Non dire niente
Aveva provato a chiamare la sala operativa della questura, poi, alla risposta dell’agente, – una donna, che si era qualificata come “Angela” – era riuscita soltanto a sussurrare: «Mi chiamo Veronica Vieste. Lui ha detto che mi ammazza… aiutatemi!»
Aveva chiuso in fretta la telefonata, dopo averlo sentito forzare la maniglia del bagno, poi era uscita in salotto. Per fortuna, il suo aguzzino non aveva intuito nulla; stava imprecando, tentando di trovare le chiavi di casa, quindi l’aveva afferrata per un braccio e le aveva ordinato di prendere solo la borsa, una bottiglia d’acqua e di salire alla svelta sul camper.
Sarebbero partiti. Destinazione ignota. Ma lei sapeva.
Sentiva che da quel viaggio rischiava di non tornare viva.
Questa volta, Daniele aveva probabilmente esagerato con la coca, era in uno stato di agitazione tragico e non era nemmeno in grado di comprendere ciò che, con calma, la ragazza provava a spiegargli: che lei doveva andare al lavoro, che era mattina; che sì, lui era stato in giro tutta la notte, ma che questo non scusava ciò che le stava imponendo: «Tu, oggi non esci, non esci, hai capito? Tu, quello non lo devi vedere più! Basta! In ditta non ci vai più… Basta, o ti ammazzo. Lui e te: vi ammazzo tutti e due!»
Veronica aveva fatto in tempo a nascondere il suo cellulare nella borsetta ed era salita sul camper senza opporsi, gli occhi bassi e l’aria docile per non indurre reazioni nel compagno. Aveva imparato, con il tempo, che quella era l’unica possibilità per salvarsi.
Non aveva idea di dove lui volesse dirigersi, non aveva idea di quali fossero i suoi piani; sapeva soltanto di essere in pericolo, in grave pericolo e sapeva che doveva mantenersi calma il più possibile.
A scatenare il tutto, la solita gelosia morbosa di Daniele nei confronti di un nuovo, bravo manager da poco arrivato in ditta: un giovane compagno di Veronica del liceo.
Nulla c’era tra di loro, ma chiarirlo non era servito, anzi: aveva acuito ancor più la collera e la violenza del ragazzo.
Ora, il camper si era immesso in autostrada; lei riuscì solo a leggere la direzione “Firenze – Roma”, poi, la velocità troppo elevata la intimorì a tal punto che le si annebbiò la vista e si sentì mancare.
«Hai una caramella o dello zucchero?» Domandò con cautela e tono dolce: «Ho un calo ipoglicemico e, se dobbiamo viaggiare per molti chilometri, non vorrei svenire e crearti problemi…»
Lui non replicò. Schiuse il portaoggetti del cruscotto, ne estrasse una merendina al cioccolato e gliela porse: «Mangia questa, ma non ho altro. Quindi, datti una calmata e stai zitta!»
«Sì, scusami. Vedrai che mi passa tutto. Cerca di essere prudente, però… lo so che sei un bravo autista, ma in giro c’è gente che alla guida è una sciagura e poi tu lo sai che io in autostrada vado comunque nel panico».
Viaggiavano ormai da un’ora e le automobili sfrecciavano intorno, tentando sorpassi azzardati. Erano troppe e troppo veloci. Sembrava che tutti avessero fretta, in quella limpida mattinata.
Troppi, per il suo stato d’animo, anche gli spazi aperti oltre il guardrail: campi di girasole a perdita d’occhio, stoppie dove si era trebbiato il grano, rotoballe di fieno e paglia.
Il disordine di una terra che era ancora terreno coltivato, violata, tuttavia, da autostrade, superstrade, circonvallazioni e dal grigio dei parallelepipedi di cemento, obbrobri di industrie ormai in declino.
Troppi i rumori, dai barriti degli autocarri al frinire stizzoso delle vecchie utilitarie scolorite.
Troppo l’azzurro, in alto: scuro, come è degli abissi marini; troppa la vita in pericolo.
Veronica provò a concentrarsi sulle nuvole sfrangiate che correvano via sopra la sua testa e sulla sagoma di un aereo quasi certamente decollato da qualche aeroporto nei dintorni, ma non riusciva a calmarsi.
Il suo compagno guidava meccanicamente, come un robot, in silenzio, eppure pareva più tranquillo. L’effetto della droga stava scemando. Ora, forse, sarebbe stato possibile ragionare con lui.
La ragazza si sciolse la coda di cavallo e distese i capelli sul petto, accarezzandoli; lo faceva sempre quando era nervosa, e li annusava per calmarsi. Erano gesti che sua madre non accettava e che le costavano sberle e punizioni, da bambina.
All’improvviso, le immagini di un episodio che l’incoscio aveva sepolto – rimosso? - le apparvero in tutta la loro spietatezza. Come poteva averlo dimenticato?
Sua madre? Era stata sua madre?
Era piccola, piccolissima. In età da scuola materna. La madre l’aveva afferrata per i capelli e, dopo averla strattonata tanto da strappagliene un bel pugno, l’aveva trascinata su per le scale, fino alla porta del solaio. Lei l’aveva implorata, avevo puntato i piedi contro ogni gradino, strillando come un animale portato al macello, ma quella donna, sua madre, con il foulard che le era scivolato sulle spalle, scoprendole i capelli scompigliati, era stata inflessibile.
«Ora ti faccio vedere io chi comanda, brutta schifosa! Ora la paghi, così impari a obbedire!»
Era sempre stata bella, sua madre, ma ora le sopracciglia nere parevano tremarle sul viso, in una smorfia di repulsione, come non fosse sua figlia quella che stava maltrattando, ma una pericolosa vipera da schiacciare.
Con la poca forza dei suoi quattro anni, la bambina si ero aggrappata allo stipite della porta, inorridita dal buio e dalle ombre che intravedeva nella stanza. Sul collo, la sua maglietta a righe rosse e bianche si era leggermente scucita e lasciava intravedere i graffi dovuti allo scontro con la mamma.
«Faccio la brava… Non lo faccio più… te li lavo i piatti, te li asciugo… Te lo prometto!»
Uno schiaffo rabbioso l’aveva stordita, tanto che avevo mollato la presa e la donna, svelta, l’aveva spinta dentro, richiudendo la porta a chiave dietro di lei.
La piccola riprese a urlare, ma i singhiozzi le impedivano ormai di articolare le parole, il fiato le moriva in gola, mentre il cuore batteva all’impazzata. Intorno, fiotti di luce penetrati dalle crepe delle persiane balenavano come coltelli, mostrando profili e sagome di mostri, lunghe zampe di ragni, teste di rospi, bisce saettanti, diavoli.
«Mamma… mamma… apri… apri… Non lo faccio più…»
Era ancora lì, sua madre? Era dietro la porta e godeva nel farla soffrire? Certo, era stata una bambina disubbidiente: invece di aiutare in cucina, era uscita in cortile a giocare a pallone con i cugini e gli altri maschi del borgo. I maschi potevano divertirsi. Le bambine no.
Era ancora lì? «Mamma… apri, ho paura!»
Tremava e i singulti le spezzavano le parole. La porta si aprì.
La madre la osservò con gli occhi spenti, con una pezzuola le deterse il volto, controllò i segni bluastri della sua manata sulla guancia, i graffi sul collo, poi le sussurrò: «E adesso taci, non dire niente a tua nonna, né a tuo padre, capito? Dì che hai tirato la coda al gatto…»
Annuì, la piccola, e scese con lei in cucina.
«Questa qui era andata in solaio e si era chiusa dentro, non riusciva più a uscire…», provò a spiegare la madre, poi tornò alle faccende domestiche. Non una carezza a rincuorare la bimba, solo un cupo sguardo di biasimo.
La nonna, però, l’aveva presa in disparte e le aveva detto: «Tua madre è nervosa, sai… il raschiamento… l’emorragia… è stata in ospedale, ricordi?»
Quella parola, “raschiamento”, l’aveva udita diverse volte, ma solo da adolescente ne aveva poi capito il significato.
Quando fu lui, il suo compagno, a prenderla per i capelli e a strapparglieli, scaraventandola contro il muro, per Veronica fu quasi naturale. Fu come tornare a salire quelle scale e precipitare nel buio della soffitta. Lui l’aveva spinta in casa con fermezza crudele, tirandole la treccia, incurante dei suoi lamenti.
Lei aveva alzato gli occhi, ne aveva rapidamente indagato lo sguardo, sorpesa, stordita: in fondo, era uscita soltanto un attimo per salutare un vecchio amico che non vedeva da anni.
Riuscì appena a sussurrare: «Perché?», quando lui la colpì in pieno viso.
Uno schiaffo, poi un manrovescio potente, tanto da farla sobbalzare, la testa spinta all’indietro e il sangue che usciva da un orecchio. Non cadde, perché lui continuava a tenerla per i capelli. Allora, finse di perdere le forze e crollare, tanto che l’uomo mollò la presa.
Lei provò a balzare verso la porta, ma lui la raggiunse e le sferrò un pugno nello stomaco talmente violento da farla piegare in due; poi, le slogò un ginocchio con un calcio e, unendo le mani, la colpì sul capo, facendola stramazzare a terra. Con un ultimo rabbioso calcio, le fratturò un braccio, infine restò lì a guardarla, le mani penzoloni, finché afferrò la giacca e, dopo aver bestemmiato e averla ricoperta di epiteti infamanti, uscì sbattendo la porta.
Lei era rimasta così, stesa a terra, chissà per quanto tempo.
Era svenuta, percepiva l’esigenza di recuperare le forze e la lucidità, tuttavia, si ritrovò sprofondata fino alle voragini di un ovattato delirio.
La parte cosciente di lei non voleva saperne di abbandonarsi a quella immaterialità onirica, a tutta quella serie di immagini che le scorrevano davanti.
La sua anima si agitava, voleva uscire, risalire dal limbo dell’incoscienza e ritrovare il possesso del corpo. Invece no. L’anima scivolò sempre più in basso ed entrò in una sorta di allucinazione visionaria. Sapeva di sognare, eppure soffriva come se fosse vero.
Era di fronte alla porta della camera dei suoi e li osservava, seduti sul letto. Si baciavano e suo padre accarezzava mamma sul volto, sul collo, le scioglieva i capelli e lei diceva no, che doveva andare, che non aveva tempo, che non erano soli: c’era la bambina…
Veronica si era spaventata, aveva provato a chiudere la porta, ma la madre l’aveva vista e si era alzata: «Che vuoi? Perché non sei a fare i compiti? Brutta strega: vai subito in camera tua!»
Le parole del padre, allora, le erano giunte in soccorso: «Dai, lasciala in pace, Marta, vedi che non ha fatto niente di male. Ora l’aiuto io a studiare».
Aveva parlato con la sua bella voce profonda, sollevando un po’ il sopracciglio destro e storcendo leggermente il naso, poi si era scostato i capelli ondulati dal viso e si era messo in piedi, infilandosi la camicia. Era un bel papà, con un portamento energico e uno sguardo che dava sicurezza.
Nel sogno, Veronica pensò che, una volta adulta, avrebbe cercato un marito come lui.
Eppure, c’era quella parola, “raschiamento”, che le creava disagio.
Ricordava anche la nonna che toglieva le lenzuola dal letto dei genitori: erano rosse di sangue… «Emorragia…», aveva sussurrato.
Sognando ancora, vide la mamma che le diceva: «Lui voleva tanti bambini, io no. Avevo appena aperto il mio studio da commercialista e mai mi sarei chiusa in casa a fare figli! Per fortuna, a ogni gravidanza, dopo due mesi abortivo spontaneamente. Lui non capiva quanto dolore fisico e psicologico mi costringeva a sopportare… Non potevo usare anticoncezionali per problemi di salute… Non ti fidare mai fino in fondo degli uomini, non ti fidare…»
Se la mamma l’avesse accoltellata, le avrebbe fatto meno male.
Era solo un incubo, pensò, oppure era tutto vero?
Mentre riaffiorava da quella sorta di letargo capì che sì, era tutto vero e che la mamma non era stata una moglie fortunata.
Uno sferragliare di chiavi e Veronica riemerse dal vaneggiamento allucinato. Spalancò gli occhi; in quel momento la porta si aprì: Daniele era tornato. Aveva in mano un mazzo di fiori e la guardava con tenerezza, come indeciso sul da farsi.
Il dolore la investì all’improvviso, riproponendosi potente insieme alla sua lucidità; riuscì solo a dire: «Aiutami… il braccio… il ginocchio… chiama un’ambulanza…»
Lui le si accosciò di fianco, poi la sollevò e la depose sul divano: «Perdonami, amore mio, perdonami. Ora chiamo il Pronto Soccorso, ma tu… ti prego: non raccontare ciò che ti ho fatto. Non succederà più, mai più. Te lo prometto».
Invece, era stata la prima volta, solo la prima di una lunga serie.
Intanto, l’ambulanza era arrivata e, dopo il passaggio in Pronto Soccorso, Veronica finì in ospedale per accertamenti. Sostenne di essere caduta dalla scaletta retrattile che portava nel sottotetto mentre vi si inerpicava con un pesante scatolone in braccio.
Le credettero? Forse, o finsero soltanto.
E pensare che, quando aveva incontrato Daniele, le era sembrato un ragazzo timido, spaurito. I suoi occhi un po’ obliqui, dallo sguardo attento, erano resi più luminosi e teneri dagli occhiali, ma le mani si muovevano impacciate, cercando qualcosa nel taschino della camicia, in quello dei jeans, per poi afferrare un quotidiano sul tavolino del bar e sfogliarlo distrattamente.
«Mi scusi…» gli si era rivolta lei, «conosce la ditta Gazzi Saraceni? Dovrebbe trovarsi da queste parti, ho un colloquio di lavoro lì, ma il mio navigatore mi invia a un parcheggio fuori paese».
Veronica non era il tipo di donna che passava inosservata: alta, snella e insieme vigorosa, indossava un elegante completo pantaloni blu, di quelli che si scelgono per la festa di laurea. I lunghi capelli castani le ricadevano sulle spalle in boccoli ordinati, freschi di parrucchiere. Aveva occhi grandi, chiari, con una luce decisa, ma anche ingenua.
«Buongiorno, io sono Daniele Saraceni, il figlio di uno dei titolari», rispose lui, alzandosi in piedi e allungandole la mano, «se vuole posso accompagnarla. Stavo giusto andando in fabbrica».
A quelle parole, Veronica gli lanciò un’occhiata indagatrice, mentre gli tendeva la mano dalle lunghe dita affusolate. Da quel momento, incontrarsi negli uffici dell’azienda tutti i giorni, o quasi, divenne routine, poi ci furono i viaggi di lavoro all’estero insieme, e pure qualche vacanza in barca con amici e colleghi. Veronica era sempre guardinga, quando si avvicinava a lui, perché il calore che leggeva nel suo sguardo era troppo allusivo per non restarne turbata.
Daniele non andava mai oltre qualche gentile elogio, tuttavia non erano le parole a sconvolgerla, quanto il tono con cui le pronunciava e il modo in cui la osservava. Manteneva le distanze, ma la corteggiava assiduamente, suscitando in lei reazioni (anche piacevoli) che non riusciva a controllare.
In fondo, era ricco, colto, circondato da belle ragazze - alcune sue dipendenti, altre amiche - perché avrebbe dovuto interessarsi a lei?
Qualcuno le aveva però raccontato di serate un po’ troppo allegre annaffiate da alcool e “neve”, ma lei non ci aveva creduto: Daniele era troppo a modo - persino un po’ timido - veniva da una ottima famiglia e non era certo il tipo da festini a luci rosse. La sua corte garbata la gratificava, anche se mai avrebbe pensato che sarebbe sfociata in una relazione.
Poi, era successo. Durante un viaggio di lavoro a Londra.
Avevano cenato insieme al ristorante, era stata una giornata molto complicata, faticosa, e lei aveva una forte emicrania fin dal mattino.
«Sono sfinita, non so come farò domani…», disse, buttando giù una pastiglia di antidolorifico.
«Ti accompagno fino alla tua stanza, sei troppo pallida».
Erano saliti in ascensore e lui l’aveva abbracciata, poi l’aveva accompagnata fino alla porta di camera. Lei, però, pareva non voler entrare e continuava a starsene appoggiata alla sua spalla, quasi per trattenerlo.
«Dovresti andare a dormire, Veronica… dovresti proprio…»
Lei scoppiò a ridere: «Mi mandi a letto da sola in queste condizioni?»
Da quella volta, non si erano più separati.
Era notte fonda, ormai quasi mattina e, probabilmente, Roma l’avevano passata da un pezzo. Forse erano dalle parti di Napoli. Nel corso di quell’orribile giornata, si erano fermati più volte in autogrill, e lui, durante una sosta, si era pure addormentato.
Aveva dormito per diverse ore, svegliandosi più tranquillo, tanto che l’aveva accarezzata e baciata.
Veronica non aveva provato a fuggire, perché temeva che lui fingesse di dormire e che poi avrebbe reagito facendogliela pagare a suon di botte.
Con circospezione, aveva però di nuovo chiamato il numero della sala operativa della questura, sperando che fosse l’agente “Angela” a risponderle.
Si era subito pentita: un solo squillo e aveva chiuso.
Perché non l’aveva mai denunciato, prima?
Sapeva che denunciare, spesso, diventa una tortura per la vittima, più che per il carnefice, poiché quest’ultimo, alla prova dei fatti, ha sempre intorno una banda di complici potenti, a partire dagli stessi familiari: gente che lo protegge, che nega. Allora, le donne scelgono il silenzio.
Lasciare un violento è sempre pericoloso, lo sapeva.
L’ultima puntata del film, in troppi casi, è il femminicidio.
Erano ripartiti. C’era poco traffico e le auto che andavano nella direzione opposta sfanalavano tra le siepi di oleandro che dividevano le due corsie. Ogni tanto, Davide sorpassava il bagliore rossastro dei fanalini di qualche mezzo; altre volte, da dietro, vedeva raggiungerlo gli abbaglianti di un autotreno, e allora accelerava, per evitare di essere superato. Il paesaggio intorno scivolava via in fretta, mentre si colorava delle luci dell’alba.
Veronica ripensava alle aggressioni subite in quegli anni: presa per il collo fino allo svenimento, la casa distrutta, con mobili ed elettrodomestici devastati; trascinata per la strada, tirata per i capelli dopo una festa da amici, e lasciata lì, con la minaccia di ammazzarla se lo avesse denunciato; di nuovo quasi strangolata e abbandonata svenuta sul pianerottolo, dove l’avevano recuperata i vicini, e lei aveva parlato di un’aggressione da parte di uno sconosciuto. Poi, ossa rotte e la solita bugia: caduta per le scale.
Ora, lui la stava portando chissà dove. Forse verso l’epilogo di quell’orrendo film.
«Li avevi avvertiti, in ditta, che non sarei andata al lavoro? Immagino che tu voglia passare un giorno di vacanza con me...», provò a dire Veronica, in tono conciliante.
«Certamente. Così ci lasciano in pace».
«Mi preoccupa mia madre…»
«Che c’entra tua madre, adesso?»
«Doveva telefonarmi per chiedermi una ricetta… Ho visto che ho il cellulare in borsa… Posso accenderlo per vedere se mi ha chiamata? Così, poi, ci lascia in pace anche lei».
«Attenta, Veronica, non fare la furba. Accendi il cellulare, ma rispondi solo se la chiamata è di tua madre. Non farmi arrabbiare di nuovo, eh! Io sono buono e bravo, ma non mi va di essere preso in giro».
«Siamo sulla A3 Napoli Salerno, ora? Se mi chiama mamma, posso dirglielo? Sai quanto è insistente!»
«Se serve a farla poi tacere, sì, ma non dirle altro».
Erano stati diverse volte ad Amalfi e si erano fermati all’Hotel Marina Riviera, a due passi dal centro; un hotel a cinque stelle, non una pensioncina qualunque. Probabilmente, Daniele voleva portarla da quelle parti.
Ricordava le passeggiate con lui per le lunghe scalinate e sentieri che si arrampicano sul fianco della costa. Ricordava la paura di precipitare, quando si affacciavano per ammirare le acque cristalline in basso.
Precipitare? Che cosa aveva in testa il suo compagno?
Squillò il cellulare. A Veronica tremarono i polsi, quando riconobbe il numero.
«Pronto, mamma?»
«Signora Veronica, lei sa con chi sta parlando, vero?»
«Sì, mamma, abbi pazienza, non ho la ricetta con me! Sono con Daniele, stiamo per uscire a Vietri… mancherà mezz’ora. Se vuoi, più tardi, in hotel, vedo se riesco a richiamarti!»
«Brava, signora. I colleghi l’aspetteranno al casello».
«Certo, mamma, siamo sul camper! Stai tranquilla, dai…»
«Signora, mentre lui paga, lei scenda e corra verso i colleghi, corra più che può!»
«Mamma, sei stressante, lo sai, vero? Ti saluto!»
La fila di macchine, al casello, stava scemando. Daniele le chiese di recuperargli la carta di credito dal portafogli che aveva messo nel cruscotto.
Lei guardò oltre la sbarra e vide le auto della polizia.
Pensò che forse non ce l’avrebbe fatta, che sarebbe stramazzata a terra, e lui le sarebbe passato sopra con il camper. Poi decise: aprì la portiera, saltò giù e corse verso gli agenti.
«Stia tranquilla, ora la portiamo subito in ospedale per farla refertare e medicare…»
Daniele la guardò stranito, mentre lo spingevano in una delle auto. Era finita.
È pericoloso lasciare un violento, ma è più rischioso restare con lui.
«Non dire niente…» Avrebbe detto tutto.
Lei, per la prima volta, ci stava provando.
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