Holba, ovvero: d’odore non si muore.
Adam
pubblica ogni giorno immagini su facebook. Di Parigi, di lui davanti alla tour
Eiffel, sorridente, con i più strani copricapi in testa e dei cinturoni da cow
boy che più kitsch non si può.
E
commenta in francese. Finalmente.
Adam ce
l’ha fatta. È arrivato dove voleva e ora studia, in Francia, in un liceo
professionale.
Tuttavia,
a me pare di vederlo ancora lì, in classe con gli altri, appiccicato al
termosifone, a soffrire in silenzio, come me, per lo strano, terribile odore
che, in alcuni momenti, ci soffocava.
Non
saprei come rendere l’impressione del sentirsi morire per un odore troppo
forte; il bisogno di spalancare le finestre anche se fuori la temperatura è
sotto zero; il sapore acre in gola e il naso che si chiude e nemmeno riesci a
sternutire.
Si
potrebbe definire “effetto stalla”. Diverse ore rinchiusi in una stanza ed ecco
che aumenta il calore e aumentano gli effluvi. Niente da fare.
Nonostante
i saponi e i deodoranti, il corpo umano suda. E puzza. Così, l’impressione di
morire soffocati per un odore intollerabile tocca non solo i bovari che
lavorano con le trecento vacche di uno "stallone" (grande stalla, non un cavallo maschio!), ma anche gli insegnanti.
...a destra, Adam |
Perché
gli odori di una classe di adulti (“holba” inclusa) sono piuttosto l’ouverture
di un girone infernale. Cos’è l’ “holba”? L’ho imparato a mie spese.
Intanto,
la parola è araba. Me l’ha insegnata Malika. E mi ha anche portato un
vasettino, lei, contenente la misteriosa, olezzante sostanza: piccoli semini
color cacca che della cacca hanno, appunto, l’odore. Cacca in perle, tipo
rimedio omeopatico?
Però,
che gentile la mia Malika. Un po’ rumorosa, forse. Dire che Malika era
frastornante, all’interno della classe, è dire poco. No, non si tratta di una
bambina, intendiamoci: si tratta di una donna, e marocchina e in Italia da
quasi un lustro.
Malika
chiacchierona, vivace, capace di far ridere anche il più scorbutico dei
compagni creando sempre un po’ di parapiglia.
Una
classe di adulti stranieri che son lì per imparare l’italiano è un bel
microcosmo di colori, sorrisi, voci, suoni, profumi. E odori mica sempre
sopportabili. “Holba” complice.
E mica
perché sono stranieri; semplicemente perché sono umani, e il corpo umano suda…
e puzza, per l’appunto.
E poi
c’è l’”holba”, dicevamo, molto spesso in supplemento a chiuderti il respiro.
Ma
procediamo con calma; la calma marocchina. Calma che riguarda forse tutti i Sud
del mondo e che ci farebbe bene acquisire, almeno in parte, anche qui al Nord.
A tale
proposito, Malika arrivava continuamente in ritardo, però meno in ritardo di
altre signore marocchine, per le quali se tu dici che si comincia alle nove, la
loro idea di puntualità interpreta alle dieci, o alle undici, o persino a
mezzogiorno meno un quarto, ed è inutile che tu spieghi loro che la lezione
finisce a mezzogiorno e che – in più - non possono star lì a contarsela su per
un buon quarto d’ora, mentre si danno il cambio al bagno che pare che la pipì
scappi a tutte proprio quando bisogna andare a casa.
Sante
donne! L’insegnante deve andare a fare la spesa, perlomeno a prendere il pane
prima che i negozi chiudano e che il marito non opti per il divorzio o scappi
con una badante.
“Buongiorno,
Malika!”, la salutavano i ragazzi africani, fuoriusciti dalla Libia sotto il
bombardamento della Nato e caricati a forza sulle navi alla volta di Lampedusa
dagli armigeri di Gheddafi. Neri, bellissimi, alti e dai corpi perfetti, con
sorrisi luminosi che creavano brividi nelle ragazze di ogni provenienza ogni
volta che si presentavano in classe perché, alla faccia di tutti i razzismi,
gli africani belli sono affascinanti sopra ogni immaginazione, altrochè.
“Buongiorno,
Malika!”, la salutavano gli adolescenti degli istituti superiori, moldavi e
albanesi, ben felici di vederla arrivare (un bell’espediente per rilassarsi un
po’, la sua presenza) e mettersi a chiacchierare e sghignazzare a tutto spiano,
con lei nel mezzo a raccontare chissà quali barzellette arabe, ovviamente in italiano.
Un tantino anche sconce, le barzellette di Malika.
“Buongiorno a tutti!”, ribatteva lei con il
più grande dei sorrisi, fermandosi a salutare e a baciare (sistematicamente per
quattro volte, due per guancia) le altre marocchine, ogni tanto più puntuali di
lei. Certo che dieci minuti non bastavano per arrivare dall’ingresso al banco,
dovendo, in musicale arabo “darijia”, dar notizia e raccontarsi chissà cosa tra
un bacio e l’altro, gridolini e scoppi di risa appena appena sguaiati.
Chiacchiere,
pettegolezzi infiniti di simpaticissime donne marocchine di cui, ogni tanto,
coglievo qualche parola (che a furia di sentirle le ho imparate) e capivo il
senso. Che poi noi ci immaginiamo queste donne tutte “casa e chiesa” (pardon:
moschea) e invece sono delle burlone capaci di linguaggi neanche tanto
allusivamente spinti, e come ci ridono su.
La povera insegnante e i poveri suoi studenti |
“Sciuia
sciuia”, (“piano piano” in arabo), Malika si sedeva e tirava fuori il quaderno,
la penna e pure il manuale di teoria della patente, giacché persino quel corso
stava frequentando.
“Io non
capisco niente dei quiz”, diceva, “troppo difficile questo italiano e io non
sono studiata!” Inutile spiegarle che il verbo studiare non poteva essere usato
in quella forma, ormai l’aveva imparato così. E inutile dirle che era tenuta
come tutti a seguire la lezione sui verbi riflessivi scritti alla lavagna,
invece di chiedere in giro se doveva dare o meno la precedenza a un incrocio
immettendosi su una determinata strada.
“Ma
perché tu non porti il velo?”, le chiedeva ogni tanto Adam, profugo del Darfur,
curioso come una comare e un po’ sconvolto dai nostri usi e costumi: dalle
donne che girano senza uomini a proteggerle, dalle ragazzine che si sbaciucchiano
con i morosi in corriera, dalle braccia nude e bianchissime di Karolina,
un’allieva polacca, che gliele presentava sotto al naso in tutta naturalezza, e
lui, poveretto, che volgeva lo sguardo altrove, quasi abbacinato da tanto nudo
biancore.
“Da
noi, in Polonia, gli uomini neri piacciono molto”, diceva Karolina con il suo
fare sempre pacifico, rilassato, “piacciono perché noi siamo curiosi nei
confronti di tutte le altre culture, mentre voi italiani siete più chiusi, più
diffidenti. Vieni in Polonia, Adam? Troveresti subito una ragazza!” “No, no,
no”, si schermiva Adam tutto intimidito, “io adesso studio, imparo italiano,
poi voglio lavorare.”. E poi Karolina era cristiana, cattolica, e Adam faticava
a capire questa faccenda del scegliersi liberamente una moglie e del non
doverla pagare: “Come si fa, come si fa, come si fa a sposare una donna qui in
Italia? Quanto si paga una moglie?” Gli rispondevo che non si paga niente, che
i due si scelgono liberamente, ovviamente per le leggi dello Stato, perché poi ogni
religione – per esempio quella musulmana – segue le proprie usanze anche qui in
Italia. “Allora io sposo un’italiana anche cristiana”, diceva Adam tutto
contento, “così non pago niente”. Che poi, a dirgliela tutta, non è proprio
vero che non si spende niente… ma non volevo deluderlo.
E poi
c’era Bamba, ragazzo appena dicottenne del Mali - profugo pure lui scappato
dalla Libia – a precisare: “Da noi, in Mali, quando uomo vuole moglie, padre
suo va a prenderla. Lui cammina, va da famiglia di ragazza, parla con padre di
lei e, se lui dice sì, fanno matrimonio. Però serve tante mucche per sposarsi.”
“Mucche?”, chiesi a Bamba, vedendo gli occhi strabiliati delle ucraine, delle
moldave e delle albanesi presenti, “Mucche, dici? Una moglie si paga con le mucche?”
La risata di Janefy, altro profugo, stavolta del Ghana, mi confermò che
l’usanza è africana a tutto tondo, e che non riguarda solo il Paese di Bamba,
né ha a che fare con una religione in particolare. “Dieci mucche”, precisò
Janefy, “dieci se donna è bella, giovane; ma tre se non bellissima, o dare
tanti soldi invece di mucche… e puoi sposare tante mogli se tu hai soldi.”
“Tante mogli?”, ribattei io, “Ma tu non sei cristiano, Janefy? Non sei della
Chiesa Evangelica? Come puoi sposare tante mogli?” “Oh, se tu ha soldi, fa
niente religione”, rise lui, “in Ghana così: se uomo ha soldi sposa tante
mogli.” Bene, anche questa mancava all’insegnante. Così impara a pensare che
tutto si trovi sui libri.
“Tu
musulmana? Ma perché non porti il velo?”, continuava intanto a chiedere Adam,
curioso come non mai, pure a un’altra marocchina appena arrivata da Casablanca,
truccata e vestita all’occidentale, che laggiù, pare, ormai le giovani vanno
così; oppure, mi dicono, ci sono quelle che girano col burqa e i guanti, roba
mai vista in Marocco. Perché i salafiti impazzano e predicano anche nelle
moschee sunnite, purtroppo, introducendo una visone dell’Islam molto
integralista prima sconosciuta in quel bellissimo Paese.
Fatima,
la non velata, all’insistente domanda di Adam si tacque, mentre Malika, in
arabo, tentò di spiegare al ragazzo i motivi di quei capelli scoperti. E un
po’biondi tinti, le due eretiche!
Tuttavia
non aveva fatto i conti con Soundous, la cara Malika, che Soundous il velo lo
portava, e anche bello stretto sulla fronte e, dall’alto di tutta la sua
sbandierata conoscenza del Corano, con la finta sicurezza dei suoi venticinque
anni, la brava, religiosissima sposa musulmana cominciò a inveire in arabo
contro le due poverette.
Holba a volontà... |
Mettendo
in affanno non poco l’ignara, benevola, aperta, benintenzionata, preparata al
dialogo inteculturale e premurosa insegnante.
Ci
sarebbe da spiegare che, in genere, quando si odono sbraitare dei marocchini,
in realtà questi stanno solo parlando – un po’ come i napoletani, - stanno solo
scambiando qualche opinione.
Li
avete mai sentiti quelli delle bancarelle al mercato? Sembra che si scannino, invece
stanno probabilmente raccontandosi quel che hanno mangiato a colazione. Però in
una classe, davanti a indiani e cinesi allibiti (per non parlare degli inglesi,
che restano esterefatti), la discussione di alcune donne marocchine sembra il
preludio a una guerra mondiale. Un putiferio senza pari.
La
povera insegnante – benintenzionata et cetera, καὶ τὰ ἕτερα - può allora
solo provare a intervenire, ma solo provare, timidamente. Viene un po’ la
tremarella e già te le immagini saltarsi addosso e prendersi per i capelli… e
per il velo. Con il cuore in gola, l’insegnante sfodera allora tutta la sua autorevolezza
e tutto il suo sapere libresco (che gli insegnanti, come già detto, sono
parecchio convinti di poter imparare unicamente dai libri), prova allora a
mettere sul piatto ogni versione e lettura e interpretazione possibile
dell’obbligo del velo voluto dal Profeta, trattiene allora l’istinto di mandare
le allieve a quel paese (e pure di rimandarle al loro paese, che dopo
passerebbe in più per razzista!) e comincia a parlare.
Parla e
pensa alla sua bisnonna Giuseppina, rimasta sola a ventisette anni, vedova di
guerra con tre figlie, che il fazzoletto in testa lo toglieva solamente al
mattino per pettinarsi e poi lo rinfilava subito. Però mica lo usava come una
bandiera religiosa contro qualcuno.
Parla e
pensa a sua nonna Bruna che, invece, dopo essere stata per serva a Milano, il
fazzoletto aveva imparato a non portarlo più e, tornata al paesello, lo
indossava esclusivamente per andare nella stalla, per cucinare e per spazzare
in casa.
Parla e
pensa a quel fazzoletto che a lei, bimbetta di sei anni, la mamma aveva legato
sotto la gola il primo giorno di scuola, procurandole un fastidio tremendo, e
lei aveva pianto per toglierselo, ma la mamma aveva insistito che era più
ordinata così, con i capelli che non scendevano sugli occhi; tuttavia poi, nei
giorni successivi, lei lo aveva sempre sfilato e messo in tasca, finchè la
mamma aveva ceduto.
Accidenti
al fazzoletto: io volevo i capelli liberi, io. Accidenti a tutti i legami e
legacci e prigioni e gabbie. Via, via: i capelli hanno bisogno di respirare. Mi
sembrava di sentirli gridare, invocare aiuto, soffocati sotto quel fazzoletto.
Libertà, io voglio, non sacrificio. Sì, vabbè, il profeta Osea diceva
“misericordia, non sacrificio”, ma io, piccola bambina dalle treccione velate,
volevo la libertà proprio per misericordia.
Con
tutto il rispetto per le scelte religiose – e dell’abito – altrui (che per me
ognuno può vestirsi come gli pare, purché non pesti i piedi agli altri), per
riportare un po’ di pace in classe, provai a spiegare alle donne in contesa che
il Corano obbliga a coprire “le parti belle”, ma non specifica cosa intende di
preciso. Insomma: le mani non sono belle? E se il Profeta avesse inteso i seni
o la pancia? O il culo e le gambe? Chi ci dice che, a quei tempi, le donne più
povere da quelle parti non se ne andassero in giro seminude come le signorine
etiopi o di altre zone dell’Africa?
Sulla sinistra, Adam, a destra Khamis |
Non
l’avessi mai detto! Me tapina, ignorante e tapina e saccente.
Soundous
infilò una sequela di frasi fatte, tipo quelle usate dalle coppie uomo/donna in
gonna lunga e camicetta bianca (lei) e abito completo con cravatta (lui) che
vengono a suonarti il campanello dicendoti che verrà la fine del mondo e
propinandoti il loro giornaletto apocalittico: “Tu non conosci la storia!”, mi
redarguì duramente, “Tu parli delle cose che hai letto sui vostri libri, ma
sono tutte bugie, i vostri libri!”, continuò ormai mammola e fucsia in volto,
“Solo nel Corano c’è la verità!”.
Ecco,
l’aveva detta la parola, quella che tutti i fondamentalisti, musulmani,
cristiani, buddisti, induisti e pure atei, si mettono in bocca e in tasca: la
verità.
E come
ho gioito, in seguito, quando Papa Francesco, a tale proposito, ha scritto: “Io
non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità ‘assoluta’, nel senso che
assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione.(…) Dunque, la
verità è una relazione! Tant'è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la
verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla
situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e
soggettiva, tutt'altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un
cammino e una vita.”
In quel
momento, ci rinunciai. Però Fatima, la ragazza senza velo e con i capelli tinti
biondi, al corso non la vidi più. Come, da un po’, mi era sparita Khadijia,
giovanissima, apparentemente ben integrata, tanto che faceva volontariato nella
Croce Verde del paese dove abitava.
Poi mi
aveva telefonato un’insegnante della sua scuola chiedendomi sue notizie: “Non
sai niente?”, mi aveva detto, “No, perché, cos’è successo?” “Ah, guarda, dicono che sia caduta dalle
scale ed è andata in coma.” Eh no, questa poi no! Cercai subito di informarmi,
ma la cosa pareva circondata da un muro di omertà, finché un ragazzo mi disse
che si vociferava, in paese, di rapporti molto tesi tra la ragazza e il suo
patrigno, e che forse c’era stato un litigio su quelle scale. “Però, lei
portava il velo”, feci presente io, ma il ragazzo mi informò, ridendo, che,
sotto sotto, anche sotto quel velo, la fanciulla non era esattamente una
santarellina; mi disse che aveva bisogno di soldi per ricaricare il cellulare,
e lì non volli sentire altro.
In ogni
caso, spero che da quelle scale non ce l’avessero buttata davvero.
Malika,
invece, il problema del velo non se lo poneva proprio. In Italia c’era venuta a
quasi quarant’anni per cambiare vita, per cercare una possibilità di
sopravvivenza, innanzitutto. Mai andata a scuola, in Marocco, come tante altre
quarantenni, trentenni e pure ventenni, purtroppo.
“Tu mai
andata a scuola?” le chiedeva Adam, sempre curioso come una comare, mentre, di
straforo, squadrava le gambe bianche e tornite di Kamelia, ventenne romena di
un metro e ottanta e di una bellezza imbarazzante, che veniva a scuola fasciata
in fuseaux che più sexi non si può, con le chiappe ben in vista, oppure con
minigonne inguinali da capogiro, “e perché mai andata a scuola?”
“Mio
padre non mi ha mandata, ha mandato solo i maschi. Per questo io non sono
studiata. La scuola era lontana, tanti tanti chilometri in campagna. Troppo
pericoloso per una bambina. Non si poteva. E tu, Adam tu sei andato a scuola?”
Adam
chinava il capo, poi ripeteva per tre volte “no” (lui ripeteva sempre per tre
volte le risposte) e aggiungeva che aveva frequentato soltanto la scuola di
Corano e che sapeva appena appena leggere e scrivere in arabo. Ventidue anni e
analfabeta (ma aveva poi imparato a leggere e scrivere in italiano in tre mesi)
e in Italia in attesa di un permesso come rifugiato.
“E la
tua famiglia?” continuava Malika, curiosa anche lei come una perpetua - ma io
lasciavo fare, perché era un bel modo per intavolare un discorso ed eseguire
un’esercitazione tra persone di lingue e culture diverse, costrette a parlare
in italiano per comprendersi, - “la tua mamma, il tuo papà… e hai fratelli in
Sudan?”
Saltò
fuori che la città di Adam era stata bruciata, che erano arrivati i ribelli con
tanto di lanciafiamme e mitragliatrici e mitra e fucili e bombe e avevano
sterminato tutti e tutto.
Saltò
fuori che Adam e la sua famiglia erano fuggiti, ma mentre fuggivano, la madre
era caduta sotto i colpi dei combattenti ed era scappata ancora, con la bambina
più piccola attaccata al petto. Erano riusciti a rifugiarsi in mezzo agli
alberi, ma la mamma non ce l’aveva fatta ed era morta. Così erano scappati
ancora e ancora e, dopo tanto scappare, si erano messi in salvo. Però, poi,
come fare a mangiare? Adam e suo fratello più grande erano partiti per la
Libia, dove avevano trovato subito lavoro, perché sotto Gheddafi di lavoro ce
n’era tanto; al contrario, suo padre era rimasto in Darfur con la bambina
piccola, aspettando i loro soldi per poter sopravvivere.
E poi?
“E poi siete arrivati voi e ci avete bombardato”, disse Anthony, altro profugo,
“perché erano le vostre bombe e i vostri aerei che ammazzavano in Libia, lo
sai, vero?”
E bravo
Anthony: grande sorriso con gli incisivi separati nel mezzo, occhi luminosi,
volto e corpo che erano un vero inno alla perfezione della creazione divina (e
tu afferravi che l’uomo bianco è solo una versione deteriorata dell’atto
creativo di Dio), Anthony aveva capito tutto della “primavera araba” - la
rivoluzione che aveva cambiato l’aspetto del Nordafrica in pochi mesi - della
guerra in Libia e di tutte le guerre. Petrolio, e altri interessi economici.
Punto.
Anthony,
trent’anni, profugo ghanese, aveva capito tutto, e lo diceva chiaramente.
Poi
arrivava Abdelmoula. Arrivava tardi, perché prima finiva i lavori nella stalla,
si faceva la doccia e si cambiava. Dimostrava sessant’anni, ma aveva l’età dei
miei figli; certo, l’eccessiva magrezza, le rughe e i larghi vuoti in bocca tra
i pochi denti incrostati di tartaro, i capelli ricci arruffati e mal accomodati
non ne sostenevano l’avvenenza.
Trent’anni
e analfabeta. Ma analfabeta al punto da non aver mai preso in mano una matita
nemmeno per fare un segno sul muro. Con non poco imbarazzo, come già avevo
dovuto fare per molte donne analfabete, gli insegnai a impugnare la matita e,
tenendogli la mano, lo aiutai a dirigere i primi segni sul foglio, mostrandogli
i quadretti da seguire.
Ora,
qual è il problema in questi casi? È che gli altri connazionali presenti – e
capaci più di lui – invece di incoraggiarlo e di offrirgli sostegno, cominciano
a spettegolare tra di loro in arabo, i fetenti, e non ci vuole molto a capire
che si stanno facendo meraviglia della sua difficoltà e della sua mancanza di
istruzione.
A quel
punto so che devo bloccare sul nascere la cosa, pena la perdita dello studente,
che se ne andrebbe e non tornerebbe più. Nel caso di Abdel mi aiutò proprio la
mia rumorosa Malika.
“Vero,
Malika, che se Abdel fosse andato a scuola ora sarebbe forse anche laureato?”,
la buttai là, “Perché anche tu, Malika, sei così intelligente e hai fatto
talmente tanti progressi che, se tuo padre ti avesse mandato a scuola, a
quest’ora saresti più o meno una maestra come me.”
S’illuminò,
Malika, bella come le terre d’Africa, con i grandi occhi neri sotto i capelli
dai colpi di sole biondi, e si girò prontamente verso quelli che spettegolavano
ridacchiando alle spalle di Abdelmoula: “Sì, ho imparato qui, e sono già
vecchia; lui è giovane e imparerà ancora prima di me.”
Certo
che Abdel aveva un bel coraggio: non sapeva né leggere né scrivere, eppure
possedeva, non so come, la patente ed era tornato dal Marocco in auto,
scendendo dal traghetto a Livorno, nel porto, e poi infilando l’autostrada. “Ma
come cavolo hai fatto?”, gli chiesi.
Rise,
con quei suoi pochi denti scuri e mi disse che si era fatto scrivere su un
foglio, in fila, tutti i cartelli stradali da seguire, così, anche se non
sapeva leggere, contava e controllava le lettere di ogni segnale e giunse a
casa probabilmente con meno fatica di quella che avrei fatto io.
Cominciò
a frequentare, scrisse e lesse le vocali, le consonanti e le sillabe per mesi e
mesi, Abdel, finchè un giorno arrivò e mi disse di essere riuscito a leggere il
cartello stradale di Felina da solo.
E
Malika a fargli coraggio, a fare anche confusione, a dire il vero, che a lei il
divieto di ridere in pubblico per una brava donna musulmana proprio non la
sfiorava.
Rideva
con Abdel, gli diceva di trovarsi una brava ragazza, anche italiana, volesse il
cielo, che a volte le marocchine non sanno fare niente in casa – parole sue –
stanno solo a letto fino a mezzogiorno e guardano la televisione fino alle due
di notte.
“Cosa
dici, Malika!”, la bloccavo io, per evitare nuovi attriti con Soundous e le
altre osservanti, “Ma se devono ubbidire in tutto e per tutto ai mariti…”
Allora
Malika cambiava subito registro e si correggeva, affermando che donne e uomini
sono poi uguali in tutto il mondo, e concludeva, come sempre, che quel che fa
la differenza tra le persone non è la provenienza, non è il Paese: “Se un
marocchino è povero, è un poveretto e basta; se è ricco, è ricco e conta tanto
come un italiano ricco o un americano ricco, non è vero?”
Verissimo,
Malika, la filosofa.
Abdelmoula
lavorava in stalla, ma arrivava sempre pulito; ogni tanto sapeva di fumo di
legna, probabilmente per un cattivo funzionamento della stufa che, mi aveva
detto, in Marocco non aveva mai usato perché non ce l’aveva. Eppure, veniva
dalle montagne, dove a volte nevica, e la sua casa era di fango. In realtà,
sono case molto belle, ben costruite, con stanze larghe e dipinte, ma le grandi
pareti, invece che di mattoni cotti (o di pietra o di legno), sono di fango
mescolato con la paglia e pressato.
Un bel
salto da quei villaggi alle grandi città moderne come Agadir o Casablanca, e il
fatto che qui da noi, invece, ci siano belle case anche in campagna l’aveva
parecchio sorpreso.
L’odore
del fumo della stufa lo portavano a scuola in molti, in inverno; a volte tanto
forte da infastidire, soprattutto se mescolato a quello della stalla o delle
varie pietanze speziate. Gli unici uomini ad arrivare sempre pulitissimi,
profumati, con camicie immacolate e ben stirate, erano i ragazzi africani.
“Anthony,
ma chi ti stira le camicie?”, chiedevo io, ben conoscendo già la risposta, “Io,
maestra, facciamo tutto noi, da soli.” “Anche gli uomini marocchini quando
abitano qui senza moglie fanno tutti i lavori di casa”, disse Malika, sempre
pungente, “ma come si sposano pretendono che sia la moglie a servirli in tutto.
Non spostano più neanche un bicchiere d’acqua.” Ah, be’, Malika cara, non è che
gli italiani siano poi molto diversi, pensai, ma mi tacqui.
“Kakula
m) )ze )sawo nrenzi la )ne Mgbayinri to sal3”, sentenziò Anthony in lingua
nzema, e io me lo feci scrivere: quei segni, parentesi e numero tre,
sostituiscono lettere corrispondenti a suoni inesistenti in italiano. “Che
significa, di grazia?” “Significa che un bambino che sa bene come lavare le
mani ha poi spesso il privilegio di mangiare con le persone più importanti e
fantastiche.” Ecco: meglio lavarsi le mani e andare dunque in giro sempre
puliti, come non dare ragione a Anthony? Bella la cultura nzema. Uno dei tanti
popoli del Ghana, una delle quarantasette lingue del Ghana di cui la
preparatissima, dotta, benintenzionata insegnante non sapeva un bel niente. Un
popolo che, dalle spiegazioni di Anthony, manteneva tutta una struttura se non
matriarcale, perlomeno matrilineare.
Ma
“sciuia sciuia” anche la povera maestra imparava. Innazitutto che il sapere
scolastico, per quanto tu abbia studiato, è sempre delimitato, ristretto e
legato al patrimonio di conoscenze del luogo dove si nasce e poi, di nuovo, che
imparare dai libri - e solo dai libri - è estremamente riduttivo, se non
impoverente.
Biblioteche
viventi di sapere sono le persone, anche di quel “sapere” scomodo, orrido,
quello che non vorremmo nemmeno conoscere, ma che c’è.
“Sciuia
sciuia” imparavo, con immensa gratitudine, dai miei studenti, e mi sentivo come
un muratore della torre di Babele, lì a costruire tutti insieme una via per il
cielo; ma stavolta non come competizione
tra Dio e gli uomini, sfidando il disprezzo divino per l’orgoglio e la superbia
umana. Le genti di Babele, che parlavano una sola lingua, avevano costruito una
città e una torre simbolo di un impero «per darsi un nome», per «immortalare la
loro fama».
Non
significa forse, nel linguaggio semitico fortemente simbolico, che quegli
uomini volevano creare un impero universale che omologasse tutti? Un
imperialismo planetario, quello che sta attuando oggi il mercato globalizzato
senza regole, che voleva cancellare la diversità delle lingue, delle culture e
della genti. E Dio lo impedì.
Magnifica
lezione per gli imperialismi economici, mercantili, finanziari e politici di
oggi. E noi, a parte cercare di favorire il dialogo e la conoscenza tra le
persone, anche insegnando una lingua, che possiamo fare contro queste Bestie
apocalittiche che spadroneggiano sul mondo?
“Kakula
b) 3lonkw3 na )m) 3wonra, cioè: un bambino può rompere una lumaca, ma non una
tartaruga”, decretò Anthony con la sua saggezza nzema, quando glielo feci
presente. Però, poi, per consolarmi aggiunse: “Nkakra nkakra 3na akok) 3de nuom
nsuo: piano piano, anche il pollo beve l’acqua.”
“Piano
piano, sciuia sciuia, nkakra nkakra” erano le parole che avevo dovuto fare mie
nel corso dei primi anni come insegnante di italiano per gli adulti stranieri;
avevo imparato la pazienza delle lunghe attese di risultati anche minimi, come
riuscire a riconoscere le cinque vocali, per un analfabeta, dopo mesi e mesi di
lavoro.
“Sciuia
sciuia, nkakra nkakra”, anche gli indiani che scendevano due volte alla
settimana da Ligonchio, sul crinale dell’Appennino, quasi ai confini tra Emilia
e Toscana, per frequentare la nostra scuola, impararono l’italiano a un livello
sufficiente per comunicare.
Il
pioniere dei corsi di italiano della piccola enclave sikh di Casalino di
Ligonchio (sette famiglie, credo) era stato Sadhu Singh.
La
prima volta che lo vidi arrivare con il motorino e il casco sul turbante mi
sembrò di essere risucchiata in un film di Bollywood, perché lui era davvero il
prototipo del bravo padre di famiglia indiano rigorosamente osservante delle
tradizioni sikh, ma anche, in qualche modo, desideroso di lavorare e migliorare
le condizioni della sua famiglia.
In
motorino, scendeva dal crinale nonostante la neve e le strade ghiacciate,
percorrendo per due ore buone la montagna alla volta di Castelnovo ne’ Monti.
Venne
prima lui, poi mi portò i parenti (questa volta in corriera) e, infine, i
figli. Fu allora che scoprii l’ “holba”.
Il
gruppo degli indiani si metteva nei primi banchi, proprio davanti a me. Erano
pulitissimi, belli nei loro abiti colorati; i maschi con i turbanti viola,
arancioni, blu cobalto, rossi; le donne con il churidar o salwar-kameez e una
dupatta (lunga sciarpa) gettata sulle spalle.
Tempo
dieci minuti e l’aula si saturava di un odore insostenibile.
Ma
cos’era? Non si respirava.
Li
vedevo un po’ tutti in sofferenza, i miei studenti, tranne gli indiani e, in
parte, i marocchini, che parevano conoscere bene la meravigliosa fragranza che
ci ammorbava.
Che
fare? Mica potevo offenderli dicendo che qualcuno puzzava e che io stavo
davvero male, tanto che non riuscivo a respirare e mi lacrimavano gli occhi.
Aveva
l’aria, nel mio caso, d’essere una vera e propria allergia.
La mia
meravigliosa Malika, allora, un giorno capitò a scuola con un vasetto; venne da
me, me lo mise sotto al naso e lo aprì: “Vedi? È questa!”
Mio
Dio! Riconobbi l’odore contaminante che avevano addosso gli indiani. “Che
cos’è, Malika? Una spezia?”, le chiesi, “Certo, è l’holba. L’usiamo anche in
Marocco, ma bisogna cucinare all’aperto o tenere tutte le finestre spalancate,
altrimenti l’odore si attacca a tutto.”
Mi
raccontò che la spezia veniva adoperata come ingrassante per dare rotondità
alle donne vicine al matrimonio, poi per i soggetti debilitati e convalescenti
di lunghe malattie infettive, per quelli affetti da disturbi nervosi o
eccessivamente magri, per la perdita dell’appetito e la debolezza generale.
Una
spezia capace di combattere l’anemia e utile per aumentare la secrezione lattea
delle nutrici. Insomma: una vera panacea.
Ecco
perché gli indiani ne erano impregnati: la impiegavano a piene mani in cucina e
dopo potevano pure scendere in motorino per le strade innevate senza ammalarsi!
E come
si chiamava in italiano? Scoprii che si trattava di un’erba che cresceva,
spontanea, persino nel mio giardino: era il fieno greco, una leguminosa.
Fusto
diritto e cavo, foglie composte da tre foglioline dentate, fiori giallastri di
forma triangolare (trigonos in greco, da qui il nome botanico), semi prismatici
o romboidali che vengono raccolti a piena maturazione (color marrone-rossiccio).
I semini marroni con un odore tra il tartufo, il gorgonzola, la cacca e i piedi
sporchi che mi aveva portato Malika.
Non sui
libri, non studiando, ma in mezzo alle persone, avevo alla fine incontrato
l’holba, ovvero, avevo imparato che di odore, in ogni caso, non si muore; anzi:
di holba si ingrassa, si guarisce dalla depressione, dall’anemia, dalle
infezioni e si diventa belle spose formose e capaci di allattare molti figli.
D’odore non si muore, dunque.
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