CAPITOLO V
IL MAESTRO DI BORSIGLIANA
Sullo spiazzo del duomo luccicavano le selci nelle ultime ore del sole.
Pietro meditava quanto fosse bello stare là in alto, davanti al ventaglio delle Apuane sontuosamente allargato, scenario di monti nivei, bigi, e di boschi cupi. Sporgendosi dal parapetto, rimirò la cittadina di coppi rossi distesa lì sotto, gli orti e i giardini, abbracciati dal limite interno delle case, dove si affaccendavano donne al pozzo, tra il rumore dei mulini, dei frantoi, delle cartiere, delle tintorie, e il vociare dei bambini che inseguivano i cervi volanti strillando al cielo la loro allegria.
– Qui non si esigono imposte né gabelle, vero frate Mauro? E come mai? – chiese il ragazzo.
– Siamo a Barga, mio caro, – rispose il religioso, – qui si dipende da Firenze, non da Lucca, e nemmeno dagli Estensi, com’è per il tuo piccolo villaggio di Talada.
– Come? Firenze? È là che mi portate, vero? Non ho mai visto Firenze, è lontana e… – rimase un attimo pensoso, – avrei una lettera da recapitare da quelle parti. Ma scusate, perché Barga dipende da Firenze?
– Mai sentito parlare dei condottieri di ventura?
– Ah sì! Corrado e Lucio Lando, poi Corrado da Fogliano, mi pare.
– Certamente, e sono soltanto tre delle centinaia e centinaia che percorrono la penisola con le loro spaventose armate. Uno, il più terribile forse, è stato Niccolò Piccinino. Proprio lui, al soldo dei Visconti di Milano, aveva assalito Barga usando per la prima volta le bombarde per squarciare le mura. Qualche anno fa, entrato in Lunigiana, conquistò Castelnuovo, Santo Stefano di Magra, poi Sarzana. Dopo aver assediato Pietrasanta, era corso in Garfagnana per impadronirsi di Barga. Disponendosi all’assedio, aveva collocato le sue truppe in tre campi separati, ma Sarpellione, Brunoro e Niccolò da Pisa lo avevano messo in fuga, obbligandolo ad abbandonare le bombarde e molte munizioni. Allora, Firenze mandò in aiuto un altro celebre condottiero, Francesco Sforza, che liberò Barga dall’assedio.
– Dunque, le gabelle?
– Barga scelse liberamente la sottomissione a Firenze e venne ricompensata con l’esenzione dai tributi sulle merci importate ed esportate.
– E il Piccinino?
– Spero non ripassi da queste parti.
Pietro e il monaco discendevano nel frattempo il colle, girando per le vie in un incessante saliscendi, tra piazzette e residenze signorili che sottolineavano la ricchezza della cittadina.
– Che cerchiamo a Barga? – domandò ancora Pietro.
– Tranquillo ragazzo, è Firenze la nostra meta, ma quassù ho bisogno di incontrare un amico, Ludovico Turignoli, frate francescano con nome di fra Michele. Gli vorrei affidare in custodia una giovane sposa che potrebbe trovare ospitalità nel convento di Nebbiana, qui vicino. La mia piccola Lucrezia Fina… sì, dovrò far in modo che Ludovico possa condurla al sicuro.
– Un poverello come san Francesco, il vostro amico?
Frate Mauro rise di gusto: l’ingenuità del giovane non smetteva di sorprenderlo:
– Fra Michele è un uomo che ha scelto madonna povertà, certo, ma vedi: quella dei Turignoli è una famiglia ricchissima, proprietaria di numerosi beni terrieri, alla quale appartenne, tra gli altri, il condottiero Capitan Ceccone. Ma che cos’è quella lettera di cui mi parlavi?
– Non so leggere, – Pietro arrossì vistosamente e i begli occhi verdi si ravvivarono sotto la cascata dei lunghi capelli castani, – l’ho rinvenuta nella tasca di una giacca che mi diede Peruzza e, da allora, la porto sempre con me. Matteo, il pastore, mi ha spiegato che è indirizzata a uno dei Medici.
– Non sai leggere? – ridacchiò ancora frate Mauro. – Ebbene: questa è la prima cosa che dovrai imparare. Da domani ti insegno l’alfabeto. Intanto, mostrami la lettera.
Il ragazzo tolse un involucro dalla tasca, lo aprì e ne levò una busta bianca sigillata con la ceralacca.
– Pare che sia per Piero e Cosimo de’ Medici, – chiosò il frate, – e pare che lo speditore sia Domenico Veneziano, il pittore. Una lettera mai arrivata, dunque, che tu hai in tasca da parecchio tempo, vero? Bene ragazzo, a Firenze verificheremo di cosa si tratta.
– Ma, scusate ancora, – continuò Pietro confuso, – il libro che cercavate sui monti, e le piante per ricavarne inchiostri e colori, non v’interessano più?
Rise più forte il frate, e la grossa pancia sogghignò con lui, sussultando sotto la tonaca. Già, il libro, certo che non se l’era dimenticato. Il libro dei dialoghi di Ermete Trismegisto, Ermete tre volte grande, con le sue rivelazioni sulla natura divina, la cosmogonia, l’escatologia, la filosofia religiosa. Un libro ambientato in Egitto, dato che Ermete, il dio Ermes per i greci, corrispondeva al dio Thot, il dio egizio lunare della scrittura.
Perché la luna controllava i misteri della scrittura, della medicina, i segreti del regno dei morti, ma anche l’ingegnosità, la fantasia, la disonestà, la menzogna.
La luna dalla pelle impura che Pietro conservava gelosamente nelle tasche, e che Lucrezia Fina portava sempre con sé, possedeva forze che solo pochi iniziati avevano il privilegio di conoscere e che il libro nascosto da qualche parte, in Oriente, preservava.
Frate Mauro diede un buffetto al ragazzo premendogli l’indice sul naso:
– Non sai leggere, ma hai buona memoria, e passione per i colori. Bene bene. Vorrà dire che a Firenze, oltre ai miei affari, curerò la tua istruzione e troverò un buon pittore da cui mandarti a bottega, prima di rientrare a Venezia. Sei un prediletto di Thot e della luna, possiedi intelletto e immaginazione; devi metterli a frutto.
– Che dite, Toht… e poi, andate a Venezia? Mi lasciate dunque?
– Mi hanno richiesto una carta cosmografica, e dovrò pur porvi mano, ma non angosciarti: me ne andrò soltanto dopo averti ben sistemato.
Qualche settimana dopo, oltre le colline, Firenze emerse meravigliosa agli occhi di Pietro, sia pur nella sua severità, popolata di torrioni e di nobiluomini altezzosi, ancora compiaciuti per le loro antiche memorie belliche.
– Quanta gente, – commentò Pietro, – più che a Lucca, e come sono affaccendati. Dite: quanti sono gli abitanti?
– Si deve fare i conti con la peste, ragazzo, – rispose Frate Mauro, – il morbo che, finanche nei primi due anni di questo secolo, ha fatto circa ventimila morti e che, a tutt’oggi, si risveglia, a intervalli, in qualche quartiere. Ciò nonostante, credo che la popolazione si aggiri sui trenta o quarantamila abitanti.
Fin dai primi giorni della sua permanenza, Pietro aveva imparato che Firenze era nata da possidenti terrieri inurbati e che, magnificamente, ma in modo inspiegabile, era poi fiorita come campi e orti e frutteti fino a diventare, diceva frate Mauro nei momenti in cui gli insegnava a leggere, la capitale economica e mercantile d’Europa.
Negli ultimi tempi, Cosimo de’ Medici aveva mantenuto le forme apparenti della repubblica, tuttavia aveva strappato al popolo la balìa degli squittìni, vale a dire il potere di deliberare i nomi dei candidati agli uffici del Comune. In tal modo, egli aveva continuato ad essere, ufficialmente, un privato cittadino, ma guidava, di fatto, la città.
All’interno delle mura c’erano banchieri, imprenditori, organizzatori di grandi manifatture, ma anche gli umili artigiani e, tra di loro, una stirpe di strani operai di lusso plasmatasi sotto la protezione di appaltatori religiosi e laici. Erano essi pittori, scultori, architetti che nascevano ovunque e rendevano glorioso il Comune. Tutti artigiani; in realtà, tutti artisti. Si incrociavano ad ogni passo e frate Mauro pareva conoscerli uno ad uno, e pareva aver presente i maestri che a Firenze avevano soggiornato, come un certo Álvaro Pietro di Portogallo.
Il pittore portoghese aveva inventato una tecnica per preparare le basi su cui dipingere usando il gesso e la colla animale, ma invece di spalmarne due mani, una per chiudere i buchi del legno e una su cui dipingere, egli stendeva soltanto uno strato minuto ma resistentissimo della soluzione, su cui poteva tratteggiare tutti i particolari del disegno.
– Un grande artista Álvaro, – disse frate Mauro, – e aveva il tuo nome: Pietro. Ma ora andiamo dal mio amico Guido.
Alla chiesa di San Marco dei Veneziani, stava lavorando fra Angelico, su commissione dello stesso Cosimo, che qui aveva profuso, affermavano i ben informati, ben quarantamila fiorini d'oro conseguiti, sempre secondo indiscrezioni, non esattamente con onestà.
I due viandanti entrarono nell’edificio religioso e lo splendore del “Giudizio universale” travolse il ragazzo, con i suoi ori, l’azzurro e il rosso, il cromatismo tenue e la luminosità piena che si sposavano con i personaggi ordinati secondo una composizione molto semplificata, ma meditata ed armonica. Cristo trionfante in mezzo, poi gli angeli, e i santi; il paradiso alla sua destra e l’inferno alla sinistra, spaventoso, con tutta quella gente nuda ammucchiata dentro anguste fosse come formiche e, al centro di tutto, la fuga inquietante delle tombe scoperchiate e vuote.
– Oh Dio. È bellissimo. – mormorò quasi senza fiato il giovane.
– Il mio amico Guido avrà molto da insegnarti, – commentò frate Mauro, – se vorrai rimanere ad aiutarlo, ora che hai imparato l’alfabeto, e se lui vorrà tenerti.
– Guido? Non si tratta di fra Angelico?
– Di sicuro. Ma, vedi: fra Giovanni da Fiesole, fra Angelico perché ama gli angeli, è nato Guido di Piero nella Podesteria di Vicchio, nel Popolo di San Michele a Rupecanina. – ridacchiò compiaciuto – San Michele, già: proprio come il tuo santo di Talada.
Pietro continuava ad esaminare, stupefatto, il “Giudizio universale”, mentre frate Mauro si allontanava per le stanze in cerca del pittore.
– È bellissimo. – ripetè tra sé.
– Davvero lo trovi affascinante? – chiese qualcuno alle sue spalle. – Ciò mi gratifica molto, significa che ho compiuto il volere di Dio con abilità.
Il ragazzo si girò e si trovò davanti il volto paffuto e lieto d’un monaco con l’abito domenicano e una tonsura evidente sul capo che gli lasciava soltanto una buffa corona di riccioli chiari tutt’intorno.
– Fra Giovanni? – domandò.
– Sì, sono io, e sono ben felice del tuo stupore davanti al mio dipinto. “Contemplata aliis tradere” , diceva san Tommaso, cioè comunicare agli altri quanto contemplato, e io lo faccio, non attraverso la parola, ma per mezzo delle immagini. Così l’occhio di chi guarda diventa “la porta di Gerusalemme, attraverso la quale entra Gesù”. Vedi: il suono ed il colore, la parola e la visione, vale a dire la predicazione e l’esposizione delle opere visive, sono due modi ugualmente validi per accogliere e diffondere la rivelazione divina. Quanta gente amerà di più il Signore solo grazie ai miei quadri?
– Oh, non ci avevo mai pensato, – si schermì Pietro, – avete ragione. Vorrei anch’io poter prendere la vostra strada. Che meraviglia quel Cristo al centro dell’universo.
– Hai capito tutto: egli è il principio, l’Essere puro; e vedi: lo spazio intorno colmo della sua luce esiste soltanto per quella luce, altrimenti sarebbe vuoto e assenza. Gesù è il punto al centro del mio cerchio ideale, il punto immagine del principio, il cerchio è invece il mondo.
– Pare un fiore che apre i suoi petali.
– Oh certo, pensa al giglio o alla rosa: il loro sbocciare è un po’ come lo sviluppo del creato, un irradiamento intorno al centro, intorno a Dio.
– Guido, amico mio. Finalmente. – Frate Mauro corse ad abbracciare il pittore. – Avete già conosciuto il mio piccolo protetto?
– Un ragazzo molto sveglio, – sorrise fra Angelico, mentre Pietro arrossiva – che mi stava giusto ricordando come Cristo sia al tempo stesso l’alpha e l’omega. Meglio ancora, egli è il principio, il mezzo e la fine, e il giovanotto ha capito tutto ciò soltanto guardando un mio dipinto. E voi? Avete iniziato a lavorare alla carta cosmografica? E dove pensate di collocarvi il paradiso terrestre?
– È un problema che sto valutando, – riflettè serio, – mi interessano le proporzioni del mondo e già ho il mio da fare con il Doge che vorrebbe Venezia in posizione dominante; poi c’è la tradizione che vede Gerusalemme al centro del disco terrestre, mentre invece, dalle mie ricerche, il bacino mediterraneo risulterebbe spostato verso ovest e verso nord e le masse africana e asiatica sarebbero circondate dall’acqua.
– Quindi è possibile circumnavigarle, sì? E si possono raggiungere le Indie per via d’acqua?
– Senza alcun dubbio. Il mar indiano è un oceano e non uno stagnon come si credeva.
Più tardi, fatti i dovuti convenevoli e i rispettivi resoconti di vita, i due religiosi si salutarono con la promessa che, dopo aver consegnato la lettera ai Medici, Pietro sarebbe tornato da fra Angelico in caso gli fosse servito un aiuto. Almeno avrebbe imparato a fabbricare i colori.
Nelle settimane successive, Pietro continuò lo studio dell’alfabeto, mentre frate Mauro lo preparava all’incontro con Cosimo.
– Lo conosco, sai, è stato in esilio a Venezia, lo incontrai al monastero benedettino di San Giorgio.
– E ora, dov’è che possiamo vederlo? – domandò Pietro.
– Non ci crederai, ma Cosimo è legato ancora, da buon vecchio mercante, alla vendita al minuto delle sue merci e mantiene, fieramente, ben tre botteghe in città: due di lana ed una per la seta. Ti condurrò là, dov’è facile imbattersi in lui.
Con quegli occhi grandi e seriosi, il naso pronunciato dalle molli narici, il labbro inferiore sporgente, gli zigomi alti e le orecchie a sventola, la pelle scura e le mani secche, con le dita lunghe e sottili, Cosimo pareva davvero un semplice trafficante di stoffe, ed è così che lo vide Pietro la sera in cui, con frate Mauro, entrò in uno dei suoi negozi.
– Ebbene, una lettera per me, – li ricevette con aria schiva e una sorta di schietta umiltà, – apriamola, quindi.
– Permettete, signore, – gli si avvicinò uno dei garzoni, – ci sono forse notizie da mio padre Quirico?
– No Raimondo, no, torna al lavoro. Si tratta del Veneziano, il pittore Domenico, il quale mi chiede la commissione di una tavola d’altare e mi assicura di essere esperto quanto il maesto Lippi e fra Angelico. – sorrise ironico e si rivolse a frate Mauro. – Codesta missiva è arrivata in ritardo. Pensate che lo stesso Filippo Lippi mi scrisse cercando penosamente di procacciarsi fiorini e viveri in cambio di una sua tavola ancora incompiuta, definendosi "uno de' più poveri frati che sia in Firenze", con tante nipoti, ragazze da maritare, malate e inette al lavoro. Buon frate quello. Continuamente innamorato. Perde talmente tanto tempo a rincorrere le donne che affidargli un’opera è ogni volta un salto nel buio.
– Che sta facendo ora Filippo? – chiese ridendo frate Mauro.
– È impegnato con l’incoronazione della Vergine, una grande pala ordinata dal canonico Francesco Maringhi per l’altar maggiore di Sant’Ambrogio, per la quale pare egli abbia chiesto ben milleduecento fiorini. E voi, frate Mauro? Non avete ricevuto dai Savi della Acque la commessa per il progetto di deviazione delle acque del Brenta come ingegnere idraulico? Che fate ancora in Toscana?
– Avete ragione, in realtà sto per partire, ma vedete: il mio protetto aspirerebbe a diventare pittore e io vorrei prima sistemarlo. Credete che messer Lippi abbia bisogno di un assistente di bottega?.
– Sì, certamente, vi farò accompagnare da Raimondo che ha il fratello Niccolò a lavorare là.
In quel momento, dalla porta entrò uno sbuffo fragrante di violetta, poi il chiacchierio svolazzante e gaio di alcune ragazze riempì la stanza. Le cortigiane? Una di loro si fermò sbalordita e dal nitido rosso vivo delle sue labbra sfuggì un’esclamazione sorpresa:
– Pietro… tu qui?
Il ragazzo sentì liberarsi la passione giù fino alle viscere.
– Orsola?
Fuori, la luna versava ormai i suoi riflessi sull’imbrunire e le sagome delle persone si levavano scure dal bigio arrossarsi della città, quasi camminassero nell’aria.
Pietro strinse forte la pietra di luna e percorse con lo sguardo il viso fanciullo di Orsola, il suo collo sottile e i bianchi seni scoperti. Gli occhi di lei ardevano d’incredibile gioia.
Ora egli sapeva: sarebbe rimasto a Firenze. Si rivolse a frate Mauro:
– Allora? Mi accompagnate dal maestro Lippi?
– Certo ragazzo, – sorrise il monaco, – è ora che io raggiunga Venezia.
Non sempre le piogge cessavano in aprile. Allora il Serchio continuava a crescere e poi, torpidamente, si conteneva, recuperava profondità e ampiezze consuete e si accucciava pacifico entro i margini, abbandonando, tuttavia, presso ogni sponda, stagni e laghetti pieni di residui immondi venuti giù con la fiumana.
Era quella l’epoca in cui un respiro malefico s’innalzava dalle acque putride, quasi fiato freddo di serpe, e avvolgeva i paesi vicini. Nugoli di insetti vomitati dall’afa e dall’umidità, o forse dalle fauci del serpente regolo, si accanivano su persone e animali.
La salute, da quelle parti, rimaneva confinata tra ottobre e giugno, quando le zanzare accordavano agli uomini un momentaneo armistizio. Non facevano sconti, le moleste parassite, nemmeno al convento francescano di Nebbiana, che era stato edificato su un colle prospiciente il fiume, usando fondamenta e macerie di un castello.
Anche tra i frati, e tra le monache nella badia accanto, c’era chi, regolarmente, con l’estate iniziava a tremare sotto i primi attacchi di malaria.
Chiusa in una cella, febbricitante, Lucrezia Fina cercava di pregare e fissava i tralci sottili di una pianta che pendevano dal soffitto sopra il suo letto e poi, con repulsione, il pane e la minestra che le avevano portato. Soltanto la theriaca riusciva a darle un po’ di conforto.
Da due anni era giunta al convento, ma ancora non riusciva a togliersi di mente l’incubo del suo sequestro e seguitava ad essere braccata dall’ombra dell’ostessa, presenza incorporea, eppure tangibile, che non la lasciava mai fin da quell’incontro nella boscaglia.
Un’amica, o forse un sogno angoscioso, un abbaglio dovuto al digiuno, come la visione del Bambin Gesù che aveva avuto un mattino, al suo risveglio, nella grotta dei briganti.
Le si era accostato, piccolo, sorridente, avvolto nei suoi pannicelli, e le aveva detto di alzarsi, di sciogliersi dalle corde, di liberare il padre e di fuggire subito dalla caverna.
– È il momento giusto, Lucrezia, – aveva insistito, – i briganti dormono e non si accorgeranno di niente. Dovrete imboccare il sentiero a sinistra dell’uscita e correre fino al primo villaggio; là troverete una torre; bussate e non spaventatevi se ci saranno dei cani pronti ad assalirvi; tu stringi forte la pietra di luna che hai in tasca e dì loro di andarsene: ti ubbidiranno. Quando il portone si aprirà, racconta alle guardie ciò che ti è successo e chiedi protezione.
Lucrezia aveva ubbidito e, miracolosamente, i canapi erano caduti dai suoi polsi e dalle sue caviglie. Poi aveva liberato Quirico.
– Bimba mia, – le aveva detto lui piangendo, – non c’è nessun Gesù Bambino qui dentro. Tu stai male e le corde sono scivolate via perché sei talmente magra che le tue mani e i tuoi piedi sono passati attraverso le legature.
Eppure, davvero, dopo la corsa a perdifiato per la discesa, avevano trovato una casa che sembrava una fortezza e realmente due cani avevano iniziato a ringhiare. La luce proveniva dal pian terreno di quel bizzarro edificio delimitato da due torri arrotondate, che mostravano aperture strette,
quasi invisibili feritorie per le armi. Alla loro base c’era una nicchia, che poteva comodamente contenere un uomo, forse un custode che potesse dare l’allarme in caso di tipi sospetti e di strani viaggiatori, o forse la sentinella dei briganti. Poi si era aperto un portone e, invece delle guardie o dei banditi, ne era uscito un locandiere:
– Che volete? Ho la taverna piena di pellegrini e qui, per mangiare, si paga.
– Sono Quirico, il mercante, mi conoscete, vero?
Si erano accomodati all’interno e subito un garzone era stato mandato da Rodolfo con una lettera in cui lo si informava della loro fuga e lo si invitava a non pagare il riscatto perché già erano liberi.
Il giorno dopo, il ragazzo era tornato, accompagnato dallo stesso Rodolfo e da un certo fra Michele, Ludovico Turignoli, francescano di Barga, che diceva di aver ricevuto da frate Mauro la richiesta di occuparsi della salute spirituale e fisica di madonna Lucrezia Fina, troppo provata dai digiuni e dalle penitenze.
– Ebbene Quirico, – era esploso Rodolfo, – curatela, questa vostra pazza figliola, o finirò per denunciarla al tribunale ecclesiastico, chiedere l’annullamento del matrimonio e considerare saldati tutti i miei debiti con voi.
Così Lucrezia era finita a Nebbiana, e aveva contato il trascorrere del tempo in base alle visite periodiche di Quirico – preoccupato più per la possibile perdita dei suoi averi che per la salute della figlia – e alle piene del Serchio.
Rodolfo, invece, l’aveva visto solo raramente, ma sapeva che non avrebbe chiesto l’annullamento del matrimonio, per non figurare da impotente.
Le aveva anzi offerto di condurla in una delle sue abitazioni, a Borsigliana, dove lei avrebbe vissuto in piena libertà, e che pregasse e digiunasse quanto voleva; l’importante era salvare la faccia e la forma esteriore; lui, qualche donzella a disposizione nel letto l’aveva comunque, e per i figli, vista la giovane età della sposa, c’era tempo.
Lucrezia si affacciò alla finestrella. I foschi stagni dormienti, giù nel piano, dove si specchiavano i salici e le mura del monastero, erano a questo punto un velenoso pantano; più in alto, i boschi infestati dai predoni, conferivano alla zona un’apparenza di sconsolato abbandono che s’infilava nel suo animo. Ma tutt'intorno dovevano esserci buoni pascoli, gente onesta, terra grassa per il grano e sponde soleggiate per gli ulivi.
Lo capiva dai canti delle donne al lavoro, dalle risate dei bambini e dalle diverse voci degli animali domestici e selvaggi che violavano l’isolamento dell’abbazia.
Unico motivo di gioia, tra quelle mura, una statuetta del Bambin Gesù abbigliato con vesti sfarzose dono delle monache. Bambino docile, inerme e tenero, dotato, però, di fermezza solidissima, che l’aveva condotto alla croce e che lì, tra le sue braccia, sorrideva.
Le sorrideva come il crocefisso non poteva fare, sorrideva di fronte ai suoi dolori con una tenerezza indifesa che lei sentiva fondersi, dentro, con lo spasimo dei chiodi.
Lui, Dio imperscrutabile, era stato un bambino la cui decisione d’amore aveva oltrepassato il sangue della tortura e della crocifissione, andando persino oltre il supplizio imposto a Maria, sua madre. Lui poteva capirla, e consolarla. Così lo stringeva al petto e lo cullava, come di certo doveva averlo stretto Maria tante e tante volte.
Come, invece, non ricordava sua madre avesse mai fatto con lei.
– Madonna Lucrezia, – una suora bussò alla porta, – avete mangiato?
– Entrate, sorella. No, non riesco ad ingoiare niente, a parte la theriaca. La febbre, forse… ho solo bevuto un po’ d’acqua.
La suora le si avvicinò e, con una pezzuola, le asciugò la fronte.
– State coricata, almeno. Le febbri terzane richiedono riposo, e buon cibo. Dovete mangiare, lasciate perdere il digiuno, il Signore capirà. E poi, non sapete cosa dicono di voi alcune sorelle, la madre superiore ne è molto turbata.
– Cosa… che dicono?
La suora le riassettò il letto, scacciando alcuni piccoli insetti rosei nascosti tra il materasso e le lenzuola:
– Cimici, ancora cimici; eppure avevo ben fumigato la stanza con lo zolfo. Dovrò rifarlo.
– Che dicono di me le sorelle? – ripetè la giovane.
– Mia cara, badate bene che io non ci credo, ma sembra che vi abbiano vista, di notte, in cucina, mentre vi ingozzavate di cibo.
– No, mio Dio, non è possibile. Come… cosa può essere successo?
– E diverse volte, tante volte da quando siete arrivata. Comunque, la defunta madre superiora ci aveva spiegato che, in realtà, era il demonio a prendere le vostre sembianze per ingannarci e farvi del male. Ora, però, la nuova badessa afferma che vuole parlarvi, che vuole delle spiegazioni.
– Ma vedete che non mangio. Vedete che basta una briciola per farmi vomitare. Come possono pensare questo di me?
– Misteri dell’animo umano. C’è però un’altra novità. – la suora rimase in silenzio, ammirando i bei lineamenti moreschi di Lucrezia e gli occhi neri, resi ancor più brillanti dalla febbre. Sussurrò: – Quanto siete bella, se solo ingrassaste un po’.
– Quale novità?
– Al convento giungerà un pittore che cerca una modella per un ritratto della Vergine. Le sorelle sono tutte agitate, soprattutto quelle del laboratorio dei colori e degli inchiostri che si stanno dando un gran da fare per preparargli il materiale. – ancora le asciugò la fronte: – Suvvia: rimettetevi, così potrete dar loro una mano e aver modo di conoscere il pittore. Un cucchiaio di minestra, ancora uno, su, provate.
Lentamente, placata dall’amabilità della suora che la imboccava, Lucrezia Fina vuotò la scodella di minestra, poi si mise a letto.
– Bene, ora riposate. – proseguì la sorella mentre sistemava le coperte. – Ma c’è in più un’altra buona nuova per voi, una visita.
– Mio padre? Oppure Rodolfo?
– No, il vostro direttore spirituale, frate Mauro. Da una lettera, sembra che abbia lasciato momentaneamente Venezia diretto in alta Garfagnana, o forse di là, nei territori lombardi, per cui passerà a salutarvi.
La contentezza di Lucrezia le ravvivò le guance; osservò il piccolo Gesù posto in una culla a lato del suo letto e gli sorrise:
– Devo rimettermi, devo guarire. Aiutami, Signore.
Solo qualche giorno dopo, la ragazza, sfebbrata, era nel laboratorio, in realtà una stanzetta attigua alle cucine, a preparare i coloranti insieme con le monache.
Di fatto, a Lucrezia pareva di esser lì ad allestire un pasto, immersa in tutti quei profumi, quelle erbe, e poi radici, bacche, cereali, ortaggi. Scoprì che con la birra d’orzo essiccata si realizzava una sorta di colla per la foglia d’oro che serviva anche come fissante per i colori. Poi c’erano le aromatiche coccole di ginepro, i chicchi dolci del sambuco e le vinacce con cui si creavano alcuni tipi di inchiostro.
E le noci, col mallo verde, le noci di san Giovanni da cui si ricavava un inchiostro marrone scuro.
– Versa dell’aceto, ecco: mischiane qualche goccia nel colore, – le disse una sorella, – serve a conservarlo. Invece lì, nelle tempere all’uovo, metti il limone, così non si guastano e sono meno oleose.
– E che facciamo con lo zafferano? – chiese Lucrezia sempre più sorpresa.
– Lo lavoriamo fino ad estrarne una lacca di un bel giallo dorato che è simile in tutto e per tutto all’oro vero. Serve per le miniature.
– Nel giallo risplende lo spirito, – sussurrò Lucrezia, – ma imprigionarlo sulla terra… il giallo è così leggero.
– A questo è utile lo sfondo oro, – rispose una suora, – perché lega lo spirito alle cose.
– Certo, ma la fuliggine?
– Fuliggine di faggio, mia cara. Si fa il bistro, i pittori lo impiegano per le ombre. L’ombra serve a ricordarci la morte.
L’allegria delle monache, il lavoro, le fragranze e le tinte delle erbe e dei frutti, qualche tuorlo d’uovo piacevolmente sbattuto col miele e il limone e poi mangiato, invece che adoperato per le tempere, restituirono piano piano un po’ di vita a Lucrezia Fina, che, per giorni, s’impegnò nell’impresa.Una mattina scorse, appoggiati sul tavolo, alcuni rametti rossicci, forse radici, simili a tralci secchi di vitalba. Le pareva di averli già notati, da qualche parte.
– Che sono queste, sorella?
– Robbia, radici d’erba robbia, la garanza; non le hai mai viste? No? Coltiviamo la pianta qui, nel nostro orto; è un’erbaccia, una specie di attaccamani, ma il rosso che se ne ricava è bellissimo. Si mescola con l’allume e si ottiene una lacca rosso violetto.
– Un’erbaccia? Frate Mauro cercava una pianta da cui ricavare un bel rosso, sarà quella?
– Non so, figliola, c’è domestica e selvatica. La domestica, vedi, ha le foglie più grandi e i sarmenti più lunghi e grossi, come le radici, che forniscono più colore. Dalle nostre parti la conoscono i medici e gli speziali, ma anche le donne, i contadini, soprattutto quelli che abitano in luoghi dove si lavora la lana e si tingono panni fini.
– Come mai avete detto che è conosciuta dai medici e dagli speziali?
– Dato che guarisce il trabocco di fiele e altri malanni. Ma poiché al gusto è acre, molto amara, non è indispensabile prenderla per bocca, basta appenderne in casa una pianta tutta intera e poi guardarla.
– Quindi… è robbia l’erba che avete appeso nella mia stanza! – esclamò sorpresa Lucrezia.
– Certo, mia cara, ed ha funzionato, no? Svelta, al lavoro: il pittore dovrebbe arrivare a giorni, come frate Mauro, e noi dobbiamo essere pronte.
I colori, per Lucrezia, schiudevano tutto un mondo di ricordi. I colori di quand’era bambina, quelli degli abiti sfarzosi, dei paramenti ecclesiastici, delle feste e delle processioni.
Colori lanosi e rattristanti, come i fili del ricamo a cui la madre la costringeva.
E i colori della natura, delle montagne, degli alberi, dei fiumi e delle valli percorse nei viaggi col padre, ma soprattutto dei fiori e delle farfalle, del mare e delle nubi.
Le nubi e la nebbia, quasi fantasia attuata. Poi l’arcobaleno, rivelazione del colore, ebbrezza dell’arte divina. Sentiva che i colori non erano altro che l’aspetto semioscuro della luce, forse l’aspetto semioscuro di Dio. Non si poteva sostenere la visione piena della luce, come era impossibile reggere la visione accecante di Dio.
Invece, l’osservazione dei colori, attraverso la penombra, metteva in comunicazione con il creato e con il divino, innalzando l’uomo alla spiritualità.
Dopo tanto tempo, finalmente, stava bene, capiva che l’angoscia si era allontanata; non aveva più ricevuto visite dalla donna dai capelli rossi e, inattese, erano tornate le mestruazioni, che aveva sempre vissuto come sporche, malate, e di cui aveva salutato con gioia la scomparsa.
Nella sua cella, si inginocchiò di fronte al Bambin Gesù e si chiese perché si adorava il crocefisso e si trascurava il Bambino. Lo abbracciò, lo carezzò a lungo:
– Non ti guardano perché sei insignificante e debole, come me. – sussurrò. – Gli uomini ti preferiscono grande e in croce. – sorrise tra sé: – Che potere può avere un Dio bambino? Che eroismo c’è ad essere piccoli, nudi, senza parola?
Le voci concitate delle monache la distolsero dalla preghiera; si ricompose e scese nelle cucine.
Il pittore era lì, di spalle, e osservava i colori, gli oli, i collanti e gli inchiostri distribuiti sui tavoli.
Quando si voltò, la ragazza incontrò i suoi occhi e si sentì passata da parte a parte dal loro scintillio, tanto che abbassò immediatamente i suoi.
Quell’uomo, che ora le stava davanti, avrebbe afferrato subito ciò che lei teneva imprigionato nel profondo. Era un pittore, e padroneggiava il crepuscolo dei colori, i loro misteri e la loro magia, perciò sapeva come leggere dentro le persone.
Era bello, giovane, aveva lunghi capelli castani, la pelle scura per il sole, la corporatura agile e vigorosa di persona avvezza a camminare per i monti.
Era attraente, con quello sguardo che riverberava la sua sicurezza interiore, e non un’anima distrutta dal disinganno com’era la sua.
Lucrezia cercò nella tasca la faccia di luna incisa, la tenne stretta nella mano e sentì che il cuore, da tempo silenzioso, riprendeva i suoi battiti al ritmo consueto della vita.
– Voi, madonna, – le disse lui, e anche la voce era garbata e luminosa, – vorreste farmi l’onore di posare per me?
– Sì, – mormorò appena la ragazza, – sì, maestro, sarò di buon grado la vostra modella.
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