Attenti al cane
Bianco, enorme. Una montagna di pelo e quattro zampe che parevano benne, era balzato dall’alto e l’aveva steso. Ringhiava, ora, tenendolo fermo a terra e sbavandogli addosso, e lui nemmeno provava a divincolarsi, terrorizzato dalle due schiere di zanne ben esposte. Sentiva, rasente al volto, l’odore forte delle cacchette di pecora disseminate sul terreno quando gli sovvenne lo stupido pensiero della sua felpa nuova impiastricciata di palline puzzolenti.
Da dove era uscita quella bestia? Sì, va be’, aveva notato un cartello rosso, pochi alberi prima, che recitava “Attenti al cane”, ma non c’era una casa, non c’era un bel niente - a parte un recinto sbilenco - e di quella targa ammaccata non aveva capito il senso.
“Attenti al cane” in mezzo a un bosco? Suvvia.
Ringhiava, la bestiaccia, epperò aveva gli occhi simpatici, come quelli delle mamme che sgridano i figlioli con tono burbero, ma che poi, in realtà, non ci credono fino in fondo, e i figlioli lo capiscono e si fanno i loro.
“Dai, mollami, va’ via”, provò a convincerlo, “dai, fai il bravo, vedi che non sono un pericolo, dai!”
Il cane lo osservò stupito, dondolò un po’ il testone, palpeggiò con i piedoni il torace della vittima, alla maniera dei massaggiatori orientali, poi, così com’era apparso, svanì, dileguandosi nel bosco.
L’uomo si rimise in piedi, ancora tremante, e spazzò alla meglio gli abiti dalle foglie, dal terriccio e dalle cacche di ovino, ma, quando fece per riprendere il cammino, ecco che lo investì alle spalle un latrato spaventoso. Era tornato? Il cane era ancora lì?
Non si voltò nemmeno e cominciò a correre, scivolando all'istante sul terriccio smosso. Scivolò e rotolò in un avvallamento e andò giù, giù, giù senza riuscire a fermarsi.
Chiuse gli occhi e implorò San Pellegrino: “Mio Dio! Aiutami, aiutami, Pellegrino mio, aiutami, e anche tu San Bianco, se puoi!”
Chiuse gli occhi e implorò San Pellegrino: “Mio Dio! Aiutami, aiutami, Pellegrino mio, aiutami, e anche tu San Bianco, se puoi!”
Le immagini delle due mummie adagiate nella teca del santuario gli ballonzolarono davanti, oscillando al ritmo dei suoi capitomboli.
Un ultimo ruzzolone e si fermò. Dov’era finito?
Si guardò intorno ed ebbe la sensazione di trovarsi nel fondo di un imbuto; terra smossa ovunque, di quella che se provi a risalirla ti frana in testa e ti seppellisce.
Cercò qualche appiglio, qualche radice, ma niente; la morte del topo avrebbe fatto, o del minatore. Orribile.
Ebbe, fulmineo, un altro pensiero bizzarro, quasi divertente: immaginò il ritrovamento del proprio scheletro spolpato dalle volpi e dall’altra macro fauna necrofaga, oltre che dai viscidi degradatori microscopici, mentre in televisione passava la notizia con la sua faccia su megaschermo nella trasmissione “Chi l’ha visto”.
Per un momento ne fu quasi compiaciuto; sarebbe diventato famoso.
Intanto, invece, era lì prigioniero; ma com’era successo? Il malocchio, forse? E chi gli poteva aver gettato il malocchio, riducendolo a precipitare in quel buco? Perché il professore, da buon garfagnino, al malocchio ci credeva.
Ricordava i racconti della nonna, quello del sogno delle streghe, per esempio.
Sì, sua nonna una volta aveva sognato le streghe nel bosco che le chiedevano di entrare nel cerchio magico, le aveva guardate ballare fuori dal cerchio, ballare, ballare, ballare… A un certo punto, aveva visto una strega con la stessa faccia di una sua amica. Ballava tutto in tondo anche lei poi, improvvisamente, si era staccata dal gruppo, le si era avvicinata e le aveva dato uno schiaffo, un tremendo ceffone, forse perché la nonna si era rifiutata di unirsi a loro.
La nonna di Emilio non aveva mai dimenticato quel sogno, perchè quando si era svegliata era come se l’avesse investita un camion; per tre giorni era rimasta bianca come un cadavere e si era sentita molto male, tanto debole da non reggersi in piedi.
E quell’altra volta? Aveva disfatto il cuscino di piume, la poveretta, e ci aveva trovato una sorta di ghirlanda, simile a quelle che si portano al cimitero: un filo ovale a cui erano appiccicate tutte le piume. Aveva pensato che fosse una fattura, allora aveva disfatto anche il materasso e, con orrore, ci aveva rinvenuto una cassettina fatta con dei legnetti, del tutto simile a una cassa da morto.
Le vecchie del paese le avevano detto che per disfarsi della fattura avrebbe dovuto prendere quella roba e portarla in un posto dove poi non ci si doveva più passare.
Però, doveva andarci di sera e da sola, su, in un bosco dove c’era una radura, e lì doveva fare un cerchio tondo con un coltellaccio, piantarcelo al centro e poi bruciare ghirlanda e cassa da morto.
Leggende, superstizioni, favole antiche, ma non era mica sicuro di non crederci. E se qualcuno gli avesse davvero fatto un sortilegio?
Emilio era lì in quel buco e sentiva che fantasticare su streghe, stregoni e malocchio lo inquietava ancora di più, ma non poteva farne a meno: il luogo e la situazione sembravano presi pari pari da quei vecchi racconti della nonna.
Tuttavia, c’era qualcosa che lo infastidiva: un odore strano in quella buca, un odore di cadavere. Stava prevedendo il futuro? Sentiva in anticipo la puzza della propria salma? Gli venne da ridere, quando un tonfo lì vicino lo fece sussultare. “Afferri la corda e si arrampichi”, gridò una voce dall’alto.
La voce era di un’ombra lassù tra gli alberi. Voce robusta, greve, imponente.
Lo sfortunato (e sinistrato) professore afferrò la corda: “Grazie!”, disse, “è sicuro di farcela da solo? Sono un po’ sovrappeso.”
“Preferisce rimanere lì? Come vuole lei, non c’è problema.”, chiosò l’ombra.
“No, no, vengo su. Però, guardi: qui c’è una tale puzza.”
“Puzza? Siamo in un bosco, mica dal parrucchiere.”
“D’accordo, sì, ma questa è puzza di carogna; ci sarà un cervo morto da qualche parte? È molto forte, insopportabile.”
“Aspetti lì, di qua non si sente; fermo la corda e scendo a vedere, che non sia una pecora.”
Detto fatto, in un battere d'occhio l’ombra si palesò accanto a lui, tutta intera, compresa barba e acconciatura (e anche un po’ l’abbigliamento) alla Otzi di Similaun. E pure la puzza selvatica di Otzi (che gli uomini del neolitico sicuramente puzzavano) l’ombra disseminava ad ogni movimento.
Otzi strinse gli occhietti svelti e annusò l’aria: “Puzza di morto, sì. Ha guardato più in giù?”
Emilio scosse il capo: “No, cercavo solo il modo di risalire, non avevo voglia di precipitare ancora.”
Otzi fece un gesto di stizza con le mani e si spostò verso il basso, seguendo un nugolo di mosconi e sparendo pian piano alla vista; due minuti e gridò: “Un uomo, è un uomo. Venga a vedere!”
Sì, era un uomo. Un uomo che Emilio riconobbe immediatamente, mentre il panico gli risaliva improvviso per le gambe e la schiena; senza riflettere, cercò allora il cellulare nelle tasche, dimenticando che già poco prima aveva verificato l’assenza di qualsiasi segnale. No, in realtà però funzionava quello delle emergenze.
“Chiami i soccorsi, coraggio,” gli intimò Otzi, “è morto da un pezzo, ma bisognerà pure che vengano a recuperarlo.”
Emilio s’attaccò al cellulare, mentre Otzi si chinava sul cadavere: “Morto, morto da un bel po’ di giorni, poveretto.”
Dio che giornata assurda. Emilio non si capacitava. Era lì con un perfetto sconosciuto, una specie di uomo selvatico, che emanava fetore di capra, ad aspettare i vigili del fuoco che venissero a recuperare il corpo del suo amico.
Perché il cadavere che impestava l’aria di morte era quello dell’amico con cui avrebbe dovuto incontrarsi proprio quella mattina. La videocamera ancora stretta tra le mani ne confermava l’identità, se ci fossero stati dubbi.
E pensare che se egli non fosse arrivato in anticipo e non avesse avuto l’idea di fare una passeggiata, non l’avrebbe mai trovato. Se non fosse andato nel bosco e se non fosse scivolato nel burrone, il suo amico sarebbe forse finito per sempre nel territorio degli scomparsi. Sparito, dimenticato.
Il suo amico Adamo Bianchini, il cameraman di Telegarfagnana, televisione privata di Castelnuovo Garfagnana.
Adamo aveva cominciato negli anni Settanta con le ricetrasmittenti, quando aveva seguito alcuni amici che andavano a trasmettere a Radio Ceppo, una delle tante radio “libere” nate in quel periodo. Era un bel giovane, allora, con barba e capelli lunghi e c’è da dire che piaceva molto alle ragazze che facevano a gara a contenderselo.
Lui, che era pure un musicista bravino, aveva iniziato a costruire delle vere e proprie trasmissioni e aveva avuto subito successo, tanto che da tutta la Toscana – e non solo – erano arrivate entusiastiche telefonate di consenso.
Così, di anno in anno e di radio in radio, la sua popolarità s’era accresciuta.
Nel frattempo, un imprenditore aveva acquistato l’unica piccola televisione libera nata da quelle parti e, una sera, Adamo era stato invitato in studio, durante una trasmissione sportiva, a suonare la chitarra. In quegli studi era poi rimasto, occupandosi della gestione della pubblicità, della realizzazione degli spot e delle riprese.
Da quel momento, era stato tutto un succedersi di buon risultati che l’aveva in seguito condotto a Roma, a lavorare per il grande cinema.
Era stato in quell’ambiente, quello scintillante del cinema, che Adamo aveva conosciuto la sua donna, il suo grande amore: una giornalista televisiva francese molto più giovane di lui che, però, di Adamo si era perdutamente innamorata. Con un piccolo problema: Adamo era sposato, e pure la giornalista lo era.
Ma ora, cosa ci faceva Adamo lì nei boschi con la macchina da presa? Un documentario? O voleva riprendere qualcosa che qualcuno non desiderava venisse allo scoperto? Bel mistero.
Emilio, mentre meditava sul suo amico, era intanto risalito fino all’orlo del precipizio insieme con l’uomo selvatico e osservava i vigili del fuoco che stavano raccattando il cadavere. E adesso? Chi se la sentiva di accompagnare i pellegrini al “Giro del diavolo”, raccontando loro la leggenda di San Pellegrino? Per non parlare della messa e del cambio della croce là in fondo, oltre la volta di pietra del santuario.
Era per quello che era salito fin lassù, lui, preside in attesa della pensione e appassionato di leggende popolari, oltre che di storia locale.
Gli avevano chiesto di fare da guida a una comitiva di pellegrini, raccontando loro le leggende del luogo e lui, il preside non ancora stanco di scuola, aveva accettato.
Nel frattempo, i carabinieri stavano per arrivare e c’era da rispondere alle loro domande. Non ci si poteva muovere di lì.
“Com’è morto?” , domandò Emilio ad un pompiere che era al momento tornato su, “è caduto? Ha battuto la testa?”
“Guardi, faranno sicuramente l’autopsia, ma pare che non ci siano dubbi: ha dei fori dovuti a pallettoni da cinghiale. Gli hanno sparato.”
Oh, povero Adamo! Sforacchiato come un cinghiale.
E lui che lo immaginava a piangere la moglie, che anche la moglie l’avevano trovata morta, impiccata a una trave della loro casa a Pieve Fosciana proprio il giorno prima.
Va bene, erano separati da anni, dopo che Adamo s’era accompagnato con quella francesina bionda, ma erano rimasti in buoni rapporti, mica roba da tirarsi le schioppettate! E poi, se il povero cameraman era già in avanzato stato di decomposizione, non c’entrava proprio con la morte (suicidio?) della ex moglie.
Arrivò il brigadiere dei carabinieri e si diresse subito verso Otzi, chiacchierando fitto fitto con lui. Emilio vide l’uomo selvatico cercare nelle tasche ed estrarne un portafogli lacero, da cui uscì una carta d’identità color unto stratificato.
Sentì il brigadiere chiedere se aveva il porto d’armi e poi se possedeva un fucile.
Vide Otzi annuire e mostrargli il documento, poi un altro carabiniere sparì nel bosco per uscirne, dopo mezz’ora, con un fucile avvolto in un asciugamano: “Ha sparato, brigadiere, ha sparato da pochi giorni…”
Otzi sbiancò e scosse il capo: “Impossibile”, disse, “non lo uso da mesi.”
“Be’, verificheremo,” affermò il brigadiere, “intanto venga con noi. La casa non la chiude mai? C’era la porta aperta.”
“No”, disse Otzi, “per principio lascio tutto aperto, così, se qualcuno ha bisogno, può entrare e ripararsi. E poi, a parte qualche formaggetta di pecora, non c’è niente da rubare.”
“Scusi”, chiese Emilio al carabiniere che ora stava verificando i suoi documenti e lo stava interrogando sui fatti, dopo che l’uomo selvatico se n’era andato con il brigadiere, “ma chi è quello strano uomo che avete portato via? Un pastore? Perché, guardi: mi ha trovato lui e mi stava recuperando da questo buco. È strambo, ma non mi pare pericoloso, o sbaglio?”
Il carabiniere finì di compilare accuratamente il suo verbaletto, poi rispose: “Quello? È uno stregone, un guaritore. Uno di quei matti che abbandonano la vita in città per venire qui a vivere come straccioni e la gente corre a farsi curare gli esaurimenti da loro. Mah, beato chi ci crede.”
“Ma fa il pastore? Ha i cani per il gregge?”
“Certo! Non ha visto i cartelli? L’abbiamo obbligato a segnalarli, i suoi cagnacci, perché avevano preso l’abitudine di assalire i turisti che andavano su al ‘Giro del diavolo’, e una volta hanno quasi rotto un braccio a una vecchietta, facendola cadere.”
Adesso Emilio capiva: ecco chi era, dunque, il misterioso guaritore di cui l’amica Silvia gli aveva parlato ed ecco di chi era il mostruoso cane bianco che l’aveva assalito quella mattina; il cagnaccio dello stregone pastore. Accidenti a lui.
Ma com’è che tutto era cominciato? Ah, sì i mirtilli.
Un giro ai mirtilli. Il tempo l’aveva: la cerimonia era prevista in tarda mattinata e pure quell’altro appuntamento, quello per il giro del diavolo, doveva essere intorno alle nove e trenta. Aria tersa, cristallina, fresca per essere il primo d’agosto. Ma da quelle parti era normale mettere il piumino in piena estate, lo sapeva; infatti se l’era portato.
In mezzo alla piazza, soltanto un furgone bianco con targa romena da cui era sceso e risalito, dopo una puntatina al bar, un omaccione dai capelli rossi, e una coppia di ragazzi all’apparenza stranieri che, con zaini e biciclette, se ne stavano immobili a fissare il cielo.
“That's an eagle! That's nice! Wonderful… nice… nice…”, esplose saltellando la ragazza. Sì, in effetti in alto, molto in alto, danzava un bell’esemplare di rapace molto diverso da una poiana o da un falco. Troppo grande, troppo maestoso; era un’aquila, senza dubbio.
Emilio rimase per un momento a naso in su, poi si girò e entrò nel bar di Pacetto.
Chiese un cappuccino e sbirciò i quotidiani appoggiati su uno dei tavoli. Il bar era deserto, per il momento.
Certo che quel furgone bianco con targa straniera girava spesso sulle quelle strade di montagna: era forse un venditore ambulante? No, in genere gli ambulanti erano tutti marocchini, infatti due erano già posizionati, con le bancarelle, in alto, nella discesa che portava al paese provenendo dal Passo delle Radici.
“Che fa qui, professore”, gli domandò il gestore dalle buffe sembianze elfiche, “partecipa alla cerimonia o va per mirtilli?”
“Tutti e due, se è possibile, Pacetto mio; diciamo che prima farò un giretto in cerca di frutticini, poi, quando arriverà il resto della comitiva, penserò alla cerimonia.”
Posò la tazza vuota sul bancone e scrutò nella vetrinetta del bar, di fianco all’ingresso, dove, insieme a qualche libro, erano in bella mostra felpe, maglioncini e giacche sportive.
“Ancora libri sullo stregone della Canalaccia? Ma si vendono?”
“Oh, sì”, rispose Pacetto, avvicinandosi, “e piacciono molto. Sa, è una storia davvero misteriosa, di quelle che prendono. Poi, ora, pare che ci sia un altro stregone qui sotto nei boschi, un tipo che dice di saper guarire tutti i mali, e la gente ha già cominciato a salire su per chiedere aiuto. Vengono da ogni parte… poi, guardi: io non so cosa ci sia di vero, eh?”
Un fuoristrada blu posteggiò vicino al bar con una robusta frenata; ne uscì di corsa un tipo in maniche corte che s’affacciò sulla porta:
“Scarico la carne di là nel ristorante, Pacetto?”, disse rivolto al gestore, “è un bel cervo, come avevate chiesto.”
Pacetto annuì e gli fece segno di andare, poi, rivolto a Emilio: “Il macellaio ci rifornisce di selvaggina, sa: è quella ottenuta dalla caccia di selezione; tutto in regola, che noi mica vendiamo carne di cane o di gatto per capriolo, qua, eh?”
Il professore scosse il capo e si concentrò sulle felpe esposte, indicandone una: “Che dice, quella potrebbe andarmi? C’è un freddo fuori. Ho portato la giacca, ma forse è esagerata. Meglio una felpa per non sudare.”
Pacetto annuì, quindi aprì “Il Tirreno”: “L’ha visto cos’è successo? Quella povera donna trovata impiccata a Pieve Fosciana? La conosceva, professore?”
“Non so, non mi pare, ma era del posto? Non ho letto l’articolo e non ho nemmeno ascoltato la televisione. Una donna, dice?”
“Sì, sì, guardi: una brava madre di famiglia… chissà chi è stato. Pensano a un suicidio, ma qualcuno pensa all’ex marito. Di questi tempi pare che i mariti si divertano ad ammazzare le mogli, non crede anche lei? L’è tutta di quella, in televisione.”
Il professore indossò la felpa nuova, dopo averla liberata dall’involucro di cellophane, e guardò fuori, nella piazza sempre sgombra, dove stavano arrivando alcune auto e poche persone a piedi. I due ragazzi in bicicletta, intanto, abbandonato il birdwatching improvvisato, erano risaliti in sella e se n’erano discesi verso Castelnuovo Garfagnana.
“Faccia vedere”, disse Emilio afferrando il giornale, “Silvia Amauri… trovata impiccata a una trave del suo salotto… ma, ossignore! Questa è la ex moglie di Adamo, lo conosce? È quel tipo che lavorava per Telegarfagnana. Quello che s’è messo con la bella giornalista francese. Pensi che dovevo proprio incontrarmi con lui, stamattina.”
“Ah, be’…”, fece Pacetto, “se hanno trovato sua moglie morta, impossibile che lui oggi salga quassù, non crede?”
“Mi dispiace, pensi che oggi c’erano pure proprio i francesi, quelli gemellati con il mio comune; sono qui da una settimana e arriveranno con il loro pullman. Che disgrazia, però, povera Silvia.”
L’uomo che entrò nel bar in quel momento era un signore alto alto, robusto, per non dire panciuto, bendato come una mortadella in una maglia rosa carne su cui spiccava la scritta “Staff” e il collo stretto in un fazzoletto giallo .
“Buongiorno”, salutò in direzione di Emilio, con la erre strascicata e il forte accento francese, “i miei amici stanno per arrivare; lei è pronto a farci da guida, professore?”
Emilio ricambiò il saluto e disse che sì, era pronto, ma che prima voleva fare un giro a verificare il percorso e che il cameraman, quello che avrebbe dovuto girare il filmato della giornata intera, probabilmente non sarebbe venuto.
“Adamò? Il mio amico Adamò non viene?” disse il francese, “peccato, lo vedevo così volentieri. Bene, a dopo, allora.” Abbassò lo sguardo e, rapidamente, fece per uscire dal bar, salutando con la mano.
Pacetto lo fermò: “Conosceva anche la ex moglie di Adamo, monsieur… come si chiama, scusi?”
“Jerome, monsieur Jerome e… sì, la conosco, bella donna, ma: perché parla al passato? La signora è andata via? L’ho vista solo due giorni fa, ci ha aiutati a preparare la gita qui.”
“Niente, niente,” commentò Pacetto, scambiando un’occhiata d’intesa con Emilio, “buona giornata.” Il francese uscì.
“Vede professore: dicono fosse nato un amorazzo tra i due…”, concluse Pacetto con fare misterioso.
Silvia innamorata? E del francese obeso? Non poteva crederci.
Era allora partito alla volta del “Giro del diavolo”, Emilio, con l’immagine dell’amica Silvia impiccata a quella trave nel salotto in cui, tante volte, si erano incontrati a chiacchierare di storia locale, di leggende, di scuola.
Perché Silvia era una delle sue migliori insegnanti, una di quelle che nessun preside vorrebbe perdere. Ed era così battagliera, sempre pronta a ficcarsi in tutte le cause degli ultimi; cause perse, molto spesso, ma alle quali lei dava anima e corpo.
Come la faccenda della nuova discarica che volevano costruire dalle parti di Camporgiano, dove sarebbero confluiti i rifiuti di molte città toscane.
Silvia era lì, in prima fila a lottare con la gente. Senza paura, come sempre.
Cos’era dunque successo? L’avevano “suicidata” o lei si era tolta la vita per quella depressione che l’accompagnava da quando Adamo l’aveva lasciata per la bella francesina?
Rolando Ulisse Nervi di mestiere faceva il grafico, o meglio: aveva fatto il copywriter e grafico fino all’anno prima. Quasi sessantenne, da giovane era stato un sovversivo, uno di quelli che si ficcavano in tutte le congreghe più equivoche; per esempio, c’era stato il periodo “dark”, ma prima ancora s’era accompagnato a gente vicina ai brigatisti e s’era intossicato di eroina a Berlino, dove era approdato per un concerto rock di un famoso gruppo e dove era rimasto per qualche anno vivendo di espedienti.
Poi s’era convertito. Un bel giorno era entrato in una chiesa cattolica, aveva assistito a una di quelle maestose cerimonie piene di prelati ricoperti di paramenti dorati (anzi: d’oro) con canto gregoriano di sottofondo e litanie in latino e s’era convertito.
Magnifico. Se la religione era capace di questi spettacoli, se ti faceva sentire parte di qualcosa di tanto imponente e potente, era cosa magnifica.
S’era convertito fino a un certo punto, però, perché, aiutato da un prete cui si era rivolto, aveva smesso con l’eroina, ma le canne no, quelle continuava a fumarsele.
Che lo facevano sentire più vicino a Dio.
S’era convertito, era diventato un fervente cattolico preconciliare, di quelli che rimetterebbero la sottana a tutti i preti e li confinerebbero in canonica - che uscire è un pericolo per la loro castità, - recitava rosari in continuazione e aveva cominciato, nel frattempo, l’attività di copywriter e grafico, rispolverando i suoi studi giovanili.
Aveva ottenuto subito un buon successo, perché era bravo: molte le commesse da case editrici cattoliche, forse attratte dal suo proclamarsi pubblicamente così credente e fervente, così cattolico che più cattolico non si può, tanto da decidere persino, nei suoi appelli al popolo sui giornali e in rete, chi erano i papi veri e quelli meno veri.
E una buona fetta del popolo dei credenti gli prestava fede, pare, sorvolando allegramente sul suo vizietto delle canne e sul suo passato, mai completamente rinnegato.
Poi, un bel giorno, dopo aver accumulato fama e quattrini, ebbe un crollo emotivo mica da poco. La ragione di tanta crisi non era nota, ma Rolando Ulisse sparì per un bel po’.
Ricomparve in alta Garfagnana, allorché si sparse la notizia che, proprio vicino ai luoghi dove anni prima aveva esercitato Silvio Tazzioli (lo stregone della Canalaccia), solo poche decine di chilometri lì a fianco, c’era un nuovo, potentissimo stregone: Rolando Ulisse Nervi, appunto.
Così avevano cominciato a salire lassù donne depresse, mogli abbandonate, ragazzini in crisi adolescenziale, genitori con figli tossici da disintossicare, gay incapaci di accettarsi, preti in perdita di vocazione, malati terminali in cerca di una qualche cura alternativa. E lui accoglieva tutti; la sua casa, un rudere semiabbandonato in mezzo ai boschi, sporca come lo stalletto del maiale, non aveva la chiave sulla porta.
Per vivere, a Rolando bastavano i prodotti che ricavava dalle sue pecore e dalla caccia che attuava come cacciatore selezionatore con tanto di cartellino.
Anche Silvia Amauri, la bella professoressa di Pieve Fosciana, era salita da lui, qualche mese prima, raccontandogli la propria storia di dolore per l’abbandono del marito, dolore che si trascinava da anni e che non le dava tregua.
Aveva pianto a lungo; lui era riuscito a rassicurarla, a calmarla, poi avevano cominciato a discorrere di leggende, di streghe e stregoni, di sortilegi. Silvia pareva conoscerli tutti.
Come quella dell’uomo confinato nel fosso della Laura, dalle parti del castello delle Verrucole, ma confinato dopo morto, da fantasma.
Dicevano che apparisse con un berrettino rosso in testa, infatti lo chiamavano “quello dal berrettino”.
Avevano tutti paura di questo fantasma dal berrettino rosso e qualcuno diceva di averlo visto in forma di cane, un cane nero; altri dicevano un cane bianco.
Alla fine, Silvia raccontò che chiamarono un esorcista per scacciarlo e pare che questo esorcista fosse riuscito a relegare l’omino fantasma vicino alla croce di un pozzo, non prima di essere stato preso a schiaffi dallo stesso.
E poi la leggenda del ponte per andare a Camporgiano, il ponte della paura, che se ci si passava in cima si vedeva un morto, oppure uno strego, o un uomo incappucciato. Ancora, Silvia raccontò che una volta era passato un uomo a cavallo col fucile, dicendo: “Porca miseria, voglio vedere se c’è qualcuno, che se è vero che ci sono tutte queste paure...”, insomma: l’uomo era passato e aveva sparato, quando, improvvisamente, gli era apparsa una persona alta alta, o forse erano due, vestite di bianco. L’uomo aveva sparato, ma quelli gli avevano dato uno schiaffo che lo aveva buttato sotto il ponte.
Si vede che i fantasmi della Garfagnana sono ossessionati dagli schiaffi. Sono fantasmi stalker.
Anche lì, chiamarono gli esorcisti a fare gli scongiuri, ma poi cominciò a manifestarsi il fantasma di un prete morto. Bella roba.
Leggende, leggende incredibili, affascinanti, che la professoressa Silvia raccoglieva tra la gente con tanta passione e poi trascriveva, perché non andassero perdute.
Grande donna, Silvia! Non fosse stato per il fatto che durante il suo soggiorno tossico in quel di Berlino, Rolando Ulisse aveva scoperto di essere omosessuale (e aveva cominciato a vivere relazioni appaganti con diversi uomini), se ne sarebbe potuto tranquillamente innamorare.
Sì, la donna aveva passato da un pezzo la cinquantina, ma era ancora molto bella: capelli tinti biondi, sciolti sulle spalle, fisico asciutto, lunghe gambe affusolate e poi due occhi incredibilmente azzurri, grandi come laghi.
I figli, avuti in giovane età, erano usciti di casa da un pezzo; laureati tutti e due, vivevano lontano, uno addirittura a Los Angeles, così lei si era rimasta completamente sola. Silvia non aveva voluto saperne di altri uomini, dopo la fine del suo matrimonio con Adamo, e aveva sempre tenuto a bada quei suoi colleghi che, a scuola, tentavano un approccio un po’ più che amichevole.
L’aveva molto ferita vedersi e sapersi sostituita da una ragazza che poteva essere sua figlia, immaginarla tra le braccia del suo Adamo, l’unico amore della sua vita; l’unico uomo della sua vita.
Quella giornalista francese, quella maledetta si era pian piano insinuata nella quotidianità di suo marito e l’aveva abbindolato, irretito; forse gli aveva pure fatto il malocchio, un filtro d’amore come usavano le medicone della Garfagnana?
A Rolando, Silvia aveva inoltre raccontato di un rapporto epistolare, uno scambio di mail e di messaggi in chat, con un francese, uno di coloro che curavano il gemellaggio tra la cittadina di Isola, dalle parti di Nizza, e il suo comune.
Un nizzardo, dunque. Un uomo colto, diceva Silvia, un insegnante come lei.
Però, non aveva voluto scendere nei dettagli, era rimasta molto sul vago, con quel pudore che tanto la caratterizzava.
Davvero grande donna, Silvia, e vegetariana, anzi: vegana convinta, animalista convinta, tanto che s’infuriava sempre all’inizio della stagione della caccia e partecipava a qualsiasi manifestazione a favore degli animali.
Di più: non sopportava i macellai, li vedeva come veri e propri assassini e, se fosse stato per lei, avrebbero tutti chiuso bottega. Insieme ai venditori di armi da caccia.
Infatti, si era messa d’accordo con Adamo per lavorare con lui a un cortometraggio sulla caccia di frodo proprio lì in alta Garfagnana, poiché giravano voci di cervi e caprioli e cinghiali ammazzati abusivamente e poi rivenduti, in regola, per le tavole dei ristoranti. Una specie di carne “riciclata”, “ripulita”, come il denaro del traffico di droga nelle banche svizzere.
Adamo le aveva promesso che, appena rientrato da Roma per un po’ di vacanze sui monti, ci si sarebbe messo. L’aveva poi fatto? Avevano iniziato il documentario? Chissà. Intanto, Rolando Ulisse era in caserma, inquisito per l’omicidio di Adamo Bianchini, marito di Silvia, perché era proprio il suo fucile l’arma del delitto.
E, perché no? Su Rolando convergevano pure i sospetti per la morte di Silvia stessa.
Emilio, con il brigadiere seduto di fronte, stava riguardando le foto di Silvia appesa alla trave. Strano, stranissimo: i piedi della donna toccavano terra, dato che il salotto era in mansarda e le travi erano troppo basse per permettere a uno d’impiccarsi. E allora?
E quella storia d’amore sussurrata in giro in paese, quella con il francese panciuto che curava i rapporti di gemellaggio con il comune? Cosa c’era di vero?
Il fucile di Rolando Ulisse (l’Otzi pastore che l’aveva salvato dal dirupo) era stato a lungo esaminato, ma non aveva un’impronta: neanche una.
Strano, perché almeno quelle di Rolando avrebbero dovuto esserci. Qualcuno doveva averlo accuratamente ripulito, prima di riporlo sulla rastrelliera nel tugurio dello stregone.
In quanto a lui, Emilio Colli, preside in attesa di collocamento a riposo, i carabinieri si erano limitati a chiedergli informazioni, visti i buoni rapporti d’amicizia che lo legavano alle due vittime, niente di più. Per il resto, si brancolava nel buio.
Ad un tratto lo colpì un particolare di una delle foto: c’era qualcosa di giallo che penzolava dalla libreria; pareva un foglio, uno straccio; non si capiva bene.
Emilio inforcò gli occhiali da presbite e osservò con più attenzione: “Perbacco,” esclamò, “questa è una delle sciarpe che usano i francesi ‘gemelli’ in visita qui. L’avrà dimenticato qualcuno, vede, brigadiere?”
Il brigadiere si chinò sulla foto: “Sì, ma che vuol dire? La signora aveva tutto il diritto di ricevere in casa quelle persone, mica le era proibito: non sono criminali, sono turisti.”
“Io, però,” continuò Emilio, “se fossi in voi controllerei meglio la casa di Silvia. Avete guardato tra i libri, tra i filmati se per caso c’era qualcosa di strano? Con tutte le sue battaglie animaliste ed ecologiste, si era fatta un bel po’ di nemici. E i francesi? Li avete controllati?”
“Signor Colli, guardi”, ribattè il brigadiere piccato, “lei faccia il preside che le investigazioni le facciamo noi. A ognuno il suo mestiere, se permette.”
Emilio annuì e fece per alzarsi dalla sedia, quando entrò un carabiniere: “Brigadiere, il pastore, cioè, no: lo stregone, il Nervi, insomma… l’hanno trovato morto in casa, bruciato nel camino.”
“Andiamo, andiamo lassù,” ordinò il brigadiere, poi, rivolto a Emilio: “venga anche lei, visto che è in vena di giocare al commissario.”
La scena del crimine era qualcosa di atroce. Nella cucina annerita da fumo e fuliggine, sporca in modo incredibile, il tanfo di benzina bruciata toglieva il fiato. Dentro al grande camino di pietra, un mucchio nero dalle vaghe sembianze umane crepitava ancora. Emilio credette di svenire.
“Non c’è di sicuro finito da solo,” bofonchiò il brigadiere, “l’hanno pure legato con la catena del camino. Bell’arrosto davvero.”
Da ogni parte, lo sporco stratificato e l’accumulo sconsiderato di oggetti offriva l’immagine di una discarica al coperto ma, sul tavolaccio sbrodolato di chissà quali liquidi, faceva bella mostra un computer. Rotto. Cioè: appositamente distrutto.
“Brigadiere, guardi qua,” fece un carabiniere sollevando il computer con la mano guantata, “pare che abbiano prelevato il disco rigido… mhhh, brutta faccenda.”
“Bene bene, il nostro santone nascondeva qualcosa di grosso,” concluse il brigadiere, “portiamo dunque via il computer e facciamolo analizzare, almeno per rilevare le impronte.”
Mentre, in macchina con il brigadiere e l’appuntato, Emilio scendeva da San Pellegrino in Alpe verso Pieve Fosciana, notò nuovamente il furgone bianco con targa romena che sfrecciava nella direzione opposta: “Avete visto?” chiese, “quel furgone è così strano, va e viene in continuazione, sapete di chi è?”
“Oh, niente di importante,” rispose il brigadiere, “è soltanto uno che fa la spola tra i mercati all’ingrosso delle carni e i macellai di qua; a volte va anche direttamente a portare la carne ai ristoranti.”
Un romeno che trasporatava carni; Silvia che era in lotta con i cacciatori; Adamo trovato morto con la videocamera in mano in un bosco dell’alta Garfagnana; un santone amico di Silvia carbonizzato nel camino della sua catapecchia, mentre il disco rigido del suo computer era sparito. E un francese obeso innamorato di Silvia.
A proposito dei francesi, i carabinieri avevano perquisito le loro stanze in albergo, ma avevano trovato soltanto qualche canna già rollata negli zaini di due ragazzi e un po’ di fumo ancora confezionato (ma una dose per uso personale) nella valigia di monsieur Jerome, il quale, chiaramente, visti i lunghi capelli grigi legati dietro con un ridicolo codino, in gioventù doveva essere stato un figlio dei fiori (e dell’erba).
Per la miseria! Emilio si svegliò nel mezzo della notte e si alzò, inciampando nel filo della lampada da tavolo che ruzzolò a terra.
Come aveva fatto a non pensarci?
Scese nello studio e aprì un cassetto della scrivania: il disco rigido esterno di Silvia era lì. “Tienimelo, ho paura che mi cada e si rompa, sono così sbadata!” le aveva detto lei mesi prima, “Sai, io perdo sempre un sacco di documenti per i virus e compagnia bella, quindi ho salvato qui un bel po’ di roba. Puoi tenermelo tu, per favore?”
Emilio accese il computer e vi collegò l’hard disk esterno.
Stava per aprire e visionare le cartelle comparse sul desktop, quando squillò il telefono: “Professor Colli? Buongiorno, sì, lo so che sono le cinque del mattino, ma qui abbiamo trovato qualcosa di interessante. Può fare un salto in caserma?”
Era il brigadiere. Emilio spense il computer e ripose l’hard disk nel cassetto, chiudendo bene a chiave. Poi uscì. In caserma gli dissero che, dal computer di Silvia, erano riusciti a risalire a una cartella Dropbox condivisa con il Nervi e con lui, Emilio Colli, ed erano riusciti ad entrarci. “Oh, ma non mi ricordo nemmeno di averla condivisa! Non uso mai Dropbox, se non per i file audio…”, fece lui confuso.
“Guardi un po’ che bella roba…”, sbadigliò l’appuntato, e gli aprì la cartella.
No, non erano immagini pornografiche, non erano film hard.
Erano sì hard, immagini durissime, insopportabili, ma non riguardavano il sesso.
Più tardi, quando Emilio, in televisione, ascoltò la notizia del sequestro della carne di selvaggina proveniente dai bracconieri e vide il macellaio dal fuoristrada blu e il romeno dal furgone bianco in manette, pensò che mai si sarebbe immaginato il crimine ancora più agghiacciante che stava dietro a tutto ciò. Perché nella cartella Dropbox di Silvia (e nell’hard disk esterno che lei gli aveva dato in custodia), c’erano filmati e foto. Filmati di Adamo, sicuramente, e foto di Silvia. Di cani e gatti morti, accatastati in un furgone e in una specie di macello improvvisato.
Carne che andava all’estero, pare, visto che le tracce si perdevano in aeroporto. Cani e gatti da pelliccia e da arrosto, a quanto pare. Silvia e Adamo avevano scoperto tutto - supportati dal buon santone pastore - e la banda di malviventi aveva ben pensato di sbarazzarsene cercando, in un primo tempo, di incolpare proprio Rolando Ulisse Nervi per l’omicidio di Adamo e inscenando il suicidio di Silvia.
Emilio accarezzò il cane, comodamente sdraiato sul tappeto del salotto: bianco, enorme, una montagna di pelo e quattro zampe che parevano ruspe, ma con gli occhi buoni, dolci e anche un po’ tristi.
“Dai, su, la vita continua, amico mio, lo so che ti manca Rolando, ma non preoccuparti: starai con me.”
Il cagnone gli leccò la mano e si accucciò.
Bianco, enorme, come una nuvola nei cieli aperti di San Pellegrino.
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