Scrivo poesie perché tu non lo fai,
per strapparmi dall’anima le spine
e far saltar le idee come bambini,
come fili danzanti sugli arcolai
o gazze e passeri a beccar susine.
Lo so: lei è isola alla deriva
in onda distruttiva
d’impulsi programmati, frivolezze,
zapping, social e schermi di miserie;
rispunta tra macerie,
eppure, la poesia, e amarezze,
musa che incede, disturba, sorprende,
ribelle amica che mai s’arrende.
Era il raro, il poeta, era il ritròso
il parassita; era l’innamorato
di un linguaggio inutile, per pochi,
per gli amanti del dire acquitrinoso,
e tagliava erbacce, accendeva fuochi
tra le parole con dita efficienti
aspirando frammenti
di luci e tenebre, di urla, rottura
e spigoli, di volti sfilacciati.
Non più così: paura
ha oggi, il poeta, poiché acclamati
sono i ritmi tecnologici, il rumore
l’ovvietà, le grida, lo squallore.
Poesia, tu non implori
il permesso, non dai spiegazioni.
Apro la porta ai tuoi colpi distorti,
al divenire, alle sorti:
celebro il non sapere, le abdicazioni,
celebro l'eccesso e la perplessità
e ti scrivo, poesia, con felicità.
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