di Normanna Albertini
Recensione di Stefano Pioli*
Quel che distingue il poeta dallo scienziato lo si scopre
partendo dalla questione opposta: cosa li accomuna? Entrambi escono da sé e
vagano nel mondo alla ricerca di quel che è in atto. Il secondo tratta fenomeni
spazio-temporali, assoggettati a leggi ferree, ma in continua evoluzione: quel
che vale oggi sarà contraddetto domani.
Entrambi dicono quello che vedono, sentono, provano,
mescolando sé al mondo, senza soluzione di continuità.
Il limite principale della fisica
moderna è l’impossibilità di separare l’osservatore dall’oggetto osservato, per
cui non può esservi alcuna determinabilità assoluta di alcunché.
Lo stesso accade al poeta, ma
senza che di ciò egli sia crucciato.
E non mi pare che Normanna mostri
di dispiacersene nei versi di questa raccolta.
Ah, dimenticavo di dire che lo
scienziato deve mirare la sua attenzione a un fenomeno alla volta, e solo
quello che si può attestare.
Il poeta è libero di librare a
piacere, e dappertutto, anche oltre la realtà concreta.
Questa è la prima reazione che mi
dona la lettura della raccolta di poesie di Normanna.
Se lei afferma che “sibila il
vento tra gli aghi del pino” significa che lei è là, tra quegli aghi, e da ognuno
di essi sente sibilare il vento.
Magari si trova seduta alla
scrivania di casa, e l’avvenimento è occorso in un altro tempo, tanto la
sua storia personale entra ed esce che è un piacere, fra un carme e l’altro.
Ogni atto descritto è stato
vissuto, ieri, oggi e a volte domani, e il tempo ha smarrito il suo senso, come
capita alle particelle che compongono la luce, per cui esso risulta nullo.
Il fotone, privo di massa, può
essere costì e al contempo colà, tanto che qualcuno ipotizza che
ve ne sia uno solo che scorrazza spensierato in tutto il cosmo. Lo
stesso capita al poeta.
Questo accade alla fantasia dell’uomo, secondo Borges, che
ipotizza un unico libro, da cui consegue un unico scrittore e lettore.
Vaneggio?
Può essere, ma qui sono d’accordo
con Andrea Giannasi, che nel Tentativo di una postfazione giunge a dire
che, a suo vedere, “La poesia… non è e non deve essere figurina o fotografia,
ma solo miccia, accensione detonatore, per fare deflagrare l’anima del
lettore.”
È una frase forte che condivido a
metà: può essere figurina o fotografia, ma non fine a se stessa, ché non deve
mai concludere il suo percorso, ma continuare Altrove, in uno dei tanti rivoli
che compongono il Delta Cosmico.
È energia che diventa massa, e
che si trasforma di nuovo in energia, in un’eterna permutazione, nel rispetto
dell’Unità, come illustrato dal principio secondo cui l’energia di un mondo
rimane costante.
“Se l’albero cade”, nulla andrà
perso perché “cibo diverrà per tanti, e casa, e calore e rinnovamento.” È l’Eternità
che lo promette. E che sia sempiterno lo sancì un poeta, non uno scienziato,
inglese, non Newton, ma Keats, quando scrisse il verso divino “a thing of
beauty is a joy for ever.”
Non tutti i fatti cantati da
Normanna sono belli, e forse nessuno lo è in assoluto, perché tutto è
relativo a chi concorre alla Vita. E qui si gioca l’apparente
contraddizione: se è bello per Normanna, che altrimenti non l’avrebbe inserito
nella silloge, e non lo è per me, in che senso la gioia del poeta è
assoluta?
Il lettore deve raggiungere alla
consapevolezza del processo che è capitato nell’atto di poetare, della sua
genuinità, e deve farlo suo, dimenticando gusti personali e scelte edonistiche.
Quel che conta è la sincerità della ricerca della bellezza da parte di quell’Essere,
che ha compiuto il sacrificio che l’ha poi condotto a scrivere e a
comunicare.
L’avverbio poi non deve
ingannare: per chi ha scritto è stato un tempo unico; per chi legge è un
altro tempo: questo crea l’illusione del fluire dei processi fisici, uno
appresso all’altro, ma qui vorrei ricordare che secondo alcuni “time has
ended”: ormai soltanto un’utile quanto pia illusione.
Vi sono numerose poesie politiche,
in cui Normanna risulta collegata alla polis, all’ambiente sociale in
cui vive.
‘Maschera di plastica’, non so
con quanta consapevolezza, profetizza le scene che capitano agli odierni
cittadini di questo luogo tragico in cui ora si vivono ‘ste assurde giornate
casalinghe.
La nostra esistenza pare
governata da un dio illusorio, non per questo meno temibile, che decide le
sorti di ognuno, sogghignante da dietro la sua “maschera di plastica e
decadenza”.
Si tratta di una distopia che è
oggi banale vita quotidiana, in cui si è tutti condannati all’isolamento da un quid
che non si riesce a definire, se non come irreale, forse artificiale, o
forse conseguenza di un’arcigna Nemesis, che fa scontare in un’unica
soluzione le nostre colpe, oppure naturale conseguenza delle nostre
scelte inumane.
A volte i ricordi è un
carme che m’entra nell’anima e la scuote, perché mostra di conoscermi a fondo.
Quante volte sono stato prossimo a gettare nella campana della carta, anziani
documenti di origine paterna o materna (antichi accertamenti medici,
vecchi appunti, pregresse bollette degli anni della mia giovinezza,
stagionati cedolini stipendiali) e poi ho deciso di salvarli
dall’annullamento, dalla loro trasformazione ecologica, non volendo rinunciare
a quel pezzettino di anima che ancora è racchiusa in quella porzione d’umanità
cartacea!
“Ci vengono incontro parole e
volti… di chi ci ha…”, donato se stessi, come noi stiamo facendo per gli altri.
È un discorso assurdo, anch’esso
irreale ma, se continuo ad ascoltarlo, mi si perdoni, è perché non riesco a
evitarlo.
Perché l’anima racchiusa in quei
brani di cellulosa alla fine equivale a quella che geme nei brandelli dei
ricordi, come se fossero parole ancora pronunciate da chi non c’è più, ma non è
meno caro per questo.
Come la frase che disse (e sta
ancora dicendo) la mamma alla domanda che le rivolge Normanna, su cosa facesse
quand’era disperata: “Alzavo gli occhi, e guardavo le montagne.”
La poetessa ha salvato per sempre
quest’atto religioso compiuto giornalmente, che rimarrà fissato in un unico ed
eterno attimo.
Per sempre, in Figli per il
mostro, il giovane destinato a morire in guerra, lontano da casa, per
l’eternità dirà alla madre della necessità del suo sacrificio per amore della
patria: quel figlio che “non c’è più” non cesserà mai di salutare la madre alla
partenza e d’essere da lei rimpianto.
In Prima della soglia,
Normanna dichiara la sua paura, quando è cosciente di vivere in un mondo in cui
ci si ferma “alle parole”, resi infelici da una finta spiritualità, fondata sul
commercio e sull’inganno.
È un mondo, quello descritto in Percezione
imperfetta dei pericoli, in cui si tagliano gli alberi, adducendo timori
assurdamente umani, che sconvolgono la natura, a cui si tolgono le risorse che
dovrebbero aiutarla a renderci il mondo più vivibile.
In Evoluzione è descritto
l’odore moderno, “di benzina e gasolio, di rifiuti in decomposizione” che ci
nega gli antichi effluvi che variavano “a seconda delle stagioni” e che resta
costante tutto l’anno.
In Nostalgia delle pareti,
la poetessa non ci sta e continua a inseguire quel che ancora riesce a
disperdersi per tutti, ma non per lei, che ne continua ad aver coscienza
imperitura: “I semi danzano e vanno, volano, orientati dal cosmo”.
La pietra e l’albero coglie
un altro mio sentimento: quella pietra, ma anche quel ramo, tutto quel che pare
immobile, e lo è da prima che lo si scorga, e tale rimarrà per tanti ancora,
avrà coscienza del mio fissarlo e nel riconoscere quel che è suo? Avrà il
diritto a un’esistenza che per alcuni non ha alcun senso?
Egli rimarrà per centinaia di
anni, in cui assisterà, non al disprezzo, peggio: all’indifferenza dei morituri,
di chi ogni volta gli passeranno accanto, per cui scomparire di lì appresso,
senza mai scorgerlo.
Neve di febbraio racconta
il nostro timore “di morire di quiete” e dell’“ascolto della mente” che ci
conduce a fuggire il silenzio che una nevicata febbraiola offre a
quest’animale inquieto e incapace di apprezzarne la ricchezza.
Cadono, i ponti: ecco un
esempio di quelle che Andrea definisce “poesie ‘sbagliate’”, potenti, ma
sgraziate, irregolari e che sorgono “dalle cicatrici, dalle rughe”.
Non è affatto una poesia bella,
né essa offre quella promessa d’eternità di cui si diceva. Il suo valore è qui
ed ora: è una denuncia che la poetessa lancia in faccia al potere economico che
ha causato la morte e la distruzione dell’esistenza umana, causata da
“infiltrazioni d’odio… infiltrazione nervose e marcescenti di infelicità…”.
In L’erba spigarella,
Normanna torna a inseguire i “pollini” che “volano – invisibili – non curandosi
dei confini.” Non si può mica passare la vita a imprecare contro l’uomo: c’è
ancora parecchio da gioire!
Per ultimo vorrei commentare le
poesie Il fico d’India e Il cactus, la prima perché ho imparato
ad amare questa pianta da adulto, da quando l’ho conosciuta in paesi remoti: un
Essere che acquista la massima sua bellezza al tramonto, quando il sole,
declinando, s’insinua in un anfratto pentagonale creato dalle sue sinuosità, e
pare per un attimo prigioniero: tempo poche ore ed esso risorgerà ancora più
fulgido.
De Il cactus ho apprezzato
il sogno che esula dal suo essere una pianta povera, il cui “fiore dura solo un
giorno”, grazie a cui egli può augurarsi l’impossibile, anche quello che non
avrà mai: “la pelle liscia delle mani”.
Questa la magia dei sogni: creano
una realtà alternativa. Ed è questo che muove la poetessa, il desiderio
d’incontrare un mondo, ove le leggi sono sì ferree, ma impalpabili.
Questi sono i carmi che più
m’hanno condotto a reagire. Ad ognuno i suoi…
La poesia di Normanna sa essere
ligia alle regole metriche, con qualche sapiente rima; altre volte è adottato
il verso libero, quando la rabbia e l’impeto della condanna non cessa di
ribollire nell’intimo.
L’essenziale è che lei sia sempre
capace di donare se stessa, in sacrificio, a chi è disposto a continuare dentro
di sé, per parecchio tempo, anche lui ora sognando, la propria esistenza.
E ora a te.
* Stefano Pioli vive a Reggio Emilia. Attualmente è un ispettore Inps. È nato in via Gondar,
quartiere delle Reggiane, ex industria bellica dove lavorava il padre, famosa
per una occupazione nel ‘51 contro i licenziamenti. Nel corso dell'occupazione
fu progettato e prodotto un trattore chiamato R60 per dimostrare che l'azienda poteva
riconvertire la propria produzione da bellica a macchinari per l'agricoltura.).
Si divide fra Reggio e Amalfi, dove la moglie insegna e si è trasferita tre
anni fa.
Bellissimo articolo... Sante parole... E dette con grazia, attenzione e acume. Grazie
RispondiEliminaEmanuela