Cap.
6
HABEMUS
PONTIFICEM!
– Che
dite, Pedro, credete che gli Spagnoli e i Portoghesi gradiranno
questo decreto?
Papa
Alessandro VI parlava al fido camerlengo Pedro Calderon, detto
Perotto, al quale aveva appena ultimato di dettare una lettera
indirizzata a Ferdinando ed Isabella, sovrani di Spagna. In realtà,
più che di una semplice missiva, si trattava di un decreto con il
quale egli fissava la linea di spartizione del novello continente,
entro la quale erano contenuti i possessi spagnoli. A oriente di tale
tracciato, tutto apparteneva per diritto al Portogallo.
–
Santità, non saprei
– rispose dubbioso Calderon – mi sembra, comunque, un’epistola
molto ben scritta, direi… persuasiva! Volete che la rilegga?
–
Certamente, Perotto,
procedete…
“Abbiamo
con piacere appreso che vi eravate già proposti di ricercare e
scoprire alcune isole e terreferme lontane e sconosciute, e fino a
ora mai trovate, per ridurre i loro abitanti a venerare il Redentor
nostro e professare la fede cattolica e che, fino ad ora, non avevate
potuto attuare il vostro proposito, ma che, finalmente, a Dio
piacendo, recuperato l’anzidetto regno, per raggiungere il vostro
intento avete scelto il diletto figlio Cristoforo Colombo, uomo
degnissimo e ragguardevole…”
– Già,
– lo interruppe il pontefice – Cristobál Colón, il mio alleato
genovese che tutti consideravano pazzo… un uomo predestinato, nato
facto, Cristoforo come portatore di Cristo che traversa le acque
le acque del Mare Oceano. Cristobál Colón, figlio di papa Innocenzo
VIII, di sangue ebreo e arabo ma vi prego, proseguite… andate
all’ultima parte, quella che esamina la concessione delle terre.
– Ah!
Sì, ho capito – continuò Perotto – ecco:
“Noi,
pertanto, di motu proprio e non già in seguito a vostra istanza o
petizione, ma di nostra pura liberalità e certa scienza e nella
pienezza della nostra apostolica podestà… tracciata una linea da
Nord a Sud la quale disti da Occidente a Mezzogiorno cento milia da
qualsiasi delle isole che volgarmente si chiamano ‘de los Azores y
Cabo Verde’, tutte le isole o terreferme trovate o da trovare,
scoperte o da scoprire al di là di detta linea verso Occidente e
Mezzogiorno, quando siano state per mezzo di vostri inviati scoperte,
non siano più possedute da alcuno altro principe cristiano e per
l’autorità dell’Onnipotente Dio a Noi concessa… a voi e ai
vostri eredi (Re di Castiglia e di Leòn) in perpetuo doniamo,
concediamo, assegniamo con tutti i loro domini, città, castelli,
luoghi e ville, diritti, giurisdizioni ed ogni pertinenza, e di essi
Voi e i vostri eredi e successori facciamo signori, con piena, libera
e completa autorità e giurisdizione. Romae, 4 Nonas Maij 1493…”
–
Bene, bene, –
Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, si soffregò le mani soddisfatto
– credo proprio che lo accetteranno… Hanno speso talmente tanti
anni per persuadersi che Colón aveva ragione… che ora conviene
loro non trattare la spartizione delle nuove terre da me proposta!
Ah! Chissà quanto veleno avrà inghiottito re Giovanni di Portogallo
quando, l’8 marzo scorso, si è visto piombare a corte l’Ammiraglio
con alcuni marinai e diversi nativi delle Indie e… l’oro! Bene,
bene: ho di che essere contento!
L’estate
precedente, quando Rodrigo era asceso al soglio pontificio, Roma non
era già più la sfavillante capitale dell’antico Impero della
Bestia, nucleo politico, culturale ed economico del mondo, e degli
sfarzi di allora ben poco aveva serbato. In un’Italia che contava
circa sette milioni di abitanti, la città raggiungeva a malapena i
cinquantamila, dei quali – si dice – ben cinquemila fossero
prostitute.
Dormiva
veramente l’Urbe, adagiata sui sette colli totalmente spopolati,
dove i boschi erano ricresciuti selvatici in un intrico di vigneti
non più curati e domati dall’uomo, ma in compenso infestati dai
serpenti. Anche il tempio di Esculapio, sull’isola Tiberina, era
completamente avvolto dalla vegetazione e frequentato dai rettili.
Era stato edificato, il luogo di culto, nel 293 a. C., quando Roma
era stata investita da una pestilenza ignota, insanabile; i Libri
Sibillini, per contrastarla, avevano suggerito di trasportare il dio
Esculapio dal santuario di Epidauro fino alle rive del Tevere. Allora
il dio stesso, in foggia di gigantesco serpente, si era
materializzato tra lo sbigottimento dei navigatori ed era salito
sulla nave dei romani, che lo avevano condotto in città. Qui giunti,
il rettile si era arrampicato sull’albero maestro, osservando con
cura i quartieri intorno, poi era sceso dalla nave, toccando terra
sull’isola Tiberina. Ora, nemmeno il dio della guarigione e della
medicina poteva alcunché contro la malattia che stava riducendo alla
miseria Roma. Tra le macerie del Campo Vaccino – i vecchi Fori
Imperiali – i pastori conducevano le greggi, mentre stuoli di
pellegrini e mendicanti, giunti da ogni dove, vi bivaccavano in
attesa di trovare posto nelle luride bettole urbane. I marmi crollati
erano riciclati dai calcarari, che frantumavano e
polverizzavano le rovine mutandole in calcina. Aggravava il
decadimento di Roma tutto un pullulare di spagnoli, considerati dai
romani gente grezza, incolta e depravata, così poco in confidenza
con l’acqua da far nascere il detto che “se il vento spirava
bene, si sentiva l’avanzare d’una compagnia di spagnoli ad un
miglio di distanza.”
Al
riparo della canicola, negli alloggi della sua rocca situata proprio
di fronte al Vaticano, sull’altra sponda del Tevere, Rodrigo
attendeva inquieto l’evento per il quale aveva immolato tanti anni
di lavoro e immense quantità di quattrini. E la recente morte di
Giovanni Battista Cybo, forse dovuta alla cantarella, era
parte del suo piano. Sapeva della sua nomina, ne era sicuro. Era
riuscito a comprare gli ultimi voti promettendo in sposa la “nipote”
Lucrezia – in reatà figlia sua e di Vannozza Cattanei Canale – a
Giovanni Sforza, signore di Pesaro e riconoscendo a Ludovico Sforza
il titolo di Duca di Milano.
Il
caldo era seriamente eccessivo, quell’11 agosto 1492; l’umidità
altissima rendeva l’aria soffocante. Poi, finalmente, l’annuncio:
“Habemus pontificem!” gridato a gran voce da una finestra
spalancata sul sagrato di San Pietro. E un violento temporale si era
scatenato sulla città fiaccamente assopita e un succedersi di
folgori aveva rischiarato i marmi della grande basilica
costantiniana, tempio preminente della cristianità.
Quel
dì, a sessantun anni, Rodrigo toccava il massimo obiettivo a cui un
uomo di Chiesa potesse aspirare, ed erano lacrime di gioia quelle che
gli rigavano il volto, mentre Johann Burchard, maestro cerimoniere,
gli comunicava la buona nuova.
Un
altro spagnolo – dopo Alonso Borgia, papa Callisto III – a
rappresentare Cristo sulla terra.
Ora,
a intervallo di quasi un anno, il novello pontefice sentiva di poter
reclamare la scoperta delle terre ad occidente come sua vittoria,
poiché era stato uno dei pochi a confidare fermamente nei progetti
folli di Colón. Tra le innumerabili angustie dovute alla sua
collocazione politica e soprattutto a quella di padre di quattro
figli, decisamente poco santi, l’arrivo dell’oro dal nuovo mondo
costituiva un vero toccasana.
Il
figlio Cesare lo angosciava, così giovane e smanioso di potere; a
lui aveva garantito la porpora cardinalizia, ma sapeva che non si
sarebbe contentato. Poi la bionda Lucrezia, che a soli tredici anni,
il mese seguente, avrebbe sposato il nipote del cardinale Ascanio,
suo fiancheggiatore nella lotta per il soglio pontificio contro il
cardinale Giuliano Della Rovere. Quel Giovanni Sforza che tanti
dicevano omosessuale. C’era da organizzare il matrimonio e la villa
Belvedere, fabbricata da Giovan Battista Cybo sulle alture, distante
dalle paludi insalubri in cui si impelagava il Tevere, pareva il
posto idoneo.
Le
nozze avrebbero preservato lo Stato della Chiesa dai Francesi,
potenti alleati della famiglia Sforza, ma Lucrezia… quanto ne
avrebbe sofferto?
E
l’altro figlio Juan, delicato, snervato, che aveva acconsentito
comunque a prendere in moglie la sorella di Alfonso d’Aragona per
rinvigorire i legami con la Spagna, sarebbe stato in grado di scovare
un po’ della mascolinità dei Borgia a sufficienza tanto da
riuscire a consumare il matrimonio?
Rodrigo
era realmente impensierito per i propri cari, e lo era ancor più per
ciò che sarebbe successo alla Chiesa e all’Italia una volta morto
il vecchio re di Napoli. Si aspettava l’aggressione degli
stranieri, che si sarebbero catapultati come avvoltoi su quel regno,
quindi cercava di tutelarsi. In fondo, a questo servivano i
discendenti e i matrimoni. Unico conforto, in quella sua vita
macchinosa e alienata di Principe della Chiesa tanto impaniato nei
poteri secolari, Giulia Farnese Orsini, vent’anni, bellissima sua
attuale amante.
– Vi
prego, Pedro – Rodrigo parve tornare i sé – leggetemi più
attentamente quella parte della lettera che dice di portare alla fede
cattolica le popolazioni delle Indie…
–
Certo Santità –
rispose Perotto – ecco:
“Ed
essi finalmente(con il divino aiuto), navigando nel mare Oceano,
scoprirono certe isole remotissime ed anche terreferme, mai da altri
trovate, abitate da popolazioni pacifiche che, come si afferma,
credono esservi nei Cieli un unico Dio creatore e sembrano molto
adatte ad abbracciare la fede cattolica e a praticare i buoni
costumi. Perciò vi siete proposti… di sottomettere a voi, col
favore divino, le predette terreferme e isole e i loro abitanti e di
ridurre questi alla fede cattolica.”
–
Popolazioni
pacifiche? Santità, come possono essere pacifiche se controllano
tutto quell’oro?
– Vedi
Pedro… – proferì il pontefice – penso che la dissonanza tra
noi e loro stia nel fatto che essi possiedono l’oro, mentre
noi ne siamo posseduti… Sono buoni, non conoscono la
violenza e credono già in un Dio unico… Convertirli alla fede in
Cristo sarà più semplice del previsto…
–
Santità… –
sbottò Perotto dopo un attimo di silenzio – ma… quanto male
faremo a quelle genti?
Rodrigo
non replicò, abbassò il capo sullo scritto e rimase pensoso a
fissarlo.
Aveva
presente la bolla papale di Nicolò V al re Alfonso V del Portogallo,
nel 1452, che avallava ufficialmente la linea dura della Chiesa
cattolica contro gli Arabi e l’Islam:
“La
principale ansia che ci portiamo nel cuore è che i nemici del nome
cristiano dovrebbero essere repressi e soggiogati alla religione
cristiana,(…) perciò in nome dell’autorità apostolica e sulla
base di questa lettera noi vi concediamo:
la
piena e libera facoltà di catturare e soggiogare saraceni e pagani e
altri infedeli e nemici di Cristo ovunque si trovino;
di
invadere e conquistare i loro regni, paesi, principati e altri
domini, terre, luoghi, villaggi, campi e possessi;
di
prendere possesso di ogni bene vi si trovi, sia mobile sia immobile,
che sia posseduto da questi stessi saraceni, pagani, infedeli e
nemici di Cristo;
di
ridurre in schiavitù i loro abitanti;
di
appropriarvi perpetuamente per voi e i vostri successori, i re del
Portogallo, dei reami, dei ducati, dei paesi, dei principati e altri
domini, possessi e beni di questa sorte, convertendoli al vostro uso
e utilità e a quella dei vostri successori.”
I
Mori erano stati cacciati definitivamente dalla Spagna l’anno
precedente, con grande esultanza di Torquemada che aveva preso ad
accanirsi su quelli rimasti accrescendo i roghi, e i loro patrimoni
erano stati “convertiti ad uso e utilità” dei sovrani spagnoli.
Ora
la sua bolla avrebbe animato i colonizzatori ad occupare e asservire
i popoli delle Indie per portar loro la fede di Cristo.
– “Il
Signore non lascia impunito chi si serve del suo nome per la
menzogna.” – mormorò tra sé – Che Dio abbia pietà
di noi…
Poi
tuffò la penna nel calamaio e pose la sua firma in calce al decreto.
Sotto
i loggiati che cingono la Santa Casa, Juan del Campo cerca riparo
dalla pioggia fine che lo accompagna da giorni. È fradicio,
affamato, senza forze sufficienti per mettersi alla ricerca di una
taverna. Se ne sta lì, seduto a terra, la schiena contro il muro,
mentre un uomo con l’aspetto del vecchio Mosè ai confini della
Terra Promessa gli narra di Paolo II – il cardinale Pietro Barbo –
malato di peste e risanato dalla Madonna di Loreto.
– Sì,
sì – insiste lo sconosciuto – la Madonna lo guarì e gli rivelò
l’imminente elezione al papato. Così, divenuto papa, Pietro Barbo
iniziò la costruzione di questo edificio intorno alla Santa Casa. E
voi… che voto dovete sciogliere, se mi è consentito di saperlo?
Juan
dischiude gli occhi ed scruta dubbioso il suo interlocutore. Poteva
trattarsi di uno dei tanti ribaldi profittatori che vagavano
questuando da un hospitale all’altro, o di uno di quei tagliaborse
che gironzolavano per l’Europa con bisaccia e bordone, assalendo e
rapinando i veri pellegrini. Quanti ne aveva incrociati in quei due
mesi di cammino?
– Il
mio voto? La Madonna mi ha salvato da una tempesta…
–
Siete spagnolo… un
marinaio dunque?
– Non
esattamente… forse – continua pensoso Juan – sono soltanto un
uomo disperato…
– Ah!
– ride lo sconosciuto – Siete un infelice che ha lasciato la casa
perché il fumo del focolare gli infastidiva gli occhi, il tetto
sotto la pioggia era un colabrodo e la consorte una sgraziata e
insopportabile arpia? Sono queste le tormente da cui la Madonna vi ha
liberato?
Juan
abbozza un sorriso divertito: quell’uomo sembra troppo attempato e
bonario per essere un malvivente. Ha gli occhi grigi, acuti come
spilli, ma spogli di ogni malvagità. Decide di fidarsi.
–
Avete sentito
parlare dell’iniziativa di Cristoforo Colombo?
– Il
genovese che ha raggiunto le Indie solcando i mari verso occidente?
Mio Dio! Non ditemi che eravate con lui?!
– Ero
con lui, – conferma Juan – con lui ho camminato su quelle nuove
terre e con lui sono rientrato in Spagna, esattamente il 15 marzo
scorso. E ora sono qui, a sciogliere il mio voto…
–
Immagino –
commenta il pellegrino – che navigare nel mare Oceano su rotte
ignote abbia comportato seri rischi…
– Già!
Ma i problemi più gravi li abbiamo incontrati al rimpatrio: ben due
tifoni ci hanno investito!
In
effetti, solo la rapidità di riflessi dell’Ammiraglio, la sua
cognizione ed intuito erano riusciti a controllare la caravella in
mezzo al furore delle onde titaniche e dei venti violentissimi che la
sospingevano, sballottando le imbarcazioni come vuoti gusci di noce.
La
prima volta era successo giovedì 14 febbraio, al largo di Santa
Maria delle Azzorre quando, nella bolgia del ciclone, la Pinta
capitanata da Pinzòn si era allontanata dalla Niña, perdendo
definitivamente i contatti per il resto del viaggio. Una vera tromba
d’aria era comparsa alta sulle onde, avvoltolandosi su se stessa e
sibilando come un serpente, un drago orripilante che si levava dai
marosi fagocitando tutto intorno a sé.
Nella
mente di Juan il ricordo vivo della serpe che, la notte di Natale,
aveva preso possesso del timone della Santa Maria. Ancora Lui?
“La
sua coda trascinava giù un terzo delle stelle del cielo e le
precipitava sulla terra…”
Anche
se a chi crede è dato il potere di camminare su aspidi e vipere,
come sostengono i salmi, anche se l’evangelista Luca ribadisce che
il Signore concede ai suoi discepoli di passare indenni tra serpenti
e scorpioni, quell’immagine sinistra di nuovo lo aveva sgomentato.
C’erano
stati momenti di vera disperazione in tutto il personale di bordo,
tanto da spingere Colón e i marinai a pregare e offrire voti alla
Santissima Vergine; l’angoscia, più che la fede, aveva prodotto
preghiere, suppliche e l’impegno di realizzare alcuni
pellegrinaggi, uno dei quali a Santa Maria di Loreto, nella Marca di
Ancona.
A
tale scopo era stato tirato a sorte un navigante, Pedro de Villa, a
cui l’Ammiraglio avrebbe rimborsato il viaggio. Purtroppo le
condizioni di salute dell’uomo si presentavano tanto dubbie che con
poca probabilità avrebbe potuto portare a termine il mandato; Juan
del Campo si mise a disposizione per incamminarsi al posto suo.
Finalmente,
dopo intense implorazioni, la tempesta si era ammansita e
l’incarnazione delle potenze abissali era stata soggiogata e
respinta nelle voragini oceaniche dal soffio rasserenante di Dio.
Poi
il 24 febbraio, ormai in vista della terraferma, la seconda terribile
burrasca aveva strappato e distrutto le vele della caravella, che
aveva rischiato di andarsi a frantumare sulle coste del Portogallo.
Ancora in quel frangente, la competenza nautica di Colón aveva
strappato al pericolo ciurma ed imbarcazione – l’Ammiraglio al
timone e la sola vela di pappafico spiegata – dirigendoli al riparo
dentro il fiume di Lisbona. Nel momento di massima emergenza, Colón
aveva ripetuto i versetti dell’Apocalisse e, dopo la preghiera,
come uno sciamano, alla maniera dei pescatori siciliani nel
cerimoniale “dragonara”, aveva tagliato la tempesta con la spada,
sedando gli elementi.
– Ed
ora eccomi qui – conclude Juan – a raccontarvi la mia avventura…
–
Avete davvero di che
render grazie alla Vergine – commenta lo sconosciuto – e avete
scelto bene: quale luogo più opportuno della sua casa nativa? Queste
mura l’hanno vista infante e tra queste mura Maria ha udito
l’annuncio dell’angelo. Qui la Sacra Famiglia è tornata ad
soggiornare dopo la fuga in Egitto e qui Gesù ha vissuto sino a
trent’anni. È un luogo intriso di spirito, uno spazio santo…
– Voi
credete davvero che gli angeli abbiano traslocato la Santa Casa da
Nazareth a Loreto?
– Ne
dubitate? Accadde il 10 maggio 1291, per trarla in salvo dai saraceni
che avevano invaso la Palestina. Oh sì! Si può anche essere
sospettosi sulla veridicità di tale notizia, ma la suggestione qui è
tanta e tanto il senso del divino. La casa della Sacra Famiglia…
Piuttosto… e la vostra famiglia dove si trova?… Perché…
l’avete una famiglia, vero?
Juan
sembra convogliare la propria attenzione sulla silhouette di un
insetto che si inoltra a fatica nella mota, descrivendo bizzarri
arabeschi. Una famiglia, sì: aveva avuto una famiglia, una sposa,
una casa, un bambino che non gli era stato dato di conoscere. Poi
quell’essere immondo, l’INQUISITORE, gli aveva rubato tutto. Juan
balza in piedi e schiaccia stizzosamente l’insetto, sollevando
schizzi di fango tutt’intorno.
– Ehi!
Che succede? Attento! – lo redarguisce il pellegrino – Era
soltanto un misero maggiolino, niente di pericoloso! Ho detto
qualcosa che vi ha ferito?
– La
mia famiglia è stata dispersa da una serpe – replica Juan con voce
sommessa – uno spirito del male che sta affollando la Spagna di
roghi sui quali, in nome di Dio, immola sadicamente migliaia di
persone che hanno il solo torto di essere principalmente donne,
curandere, levatrici, oppure figlie di ebrei conversos,
come la mia sposa…
–
Vergine Santissima!
Torquemada… È terribile! Vostra moglie è finita sul rogo?
Gli
occhi di Juan si concentrano sulle pietre della Santa Casa, quasi a
cercarvi una dimostrazione di autenticità. La modesta dimora di
Maria era stata spostata dagli angeli prima sopra il poggio di
Tresatto, di là dell’Adriatico, poi in un boschetto di lauri
prossimo a Recanati, poi ancora mille passi discosto, nelle terre
contese tra i fratelli Simone e Stefano Antici. Infine, per levarla
ai contrasti tra i due, con un ultimo volo gli angeli l’avevano
sistemata proprio nel bel mezzo di una strada pubblica, nel punto
dove poi era sorto il luogo di culto. Chissà se davvero quelle
pietre serbavano la memoria della voce di Maria piccina, del saluto
dell’arcangelo Gabriele e poi dei pianti, delle risate e dei giochi
del Bambino Gesù.
Juan
le lambisce con una mano, discretamente, lisciandone i bordi e le
scabrosità, vi accosta la fronte, sospira.
– È
stata seviziata, ha partorito in carcere il nostro bambino, –
risponde – poi l’hanno condannata al pellegrinaggio a vita. Tutto
perché ha nelle vene sangue giudeo, lo stesso di Cristo. Ora non so
dove si trovi, non so se sia ancora in vita e non so nemmeno dove sia
mio figlio. No, Elvira non è morta sul rogo, ma per me è come se lo
fosse, perché non la rivedrò più. Ecco che cosa mi ha spinto ad
imbarcarmi per le Indie… Ecco perché sono qua, in questo posto
sacro, alla ricerca di un indizio che mi confermi l’esistenza di
Dio, del suo amore, della sua misericordia. Vi confesso che credere,
a questo punto, mi è sempre più gravoso… che razza di Chiesa è
questa, che sopprime e tortura i suoi figli? Come confidare nel Dio
di questa Chiesa?
Per
qualche secondo il vecchio rimane in silenzio, poi si rialza a
fatica, barcollando, si accosta a Juan, gli posa una mano sulla
spalla:
–
Amico mio, non
esiste una religione e non può esistere una Chiesa senza momenti di
follia assolutista, i quali, inevitabilmente, conducono al sopruso e
alla brutalità. Il congiungimento mistico con Dio su un piano
orizzontale, che fonde il divino con l’umano, e non su un piano
verticale, intangibile, viene visto come qualcosa di pericoloso dai
canonisti di qualsiasi fede, perché sovversivo, fonte di vera
conversione e in conflitto con l’idea stessa che si possano
avere uomini potenti perché voluti da Dio e un potere legale a cui
offrire in sacrificio altri uomini. Così scattano le persecuzioni.
Gli Ebrei non hanno forse permesso la tortura e crocifissione di Gesù
per i medesimi motivi? E credete che i musulmani non abbiano i loro
cristi crocefissi?
–
Ditemi – gli
chiede Juan esaminandolo con fare indagatore, improvvisamente colto
dal dubbio di avere a che fare con un delatore del Sant’Uffizio –
ma voi chi siete e che cognizioni avete per poter parlare così?
– Ho
viaggiato – risponde il pellegrino – ho viaggiato a lungo, per
mare e per terra e, a parte i nuovi territori che voi soltanto e
pochi altri avete calcato, conosco tutto il mondo, tutto… E so di
tanti sistemi per adorare Dio e di tanti modi per sopprimere l’uomo
in nome suo, e vi assicuro: sono gli stessi ovunque! Maometto è
stato definito figlio della perdizione da papa Innocenzo III,
e i suoi seguaci ci sono sempre stati presentati con i volti
mostruosi degli spiriti infernali, le corna, la coda, gli zoccoli e
la pelle scura. Il musulmano, per noi, è il nemico, Satana in
persona… magari fosse così, tutto sarebbe più semplice…
Purtroppo il nemico non è fuori, ma dentro di noi!
– Non
so, non penso di riuscire a capire. Ma… il vostro nome?
– Ah!
Siete troppo giovane perché possa avere un qualche significato per
voi! Mi chiamo Antonio Malfante e sono vecchio, tanto vecchio da non
avere più paura della vita e da considerare la morte una tenera
amica che accompagnerà il mio ultimo tratto di strada. Sapete che
cos’è il deserto? Io l’ho percorso dal mare Oceano al Mar Rosso
e, anche se il suo nome significa Grande Vuoto, vi assicuro
che là ho incontrato centri abitati di un fascino struggente,
biblioteche che serbano con cura antichissimi volumi di pergamena e
dove centinaia di amanuensi trascrivono codici di valore
inestimabile, scuole filosofiche e teologiche di grande levatura. Non
solo: di là transitano l’oro, l’avorio, il sale, i tessuti
pregiati, in un traffico di convogli permanente, dal Mediterraneo
all’Africa Nera. Il Sahara è forse il luogo che vede il movimento
delle più grandi ricchezze della terra, eppure pensate: Timbuktu,
una delle sue città, non ha mura, perché gli abitanti sono certi
che la sua magnificenza basti a frenare qualsiasi nemico.
Il
nome di Antonio Malfante da qualche parte doveva averlo già colto.
Juan si sforza di ricordare: forse Colombo lo aveva nominato durante
una delle loro amichevoli conversazioni? Certo non è nuovo ed è un
nome italiano, probabilmente genovese, visto che si tratta, da quanto
gli è dato di capire, di un esploratore.
– Non
ho mai visto il deserto – risponde Juan – ma mi ha sempre
incuriosito il fatto che gli Arabi lo definissero il giardino di
Allah, il luogo dal quale Egli aveva rimosso il superfluo per
potervi passeggiare in pace. Deve avere un suo richiamo arcano se
anche voi ne parlate con tanta foga!
Il
miraggio di un’esistenza finalmente sgombra dalle cose: questo era
stato il deserto per Antonio Malfante. L’ebbrezza e l’appagamento
provati nel mare di sabbia, derivavano dall’assoluto fatto di
niente, dal poema del riverbero della luce che sbozzava nelle dune
forme illusorie, sembianze di femmina molli e impudiche: seni
opulenti, dorsi flessuosi, cosce, spalle e ventri vellutati i quali,
in base all’inclinazione dei raggi del sole, passavano, nel fluire
delle ore, dal biancastro, al bronzeo, al dorato, al mattone vivo e
all’amaranto.
–
Sapete – continua
Antonio seguendo il filo dei suoi pensieri – credo di aver saggiato
la vera gratificazione proprio nella vita densa di quei tempi, privi
di tutti i conforti, dove, all’imbrunire, presso le braci del
bivacco, si sperimentava la limpida gaiezza di chiudere la giornata
nella maturità del presente. Una vita nella quale è impossibile
allarmarsi per il domani e dove non c’è spazio per l’affanno e
la tensione. Sì, il deserto è davvero il giardino di Allah,
perché è stato svestito di tutto l’eccedente che si interpone
tra noi e Lui. Capite cosa intendo? Un giardino, un paradiso,
proprio come recita la sura 56 del Corano, detta dell’“Evento
inevitabile”:
“Allora
essi riposeranno in un giardino, assisi in trono, gli uni di fronte
agli altri. Attorno a loro passeggeranno giovani eternamente giovani,
reggenti coppe di un limpido liquore, e frutti di ogni gusto che
potranno scegliere. Avranno la bellezza dai grandi occhi neri,
bellezza simile a perle nascoste. Sarà questa la ricompensa per le
loro opere. Non udranno più discorsi frivoli né parole che
conducono al peccato. Soltanto una parola allora si udirà: PACE.”
–
Credo di capire, ma
ditemi – insiste Juan, mosso da improvvisa curiosità – davvero
avete notizia di profeti musulmani perseguitati come fu per Gesù e
per molti cristiani sotto l’Inquisizione in questi ultimi secoli?
Non riesco a crederlo! Anch’essi hanno le loro dottrine erronee e
le loro violente repressioni interne?
–
Ascoltate, –
replica il vecchio – voglio che prestiate orecchio a questa
orazione, poi ditemi che ne pensate: “Il tuo Spirito s’è
impastato col mio, come l’ambra col muschio odoroso. Se qualcosa Ti
tocca, mi tocca: non c’è più differenza, perché Tu sei me… I
pellegrini vanno alla Mecca, ed io da Chi abita in me, vittime
offrono quelli, io offro il mio sangue e la vita. C’è chi gira
intorno al Suo tempio senza farlo col corpo, perché gira attorno a
Dio stesso, che dal rito lo scioglie.”
–
Bella! È la
preghiera di un musulmano, vero?
–
Certamente! E non vi
notate niente di stravagante?
– Sì,
direi… è qualcosa che ricorda il dialogo di Gesù con la
Samaritana, al pozzo: adorare Dio in Spirito e verità, non
nel tempio…
–
Giusto, sì, ma c’è
dell’altro: Dio non è nel tempio, Dio non è distante nel cielo,
Dio è in noi, è nell’uomo, è amalgamato col nostro spirito.
Incontrare il fratello significa incontrare Lui e l’unico
sacrificio valido e benaccetto al Signore è quello della nostra vita
spesa nell’amore. Amore per l’uomo immagine di Dio, amore per
tutto il cosmo, sua emanazione.
–
Credo di essere
d’accordo con colui che ha elaborato questa bella preghiera; sarà
sicuramente un maestro spirituale tenuto in grande riguardo dai
fedeli musulmani!
–
“Perdonali,
perché se Tu avessi rivelato a loro quel che hai rivelato a me, non
farebbero ciò che fanno, e se avessi celato a me quel che hai celato
a loro, non patirei quel che patisco…” Sono le parole
che al-Hallâj rivolse a Dio prima del supplizio, nell’anno 309
dell’egira, il 26 marzo. Aveva sessantacinque anni. La sua condanna
a morte fu sottoscritta dal califfo Muqtadir, a Baghdâd, dopo otto
anni e sette mesi di carcere e dopo essere stato flagellato, mutilato
ed esibito ancora vivo su un patibolo a forma di croce. Questo è la
stima che hanno avuto per lui…
– Mio
Dio!! E di quale peccato lo si incolpava?
La
storia di al-Husayn ibn Mansûr al-Hallâj, intesa da un maestro sufi
al tempo di uno dei suoi viaggi, aveva ancora il potere di turbare
Antonio Malfante. Che cosa predicava al-Hallâj, detto il
cardatore del più intimo segreto delle coscienze? Affermava che
il fine ultimo, non solo dei sufi, ma di tutti gli esseri umani,
doveva essere l’unione amorosa con Dio, che si doveva cancellare in
se stessi l’apparenza del tempio esteriore per incontrare Dio nel
tempio del proprio cuore, attraverso un pellegrinaggio interiore.
La sua catechesi trovava largo consenso tra la gente. Indispettiti, i
dottori della Legge, molti politici e persino alcuni sufi, lo
accusarono di panteismo, di attentare alla soprannaturalità divina,
di voler fare a meno dell’osservanza esteriore della legge, di
reclamare di operare prodigi, di voler distruggere la Ka’ba, di
turbare gli spiriti nelle piazze, diffondendo in pubblico segreti
celesti al popolo troppo semplice e incolto per capirli. La sua
dottrina venne definita erronea e imprudente dal grande giurista di
Baghdâd, Ibn Dâwûd Ispahâni, che ne chiese la condanna a morte.
Venne flagellato, gli furono tagliate le mani e i piedi, poi fu
crocefisso su tronchi d’albero. La mattina del 27 marzo 922 venne
decapitato, poi il corpo fu irrorato di petrolio e bruciato, le
ceneri gettate nel fiume Tigri. Prima di morire gridò a gran voce:
“Per l’amante ciò che conta è che l’Unico lo riduca
all’unità!
–
Vedete? – conclude
Antonio Malfante – Torquemada non ha ideato niente, e ciò che è
successo alla vostra sposa avviene anche in altre parti del mondo e
in altre religioni. Ma ora venite, entriamo nel santuario e preghiamo
la Vergine Santissima: credo che voi ne abbiate seriamente bisogno!
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