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Foto di Emanuela Rabotti |
Non ho mai dormito così tanto e
così bene.
Mi sveglia la litania tenue,
piacevole, filtrata dai muri divisori, del rosario di Radio Maria, abitudine
mattiniera della mia vicina.
Al contempo, si apre il concerto delle
gazze, unito al baccano delle cornacchie e al grido di una pappagallina che, da
mesi, staziona da queste parti, dopo essere sfuggita al propietario.
Lei libera, io in gabbia.
Le mura di casa come orizzonte: il
bianco ormai opaco delle pareti che avrebbero bisogno di diverse mani di
tempera. Per fortuna, vi ho appeso molti quadri e foto incorniciate, così copro
il brutto color “Isabella” e, ogni tanto, mi soffermo a pensare “to’, quello
l’ho disegnato a scuola quando insegnavo a Gatta”, “ve’, quella foto l’ho
scattata ai miei figli quando, a carnevale, ci fu una bufera di neve”.
La mente va, si tuffa nei
ricordi, sorride.
Io che insegnavo a Costa de’
Grassi, dove abitavo, quando un’improvvisa, terribile nevicata, sostenuta da un
vento furioso, quasi ci impedì di percorrere le poche decine di metri fino a
casa. Arrancai in mezzo alla neve, senza vedere niente, con i miei figli per
mano. Era tutto assurdo ed era successo nell’arco di forse mezz’ora.
Il paese bloccato, mura di neve
ovunque. Era la fine di febbraio, o forse era marzo, perché poi la neve si
sciolse presto e tutto tornò alla normalità.
Ora non è la neve a bloccarmi in
casa. Magari fosse così: basterebbe il sole a liberarmi.
E per fortuna, ho la
portafinestra di cucina rivolta a Sud, verso il tramonto, verso la Pietra di
Bismantova e il Monte Ventasso, e la vedo, la neve, sul Monte Casarola e penso
che lassù in mezzo c’è Valbona, il paese d’origine del mio bisnonno materno
pastore.
Gente abituata a camminare, gente
che si spostava dietro le greggi fino al Po o verso il Mar Tirreno. Devo aver
conservato dentro qualcosa di quelle transumanze. Dentro: in qualche parte
profonda di me, perché l’immobilità (anche di pensiero) fatico a sopportarla.
L’occhio umano ha bisogno di luce
e di verde, ha bisogno di orizzonti lontani, ha bisogno di spazi su cui vagare.
Non siamo diventati homo sapiens
nel buio dell’inverno polare: veniamo dall’Africa, dalle savane, dalle
immensità delle praterie e, in quei luoghi, i nostri occhi impararono a
misurare il tempo e lo spazio, a respirare l’infinito. Imparammo a sollevare gli occhi al
cielo e a lasciarsi accompagnare dalle stelle.
Siamo creature con gambe e piedi predisposti
per camminare.
L’immobilità, come bene ci
insegnano con la loro irrequietezza i bambini – che noi costringiamo per anni,
e per ore e ore, ogni giorno, su una sedia – non è adatta ai nostri corpi,
ancor meno al nostro spirito e alla nostra mente.
Siamo fatti per viaggiare, e per
viaggiare in gruppo, fraternizzando l’uno con l’altro, sostenendoci se cadiamo,
dividendo il cibo in modo che nessuno abbia fame. Non fosse questa la nostra
vera natura, oggi non saremmo quasi dieci miliardi sulla terra.
È questa la nostra vera natura;
prova a ricordarcelo il terribile virus venuto dall’Oriente (da Oriente, come
tanto male e tanto bene, nei millenni). Ci prova in tutti i modi, rivelando i
crimini del neoliberismo sfrenato, mostrandoci i danni di una politica
asservita, prona, schiava del capitale.
Ci prova, sbugiardando i propugnatori
delle “razze” superiori, delle “civiltà” superiori, ora costretti ad accettare
l’aiuto di popoli definiti “canaglie”.
La civiltà, come disse uno
studioso, non comincia con la ruota o con il fuoco: comincia con il primo
femore rotto e curato.
La vera civiltà è occuparsi del
bene di tutti e tutti insieme.
Intanto, in uno dei Paesi
“civili”, un diciassettenne viene lasciato morire di Covid19 perché non ha
l’assicurazione.
“Non chiamatela civiltà”, ci sta
dicendo il virus venuto dall’Oriente (come i Magi e come Gengis Khan. Come la
carta e come gli spaghetti. Come, forse, la bussola).
Non è civiltà non poter far
fronte a una pandemia, quando si continua a spendere per fabbricare
bombardieri. Quando si è costretti, persino in questi frangenti, a lanciare
appelli perché le guerre in corso vengano sospese.
Ci parla, ci indica una
alternativa, il virus orientale, venuto da dove nasce il sole.
Forse dovremmo concentrarci sul
suo messaggio, forse dovremmo “ubbidirgli” (da “ob audire”, ascoltare con
attenzione, capire, sentire davvero), non sottovalutarlo, lui, così
infinitamente piccolo e tuttavia intriso di immensa potenza.
Ci richiama, il piccolo essere
non vivente, eppure tanto potente, alla nostra verità di esseri mortali e
inermi. Mortali, soli, pellegrini, in questa vita, tutti allo stesso modo.
Abbiamo costruito un mondo dove
il nostro corpo, ma anche il nostro istinto, il nostro buon senso non vengono
più ascoltati nemmeno quando sarebbe possibile farlo. Chi ancora vive nelle
tende dei deserti – che sia la Mongolia o il Sahara – dice che non sopporta le
pareti, dice che si sente soffocare. Chi dorme con l’aria della notte sul viso,
dice che non sopporta le finestre chiuse nemmeno se fa freddo. Ma non sono solo
i muri a circoscrivere una prigione.
Ci sono oggi, per colpa del
virus, corpi e menti imprigionati tra pareti: è vero!
Tuttavia, la vera prigione è
altro. La vera prigione sono le reti vischiose e aggrovigliate dei bisogni
indotti: troppo cibo, troppe sostanze “ludiche” inutili e dannose, troppo stupido
“divertimento”, troppa finta bellezza che diventa schiavitù (perché bisogna dimostrare
di essere vecchi “giovani” a tutti i costi), troppa energia sprecata in
cattiveria o solo per arricchirsi calpestando gli altri, troppi legami e
contatti continui frenetici, non autentici, che fanno sperperare tempo, forze,
denaro e vita.
La pappagallina scappata dalla
gabbia che, ogni giorno, viene a salutarmi sul pruno vicino al mio balcone (e
mi guarda di sottecchi, per poi fare qualche passo sui rami e dondolare il capo
– quasi a dirmi che qualcosa non va), sa quanto sia importante dare retta al
proprio istinto, quanto la libertà valga più della paura della fame, della
paura della malattia, della paura della morte.
Lei sa quali sono i suoi bisogni
concreti: mangiare i fiori del mio pruno, scacciare le gazze che la disturbano,
andare a rubare un po’ di cibo alle galline del vicino a cento metri da casa
mia, stare al sole, con la testolina sotto l’ala, e dormire.
Io non dormivo così bene da
tantissimo tempo. Mi pesano le pareti di casa, tutto attorno, eppure…
Non ho l’adrenalina che fluisce
rabbiosa nelle vene di quando andavo a lavorare, di quando dovetti, per tre
anni, accudire mia madre (e stare sveglia di notte), di quando, solo poche
settimane fa, il traffico, in strada, continuava per tutta la notte.
Non ho il nervosismo accumulato
nelle estati assordanti costellate di urla adolescenti e sguaiate, di musica
fino alle due di notte, di televisioni accese a tutto volume nelle case
intorno.
Mi riposo. Fuori, i merli, le
cince, le cinciarelle, il pettirosso, i passeri cantano come mai mi era
capitato di sentire. C’è anche un usignolo che comincia ben prima del rosario
di Radio Maria a innalzare al cielo il suo canto.
Dormo, e recupero i ritmi
istintivi che il mio corpo conserva intatti.
Ho tempo per pensare, per
leggere, per ascoltarmi. Così, la mia pressione sanguigna, di solito un
po’ alta, si è quasi normalizzata.
Recupero i ritmi della mia
infanzia, con la stufa a legna da accendere con calma, il pane da impastare, le
pulizie di casa da eseguire un po’ più a fondo (ma anche da lasciar perdere,
tanto le si può rimandare al domani), i gesti quotidiani che perdono
concitazione e affanno.
Porto in casa la legna e tolgo la
cenere dalla stufa, poi l’accendo e mi godo quel caldo che nessun termosifone mi
potrebbe dare.
Pazienza se la cenere sporca un
po’. C’è l’aspirapolvere.
Sono gesti che contengono sempre
un ricordo.
Mia madre che si alzava alle
quattro del mattino e che, prima di andare nella stalla a mungere, accendeva la
stufa e preparava la tavola per la colazione.
Lo ha fatto fino alla pensione.
Lo ha fatto per tutta la vita.
Ma come ha potuto resistere? Non
era l’unica: lo facevano tutte, in campagna. Dovevano.
Poi, un po’prima che ci alzassimo
noi bimbi, verso le sei, mia madre rientrava e metteva a bollire il latte
appena munto, così che, quando scendevamo in cucina, era lì, bello caldo, su un
angolo della stufa, insieme al pentolino di smalto rosso arancio del caffè
d’orzo. Ci lasciava soli a letto dalle quattro di notte in poi. Lo facevano
tutti.
Tutti noi bambini eravamo
estremamente liberi, ma ben consci dei limiti della nostra libertà, che erano
quelli delimitati dal pericolo.
C’era sempre il bambino stolto,
il Lucignolo della situazione, che tendeva a sfidare i pericoli ma, in genere,
si rispettavano i divieti senza che ce lo dovessero dire troppe volte.
Era un altro mondo.
Era una umanità, quella dei nostri
genitori e dei nostri nonni, di sopravvissuti.
Erano usciti dalle guerre, dalla
Spagnola, dall’Asiatica, dal tifo, dal colera, dalla tubercolosi, dalla
poliomielite, dalla difterite, dalle epidemie animali di “zoppina” (afta
epizotica) che isolava i paesi, nei quali bisognava restare rinchiusi, con la
calce viva sparsa ovunque, fino a che l’infezione delle mucche e delle pecore
non finiva.
Me lo raccontò mia nonna Eva, una
volta: c’era stata la “zoppina” a Soraggio, paese di mio nonno Carlo, quando
loro erano morosi.
Lei, che abitava a Gombio, non
potè vederlo per settimane.
“Quando finalmente finì tutto e
lo vidi arrivare”, mi confidò, “mi sembrò di vedere Gesù Cristo.”
Brava Normanna, questa emergenza è come una improvvisa povertà, che dà il senso alla ricchezza. Ricchezza vera, non quella delle "cose", possesso che ci rende schiavi. Siamo diventati schiavi delle cose che possediamo. Mi ci metto anche io, non sono un'anima bella. Però di questa reclusione non tollero le assurdità: le punizioni per comportamenti non dannosi, contrapposte al continuare la produzione di armamenti e altre cose inutili. Attenzione, non dobbiamo diventare reclusi e negarci una passeggiata con i nostri conviventi, tutelandoci e tutelando, reclusi che continuano a consumare, consumare... nonostante tutto.
RispondiEliminaMi piace fin da bambina toccare le pietre delle vecchie case quando ci si posa sopra il sole. Ma le pietre delle case vecchie, quelle tagliate a mano. Quelle che ancora ci sono nelle case del Cerreto come negli altri nostri paesi vecchi. La loro durezza è una forza bella che restituisce il calore del sole perché la natura ci dà sempre quando partecipiamo al suo ciclo e restiamo in ascolto. Mi piace tenere in mano un sasso mentre cammino in un bosco, mi sento radice e terra, mi sento parte del cosmo e questo tuo bel pezzo scritto con semplicità, che non vuol dire semplice, lo raccolgo così, come quel sasso, bello, e lo porterò con me, così, semplicemente, in questo cammino nuovo tra i muri di casa. restituendomi un po'di antico calore. Grazie davvero per questo regalo oggi, giorno di Pasqua.
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