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Libro partecipante al concorso "Il mio libro 2017"
contenente il racconto "Core"
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Eccomi. Sono qui, aggrappata alle parole. Passeggio tra le
lettere, respiro il profumo dell’inchiostro.
Eccomi sveglia, dopo chissà quanto. Sono sveglia,
improvvisamente, e non capisco.
È pergamena la materia che mi circonda, pelle disseccata di pecora.
La vedo per quel filo di luce che filtra da una crepa nel legno. Che ci sarà
oltre?
Provo ad avvicinarmi. Un muro, e un’altra fessura. Una
stanza bianca, pulita, straordinariamente pulita.
Non c’è fuliggine sulle travi, non c’è terra sul pavimento.
Ma dov’è il focolare? Perché deve essere una cucina: il profumo di buon cibo è
forte. Tanto da svegliarmi.
Incollo un occhio alla fessura. Un occhio? Ho gli occhi? Ma
chi, “cosa” sono io? E perché sono qui?
C’è una donna là, nella stanza. È bionda, bella, indossa uno
strano vestito, bella, bella, ma pare inspiegabilmente anziana.
Le vecchie non sono mai belle. Lei sì. Bionda, e con un bel
sorriso: ha tutti i denti. Canticchia, e maneggia lucide pentole di metallo.
Lucide come spade.
Che torpore. Mi sono svegliata, ma non ricordo di essermi
addormentata. E dov’ero? Dove sono? Lettere e parole intorno a me, un rotolo di
gialla pergamena in cui riesco a scivolare, inciampando appena nei rilievi
dell’inchiostro. Sono morta, sono viva: non è tanto diverso; ma non è neanche
la stessa cosa.
Mi vedranno? Mi sentiranno?
In fondo, povera e piccola come sono, la gente non mi ha mai
visto. Mi incontrava, ma non mi vedeva. Come se fossi già morta. E se sono
morta, chissà se anche la morte, come la vita, avrà una fine.
E chissà se adesso mi sarò svegliata in un’altra vita. Afferro
con le mani (ho le mani?) un lembo del foglio e provo ad uscirne. Sono
rinchiusa tra pareti di legno (una cassa?) illuminate da quell’unica, lunga
fenditura. Però, poi, c’è un muro. Sento la polvere della malta.
Sono morta, viva, o pazza; è un sogno? Chi, “cosa” sono?
Fermi! Zitti! Ora c’è un uomo nella stanza, sento la sua
voce. L’occhio appiccicato al buco mi si annebbia per lo sforzo, però riesco a
vedere le mani dell’uomo, e i suoi fianchi.
È un uomo o un gigante? Deve essere molto, molto alto.
Rotolo, rotolo. Mi avvicino a un’altra crepa, quella nel
muro dalla quale mi arriva un forte odore d’erba bagnata e di fiori. Rotolo,
rotolo, esco dalla cassa, rotolo verso la luce e l’umido fragrante.
Non so chi, “cosa” sono, ma la libertà è estasi, è un fiotto
di stupore e gratitudine che sgorga apertamente
dal cuore e si fa preghiera. So pregare? E chi dovrei pregare?
L’uomo, che prima era in casa, ora è lì, in mezzo al prato,
e parla con l’anziana signora bionda.
“Vede: ciò che coglie un pellegrino quando si affaccia per
la prima volta sul sagrato della chiesa di Pianzo è la vertigine, perché tanta
bellezza proprio non te l’aspetti, e ti ci vuole un po’ per metabolizzarla.”
Lei s’appoggia al muro di recinzione e annuisce: “La
spiritualità magnetica di queste antiche pietre è potente; ti osservano, ti
abbracciano e sembrano respirare. Anche ridere alle tue spalle, appena ti giri.”.
“Se arrivi fin quassù, non andresti più via,” dice lui,
“sono il custode da quarant’anni; ho provato a ritirarmi, a fuggire, ma sono
sempre tornato. Tornavo soltanto per le vacanze, le prime volte, poi per
sempre, perché qui si vive, in città si sopravvive.”.
“C’erano muri crollati, rovi, sterpi: lo ricordo bene
com’era prima del restauro;” lei si sposta adagio, “praticamente un bosco fitto
nascondeva tutto. Non c’era acqua, né luce. La chiesa era abbandonata, la messa
vi si celebrava soltanto a ferragosto, non c’era la strada; persino il cimitero
era in rovina e la gente non aveva nemmeno più il coraggio di far visita ai
propri defunti. Ah, lo ricordo, sì... sono abbastanza vecchia.”
“Per fortuna siamo riusciti a recuperare quasi tutto. Le
pietre, tagliate e squadrate, vede? Vede come sono precise?”, lui ne accarezza
i contorni, “Ecco: si dice che provengano dall’antico tempio dedicato a Venere
sul vicino Monte Venèra, dalle parti del torrente Tassobbio, mentre la
costruzione risalirebbe al periodo dei Longobardi. Però, qui mi fermo: la
professoressa... è lei.”.
La signora bionda sosta sotto il portale della chiesa e
guarda in su: “La pratica edificatoria è quella tipica dei maestri comacini, sì,
sì,con i conci che aderiscono perfettamente l’uno all’altro, quasi senza l’uso
di malta. Era l’arte dei Romani che, in mezzo alle distruzioni seguenti, rimase
viva grazie a loro, ai comacini. Liberi muratori, già.”
L’umido del terreno e dell’erba, probabilmente annaffiati da
poco, mi impregna e mi agita, quasi come se mi spingesse a uscire da una
prigione, a liberarmi da una corazza. Non so chi, “cosa” sono, e non so perché
sono qui. So che mi ero addormentata, che ero in un bosco, e che c’era acqua.
C’era una cascata.
Non so cosa sono e non so chi siano i due che parlano sul
prato.
Però ho davvero dormito tanto. La pelle mi si gonfia, mi fa
prurito. Come allora, alla cascata, quando l’acqua mi aveva sfiorata, ma poi le
mani svelte di una ragazza mi avevano messa al sicuro.
“Guardi, guardi!”, s’infervora la signora bionda, “lassù...
di sotto alla bifora, sopra il portale, guardi quella pietra pentagonale lavorata
in bassorilievo che somiglia a una conchiglia!”.
“ Strano, eh? Deve essere una figura femminile nuda, vede? Ha
busto e braccia corte che stringono le gambe divaricate fino a formare le corna
di un bue. Le racconto questa: tempo fa è stato qui il figlio del console d’Irlanda;
appena giunto sul sagrato, si è inginocchiato e ha cominciato a piangere.
Sembrava che avesse trovato qualcosa cercato da tempo, ma parlava la sua lingua
e non sono riuscito a capirlo. Certo, i simboli celtici qui sono tantissimi: le
rose, i cerchi concentrici, e la figura in questione potrebbe essere una
divinità di quel popolo.”
La professoressa non riesce a staccare lo sguardo dall’immagine
sovrastante il portale archivoltato: “La sua postura, con i genitali in
evidenza, fa pensare ad una divinità collegata al culto della dea madre e della
luna. Si pensa che le corna del toro,
richiamate dalla posizione delle gambe, fossero associate alla luna, divinità della
fertilità. Simboleggiavano le vacche come fonte di vita attraverso il latte. Le
feste celtiche della luna erano le feste delle coltivazioni... la luna stessa
modello di fecondità ciclica, di rinascita, unita alla donna-madre dai cicli
mestruali. Mah... Forse si tratta semplicemente di un’immagine apotropaica,
cioè di buon augurio, una delle tante nella nostra montagna poste a protezione
delle porte, dei cancelli e dei ponti per allontanare gli spiriti maligni.”.
Il custode raccoglie un rastrello e lo sistema vicino alla
falce accostata al muro: “ E se fosse semplicemente l’opera rozza di qualche
montanaro? Comunque, della leggenda di cui lei mi ha parlato, la cassa
contenente materiali riguardanti i misteri celebrati nei culti di... Venere? Ho
capito male? Insomma: io di quella leggenda non so proprio niente, mi
dispiace.”
“Ritornando al figlio del console irlandese, capisco la sua
commozione,” precisa la sognora bionda, “ho visto spesso, in Irlanda, su
capitelli e colonne di antiche chiese romaniche, figure femminili che, con le
mani, divaricano le gambe. Sono resti di arcaici culti della fertilità. Qui, la
donna raffigurata nell’atto di mostrare la sua vulva cambia e diventa una
sirena bicaudata. Solita pudicizia bacchettona che nasconde i primitivi riti e
li ripropone in modo che non scandalizzino. Comunque, i materiali che sto
cercando riguardano la dea Cerere...”.
Conosco quel nome. Ecco i ricordi: l’acqua, il torrente, le
pietre. Ecco le donne che giungevano con le loro vesti bianche e i cesti colmi
di fiori, spighe di grano, erbe profumate. Ecco i maialini per il sacrificio.
Cerere, la nostra dea. Il santuario sul torrente, nascosto
dal bosco, era formato da enormi massi lisci, dove le donne avevano inciso
profondi solchi paralleli e coppelle. Ora la memoria ritorna, ma la mia pelle è
sempre più gonfia, screpolata: fatico a sopportare lo spasimo. E quel mostro,
quel mostro nero che mi si avvicina...
Mi solleva, si muove, mi trasporta su, su, si arrampica sul
muro.
Era stata una festa frastornante e incantata, quella volta,
al santuario segreto di Cerere.
Soltanto le donne sapevano dov’era e soltanto le donne
potevano guardare e toccare la grande statua della Dea.
Le madri, facevano
scorrere il loro latte nei canaletti delle rocce, così da nutrire la terra, e
le donne mestruate le seguivano, offrendo il loro sangue. Poi, ecco il grano:
le spighe battute a forza sui massi e i chicchi che scivolavano nell’acqua.
L’acqua... Mi aveva salvato la mano di una ragazzina che mi aveva riposto in un
vaso. Così non avevo visto scannare il maiale e versare il suo sangue nel
Tassobbio. Però, ne avevo udito le grida acutissime, che si erano mischiate ai
canti e alle danze vorticose delle donne.
E ora il mostro nero mi riporta nella crepa del muro. Ora so
chi, “cosa” sono: un chicco di grano, e sono femmina, figlia di Cerere.
“Guardi quella formica, professoressa,” dice il custode,
“porta un peso enorme per lei.”
“Aspetti... c’è una bella fessura lì... Ha una torcia?”
Hanno tolto una pietra, hanno trovato la cassa, l’hanno
aperta.
“To’, un chicco di grano! E delle lastre di metallo con
delle iscrizioni! E un chiodo per appenderle! E una pergamena... Professoressa,
riesce a leggere cosa c’è scritto?”
“È medievale: latino. Parla del ritrovamento di un vaso
contenente del grano e queste lastre su cui sono scritte le regole per il culto
del tempio e della statua di Cerere. Lo salviamo, questo chicco, cosa dice?
Avrà duemila anni...”.
Sono un chicco di grano, ho dormito per duemila anni e sono
femmina, figlia di Cerere. La signora bionda richiude la cassa, ma prima mi
sorride: ha gli occhi di Core/Demetra/Cerere.
È lei. la Dea Madre.
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