Si tratta di una mia vecchia intervista del 2002; nel frattempo, Giuseppe Calcagno è morto. Sono felice di aver raccolto per tempo la sua testimonianza
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Terre d'Africa |
Il
dipinto, nelle diverse tonalità del colore del cielo, ritraeva uno zingarello
che giocava con un bastoncino. Il “maestro” era nel suo “periodo blu” e allo
scolaretto, che sostava sognante dinanzi all’opera, chiese: “Il te plait?” “Oui,
maestro” , rispose il bambino. “Italianito?”
continuò Picasso e, alla risposta affermativa del piccolo, staccò il quadro
dalla parete e glielo donò. A quella
mostra di pittura a Vallauris, Giuseppe Calcagno era stato accompagnato dagli insegnanti con
tutti i bambini della scuola; aveva poco più di dieci anni e viveva in Provenza
da quando ne aveva tre. Da quando il padre, socialista convinto, aveva dovuto
abbandonare la sua Torino per “incomprensioni” con il regime dell’ Uomo della Provvidenza, come papa Ratti
aveva definito un altro ex socialista di Predappio. Lo incontriamo a
Cervarezza, nella sua bella villa di foggia alpina, dove si è stabilito da
qualche anno con la moglie dopo aver condotto una vita nomade in vari paesi del
mondo. Qui ha ricreato un piccolo angolo di terra provenzale, con gli stessi
profumi forti della lavanda, del timo, dell’erba limoncina. “Ah la Provenza! – ci racconta – è il paradiso sulla terra! Mio padre
lavorava nella compagnia francese dell’alluminio, la Pechiney, e nel villaggio
di operai dove abitavamo erano presenti ben 16 nazionalità diverse. Soltanto
gli arabi vivevano separati e ad essi erano assegnate le mansioni più
pericolose, che comportavano l’uso del cloro. Ne morivano tanti. Noi, invece,
stavamo bene. Ricordo che la mamma apparecchiava sempre per qualcuno in più,
perché era normale che a tavola si aggiungessero, di volta in volta, socialisti
o anarchici italiani. Ai primi di giugno del ’40, quando gli alpini irruppero
nel villaggio, li accogliemmo con una grande festa.” Nel ’43 la famiglia Calcagno rientrò in
Italia, ma alla frontiera venne letteralmente spogliata di ogni avere dalla
polizia, compreso il ritratto dello zingarello, dono di Pablo Picasso. Cominciò così una lenta e faticosa
risalita, fatta di tanto lavoro, sacrifici, intelligenti intuizioni, che
permisero a Giuseppe di conseguire un diploma e cominciare un’attività di
venditore all’estero per conto di grandi ditte. “L’unico paese dove mi sono fermato soltanto per ventiquattrore è
l’Etiopia- continua Giuseppe- erano
gli anni ottanta e il mio primo incontro ad Addis Abeba fu con i soldati cubani
di Fidel.
Stavano maltrattando dei bimbi che giocavano su un marciapiedi; intervenni
chiedendo spiegazioni. Mi aggredirono insultandomi; io ripresi l’aereo e lasciai l’Etiopia.” I
corpi di spedizione cubani, insieme con navi ed aerei dell’Armata Rossa, erano
in Etiopia dal ’77 per respingere le offensive del Fronte di liberazione
dell’Eritrea (anch’esso marxista- leninista come il regime etiopico) e
dell’esercito somalo. Negli anni successivi
la politica dissennata e violenta di Menghistu portò alla completa
catastrofe agricola, amplificata dalla siccità, che sprofondò il paese in una
miseria inenarrabile. Soltanto “Médicins sans frontières” ebbe il coraggio di opporsi agli inutili e
controproducenti aiuti internazionali, compresi quelli, famosi, della campagna
delle rockstar americane, interpreti dell’inno We are the world che, ancora nel 1985, foraggiarono il dittatore lasciando
a mani vuote il suo popolo. Ma sono tanti i popoli e i paesi di cui ci narra il
signor Giuseppe, e il suo racconto è “affollato” e difficile da dipanare:“ In Afghanistan arrivai per caso, perché in
Iran avevo incontrato l’architetto generale della città di Kabul. L’Afghanistan
era poverissimo, ma meraviglioso, impressionante per la gentilezza, la pulizia
e l’onestà della gente.
Le donne lavoravano e andavano a scuola. Contattai
Rahaman Rahime, un impiegato del ministero con il quale dovevo prendere accordi
per la costruzione di uno stabilimento di acque minerali. Mi invitò a pranzo a
casa sua e lì trovai…i tortelli di erbette! Spiegai che si trattava di un
piatto delle nostre zone, mi risposero che era una pietanza tipicamente
afghana. Era davvero un luogo splendido,ma l’anno dopo sarebbero arrivati i
Russi…” Giuseppe ci spiega che l’unica nota stonata era l’odio tribale, inevitabile
in una popolazione composta da Pashtun, Tagichi, Uzbechi, Hazari, Turkmeni,
Kirghisi, Baluci, Aimaq, Kohistani, Nuristani, uniti soltanto
dall’Islam. I Russi arrivarono nel
dicembre del ’79 con l’operazione “Burrasca 333” e vi restarono fino al
1989, quando si ritirarono, lasciando però sul posto 200.000 soldati fino al ‘92. Le atrocità commesse dai sovietici
furono quelle comuni a tutte le guerre, con l’aggravante che di questo
conflitto i mass media non parlavano, come d’altra parte non rendevano
pubbliche le efferatezze che la resistenza
afghana, sostenuta dagli Stati Uniti, compiva sulla gente. In realtà, la “Guerra Fredda” è stata molto
calda per le popolazioni che l’hanno
subita. Un altro paese visitato da Giuseppe Calcagno, martoriato e mutilato da
ripetuti conflitti, è il Libano: “Vorrei
poter tornare nel vecchio Libano…il pane libanese…la cucina favolosa…e la
gentilezza delle persone…E’ tutto cambiato ora.” La cucina araba e
mediorientale ha veramente sedotto
Giuseppe, che ne parla con un entusiasmo tale da farcene quasi sentire gli
aromi e i sapori. In Arabia Saudita, a tavola con i Paperoni del petrolio, come Abdallah al Masheish, o in
Libia, con Alì el Shangry, amico di Jallud,
o ancora in Egitto, dove gli avevano commissionato un progetto per
l’imbottigliamento dell’acqua dei
faraoni, in un’oasi nella depressione di El Kantara, dice di aver trovato
cibi di una prelibatezza straordinaria e irripetibile. “Ricordo
dei filetti di cammello talmente piccanti che pasteggiammo bevendo wischky…” Alcolici nei paesi dell’islam? “Uh!
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Elicriso |
Quanto bevono quegli sceicchi!- ride
il signor Calcagno- gli alcolici non si
possono commerciare, ma in casa ne hanno armadi strapieni!” Nel salotto
della sua bella villa di Cervarezza conserva alcuni souvenir dei suoi viaggi,
tra i quali una cavigliera d’argento finemente lavorata a sbalzo. “Una bella ragazza africana me la cedette in
cambio di un paio di scarpe, mi capitava spesso di usare il baratto come
tecnica di commercio.” E a proposito
di contaminazioni alcoliche europee, ci racconta di aver incontrato in Nigeria,
nella foresta, un re, seduto ad un tavolo, nella sua capanna. Sul tavolo,
vicino ad un’amarissima noce di cola che il re masticava, c’era una bottiglia
di…Campari! Gli chiediamo cosa lo ha condotto sul nostro Appennino. “Rifornivo d’acciaio una ditta di
Montecavolo- risponde- e il
proprietario mi propose l’acquisto di questa casa. Il clima qui è meraviglioso,
simile a quello della Provenza, quindi decisi di fermarmi. Purtroppo i
montanari sono chiusi, legare è difficile: ancora oggi io e mia moglie Elsa
siamo considerati stranieri.” Nel salutarci ci dona manciate di foglioline
di timo e lavanda e poi una poesia, che è quasi il manifesto della sua irruente
e contagiosa gioia di vivere: “ Finchè…domani…il
profumo della lavanda/ annuncerà al cuore l’estate/ risentirò la felicità/
inebriare il mio cuore/ Avrò ancora i miei vent’anni/ e lo spirito non
invecchierà.”
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