A Felina, e nei paesi limitrofi, quell’edificio lo si è
sempre definito “cooperativa bruciata”, anche se il giusto
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La Casa del Popolo, poi cooperativa di consumo di Felina |
Sembra che nel centro abitato, nel corso degli anni, nessuno
ne abbia mai parlato, quasi ci fossero ambiguità da occultare, oppure dolori
troppo pesanti da accettare. Intanto, vediamo cos’erano le cooperative di
consumo come quella di Ca’ Martino.
La prima nacque nel 1854 a Torino: era uno spaccio dei
“magazzini di previdenza”, sorto per difendere il potere d’acquisto dei
consumatori attraverso l’acquisto della merce direttamente dai grossisti, rivendendola
poi ai soci a prezzo di costo. Nel decenni seguenti, queste cooperative
divennero realtà radicate in tutt’Italia. In provincia di Reggio Emilia, la prima
fu costituita a Fabbrico nel 1886, mentre quella di Ca’ Martino venne
inaugurata nel nel 1908; a quella data fa riferimento un libro sulla
cooperazione in cui si parla, infatti, della costituzione della “Cooperativa di
Consumo, Produzione e Costruzioni casa del Popolo di Felina”, attiva poi anche
durante il fascismo e ancora nel 1946. Il sovrapporta di ferro battuto, datato
1906, è ancor oggi al suo posto.
Alla guida della Lega delle Cooperative, era giunto, nel
1912, Antonio Vergnanini, socialista, interprete di una linea di dialogo con il
fascismo per provare a tenere in piedi ciò che si era creato. L’avvento del
fascismo, però, significò violenza squadrista e irreggimentazione nel nuovo
assetto totalitario del sistema cooperativistico.
Le cooperative di consumo erano state pensate come centro
della vita sociale dei soci: vendita di generi alimentari, bar, circoli ricreativi,
attività assistenziale. Difatti, in quella di Felina c’era pure un salone
adibito a “teatro”, dove recitava la “Filarmonica” del paese.
Eppure, dell’incendio e dei suoi perché, in seguito nessuno proferì
parola. Persino il motivo dell’intitolazione di “Via Maiotti” alla vittima – strada che, a fianco
dell’edificio, si addentra nella borgata - pare rimosso dalla memoria popolare.
I genitori del giovane Daniele Ghirelli, per esempio, sono
cresciuti proprio lì, ma più di tanto non sapevano; è toccato a lui, il nipote,
il privilegio di raccogliere le confidenze dei nonni, ed è lui che ci riferisce
una prima versione di quell’evento: “Ero ancora un bambino quando me lo
raccontarono, ma mi ricordo piuttosto bene le parole di nonna Laura Manfredi e
del mio bisnonno Remo Manfredi. All’epoca, abitavano nella casa a fianco della
cooperativa. Mi dissero che, a seguito dell’uccisione di due soldati tedeschi
chiamati ‘mongoli’ (russi di provenienza asiatica che avevano disertato e si
erano arruolati nell’esercito tedesco), erano confluite a Felina alcune truppe
d’assalto tedesche per operare rastrellamenti. Prima di incendiare la
cooperativa fu ucciso il gestore, che non aveva rivelato informazioni riguardo
ai partigiani e ai loro nascondigli. L’azione fu condotta principalmente da
truppe d’assalto tedesche (sia Wehrmacht che SS), con la collaborazione dei
tedeschi del presidio. Erano presenti alcuni militi fascisti della Gnr e un
sottufficiale, che si limitarono a guardare e non ebbero parte attiva. Ricordo
che mia nonna mi riferì di un giovane milite proveniente da Reggio, il quale
era disperato, angosciato per le conseguenze personali che avrebbe potuto subire.
Stando ai fatti, credo si possa parlare di eccidio nazifascista in quanto la
componente fascista era presente e appoggiò l’azione, anche se fisicamente
l’uccisione e l’incendio furono opera dei tedeschi.”
Ma chi era Clarenzio Maiotti, il gestore, il “banconiere”
che venne trucidato? Ce lo riferiscono due dei nipoti, i cugini Eliseo Incerti
e Graziella Canovi.
Intanto era un falegname, bravissimo a fabbricare mobili di
pregio; la professoressa Cleonice Pignedoli, ricercatrice storica per Istoreco,
dice di avere ancora in casa un bell’armadio realizzato da Clarenzio. Graziella,
la nipote, ricorda di aver accompagnato il nonno nel suo laboratorio, dove
ancora si dedicava al suo mestiere, pur gestendo la cooperativa.
Come capo falegname, Maiotti aveva lavorato alla costruzione
della diga e della centrale idroelettrica di Ligonchio, iniziata nel 1919 e
terminata circa dieci anni dopo, per cui Clarenzio si era trasferito a vivere a
Giarola, con tutta la famiglia. I figli più grandi avevano frequentato dunque
le scuole sul crinale, fino a che tutti erano tornati a Felina.
In casa, Clarenzio era un uomo austero, autorevole; uno che
batteva i tacchi a terra e otteneva subito il silenzio. Si sedeva sempre su un
angolo della sedia: Graziella dice di avere ereditato lo stesso vezzo. La
moglie Clara parlava benissimo il francese e se la cavava con lo spagnolo,
perché, dopo aver perso il primo figlio, nel 1906, per non sprecare il latte
era andata balia a Marsiglia. Successivamente, la famiglia presso cui lavorava
si era trasferita alle Canarie e lei li aveva seguiti, restandoci per tre anni.
Al ritorno a Felina, la signora (una principessa?) le aveva donato bauli e
bauli di preziosa biancheria ricamata che era finita nelle stanze sovrastanti
la cooperativa. Si emigrava da Felina, a quei tempi; nella famiglia di Eliseo,
da parte paterna se ne andarono in Canada, mentre da parte materna in Francia.
Ma veniamo al settembre 1944. Da ciò che racconta Eliseo,
una spia dei tedeschi, un certo “Pecca”, venne prelevato dai partigiani
nell’osteria della cooperativa; Clarenzio Maiotti avrebbe dovuto avvisare del
fatto il comando tedesco (che alloggiava nell’oggi ex bar centrale del paese).
Non lo fece però entro un’ora, così che altri informarono i
nazisti prima di lui.
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Felinesi dei primi del Novecento |
Ello, il babbo di Eliseo e marito di Maria, figlia di
Clarenzio, andò dal suocero per convincerlo a scappare, ma non ottenne ascolto.
Scapparono tutti, tranne lui.
Nel frattempo, a Ca’ Martino erano giunti due giovani militari,
allo sbando dopo l’armistizio, che erano passati per Felina Amata e avevano chiesto
la strada per il Cerreto: li chiamavano “i ragazzi dell’avvistamento” e forse provenivano
dalla divisione Monterosa.
Il giorno dopo, una squadra di fascisti calò dal crinale e,
insieme ai tedeschi, prelevarono Canovi, i due ragazzi, freddarono un uomo che
non si era fermato all’alt in un prato lì vicino, depredarono la casa, la
vuotarono di tutto, compresi i bauli della biancheria di Clara (che, per anni,
a Felina osservò i vari bucati stesi in giro per capire dove fosse finita la
sua roba), poi lanciarono bombe incendiarie per simulare lo scoppio di armi
partigiane nascoste all’interno. La cooperativa bruciò. La famiglia Maiotti
perse tutto.
Clarenzio venne condotto al comando antiguerriglia di
Pantano, luogo dell’orrore. Il luogo del famigerato boia Warma. “Una faccia
come tante ,- raccontò poi il partigiano Elso Conconi, - impersonale,
insignificante... Due occhi d’acciaio e un ghigno da mascalzone. Era un
torturatore e un massacratore spietato. Infilzava i testicoli dei malcapitati
con grossi aghi...”
A settembre del ’44, a Pantano c’erano 90 uomini, altri 40 a
Poiago e altri 40 ancora al Cigarello.
Il centro antiguerriglia, dove operavano anche le SS, imprigionava
i partigiani catturati e i sospetti fermati durante i rastrellamenti. Il
prevosto, don Antonio Panini, ha lasciato una testimonianza agghiacciante di
ciò che lì avveniva: morti sepolti qua e là nei dintorni del cimitero,
riesumati e trovati legati con catene, fil di ferro, imbavagliati,
probabilmente seviziati per giorni.
Eliseo è riuscito a parlare con un signore ultranovantenne
del luogo che di quei fatti conserva il ricordo. Dopo diversi giorni di
prigionia, Clarenzio venne portato a ridosso al cimitero con gli altri due
ragazzi e gli venne fatta scavare la fossa. I ragazzi erano legati mani e piedi
con il fil di ferro. Uno dei nazisti colpì Clarenzio con il calcio del fucile,
spaccandogli il cranio, mentre i due giovani furono gettati vivi nella fossa e sepolti
con lui.
A febbraio, Ello e Velia (mamma di Graziella) andarono a
recuperare i corpi. Scoprirono le mani e le unghie dei ragazzi devastate nell’estremo
tentativo di liberarsi una volta interrati vivi.
Clarenzio trovò finalmente riposo nel cimitero di Felina, insieme
a uno dei militari, sepolto come “ignoto”, mentre l’altro venne recuperato
dalla sua famiglia.
Nel frattempo, il figlio più piccolo di Clarenzio, Luciano,
appena quattordicenne, spaventato e avvilito, trovandosi allo sbando scappò con
i partigiani, diventando il più giovane “ribelle” della montagna reggiana. Il
caso volle poi (si era fatto male a una gamba e non era presente), che non finisse
ammazzato nella strage di Gatta. Oggi, Luciano vive nella zona di Marsiglia e,
ogni domenica, parla per telefono con il nipote Eliseo; è grazie a lui se molti
particolari della vicenda sono venuti alla luce.
Graziella dice che il trasporto dei corpi fino a Felina
avvenne con la paura di essere bombardati, perché gli aerei alleati, quando
avvistavano qualcosa che sembrava una colonna, oppure un luccichio che poteva
ricordare un’arma, sganciavano le bombe.
Era successo a Casa Sistofano ed era successo alle Case di
Sopra,vicino a Roncroffio, dove erano morti un uomo che stava arando, un
ragazzino e una mucca. Anche a Felina Amata era stata bombardata la famiglia
“dei caporali” mentre lavoravano nei campi.
Della “Casa del popolo”, la prima cooperativa di consumo
della montagna, resta una vecchia foto dell’inaugurazione.
Alla finestra, si vede una bimba: è Maria, la mamma di
Eliseo, con il suo papà Clarenzio Maiotti, il “banconiere” coraggioso che
rifiutò di scappare davanti alla furia nazifascista.
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