari che il parroco conobbe la patata, era difatti la protagonista principale del rancio dei militari. Vide poi che era un alimento sostanzioso (…) Quando il prete tornò nella sua amata Metello (…) don Pietro portò all’attenzione di tutti i suoi compaesani questo frutto della terra, lo portò a loro come un dono di Dio, una vivanda in più da mettere sulle già povere tavole garfagnine… Ma l’ignoranza, come si sa, non conosce limiti e anche in Garfagnana si riaffermarono fantasie e credulonerie che si credevano ormai sopite: –… è il frutto del diavolo! - qualcuno ebbe a dire, e qualche altro benpensante affermò: ‘Questo frutto non è nemmeno citato nella Bibbia…’. Si disse perfino che era il cibo prediletto degli streghi, infatti come era già successo in Europa, qualcuno pensò bene di mangiarsi pure le foglie della pianta della patata, foglie che contengono solanina e scopolamina, due alcaloidi che possono provocare effetti allucinogeni e che, secondo credenza popolare, potevano permettere il cosiddetto ‘volo stregonico’. Non solo questo però, il Pievano di Gallicano così scriveva: ‘Gran parte dei contadini della montagna, sono intimamente persuasi che l’irregolarità delle stagioni sia effetto della coltivazione delle patate.’ Ma il tempo, come si sa, è galantuomo e finalmente anche in Garfagnana ci si rese conto della bontà del prodotto.
Sempre riguardo alla coltivazione delle patate, Lucca e Camaiore devono molto al governatore austriaco Joseph von Werklein (1777-1849), militare e politico al servizio di Maria Luisa di Borbone. Nel solo paese di Casoli, sui monti di Camaiore, il parroco annotò, nel 1816, 11 morti per fame. Il governatore allora obbligò i contadini - pena il carcere - a seminare le patate. Nell'Archivio di Stato di Lucca esiste un libricino dell'agronomo Tomeoni, del 1817, contenente le istruzioni su come coltivare le patate e anche una ricetta su come usarle per fare il pane.
Aumento dell’emigrazione verso le Americhe
Nell’ottobre del 1816, le autorità del Ducato di Parma notarono un aumento delle richieste di passaporti per Genova e da quel porto per le Americhe: “3 ottobre 1816, Pretura di San Pancrazio, Certificato di buoni costumi per ottenere il passaporto per l'estero. Antonio Coradi coltivatore di 41 anni di Viarolo riceve un certificato di "buoni costumi" necessario per ottenere un passaporto per recarsi a Genova e poi in "America" per sé e per il figlio Pietro di 6 anni. (Archivio di stato di Parma, Governatorato di Parma (1805-1860), b. 376)
Giuseppe Calzolari, di Gojano di Lesignano Palmia, annotava nell’ottobre 1816: «… la maggior parte di certe Persone disperate dalla carestia si partono e vanno in Americha, che là dicono davere in assegno e dono gratuito un terreno bono per ogni famiglia Biolche 10 e li lusingano così, e non è vero niente, e partiscono dalle loro case dalla disperazione e dalla fame».
Il governo ducale, con una circolare dell’ottobre 1816, si appellò allora ai parroci perché facessero ‘paterne insinuazioni’ ai parrocchiani“onde desistano dal troncare ‘i vincoli più rispettabili di natura, di gratitudine e di religione’ che li legano alla propria comunità”.
Alla fine, lo stesso governo decise, il 24 ottobre 1816, di proibire il rilascio dei passaporti per Genova e di perseguire con pesanti pene i mediatori che organizzavano gli espatri.
Il nesso causale tra l'eruzione del Tambora e gli intensi disturbi climatici non era noto al momento: si pensò a una punizione divina. Si cercò anche un capro espiatorio e, in Dalmazia, nel 1817 si incolparono gli ebrei - che avevano in mano il commercio del grano - di averne aumentato illecitamente il prezzo. Ma di tutto questo, don Giovanni Zobbi, parroco di Pontone, quando annotava i cento morti della sua parrocchia, sicuramente nulla sapeva.
Foto Giuseppe Coliva |
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