sabato 20 ottobre 2012
Il Seminario di apertura delle scuole di italiano per stranieri in parrocchia avrà luogo sabato 20 ottobre a partire dalle ore 14.30 a Milano presso la Fondazione Lazzati (Largo Corsia dei Servi, 4)
Dopo undici anni di "Tra le righe: la scuola di italiano per stranieri in parrocchia" ripartiamo dallo slogan degli inizi. Per fare il punto della situazione, per verificare la validità di una filosofia, per vedere se "siamo ancora sul pezzo".
Qual'è il senso del nostro essere volontari oggi? E l'esserlo da cristiani o, comunque, in un luogo cristianamente connotato?
Si prega di segnalare la propria presenza al Servizio per la Pastorale dei Migranti tel. 02.8556.455/456 - fax 02.8556.406, migranti@diocesi.milano.itQual'è il senso del nostro essere volontari oggi? E l'esserlo da cristiani o, comunque, in un luogo cristianamente connotato?
Abstract del mio intervento
Una
lingua diversa in terra straniera
Infatti,
per gli immigrati, sia adulti e sia bambini, l’italiano non è la
“prima” lingua - quella materna - ma nemmeno si tratta della
lingua straniera veicolata dai libri di testo a scuola. È una lingua
in cui essi sono immersi e che, in parte, viene acquisita
spontaneamente.
È
importante dunque, per i docenti di ogni ordine scolastico, prenderne
atto e, al di là dell’organizzazione didattica e curricolare,
capire che la figura tradizionale dell’insegnante e la
strutturazione altrettanto abituale delle classi, non sono più
adeguate alle necessità di questa nostra nuova società multilingue
e cosmopolita.
È abbastanza rapida - nell’ordine di due o tre mesi per i più svelti, di sette o otto mesi per gli altri - l’acquisizione di una competenza linguistica sufficiente per afferrare i messaggi e per attuare un minimo di comunicazione.
Un silenzio espresso
molto bene dalla scrittrice Julia Kristeva: «Il silenzio non vi è
soltanto imposto, è in voi: rifiuto di dire, sonno striato attaccato
a un'angoscia che vuole restare muta, proprietà privata della vostra
discrezione orgogliosa e mortificata, luce tagliente, ecco cos'è il
vostro silenzio. Nulla da dire, niente, nessuno all'orizzonte.»
(Kristeva, 1990)
È abbastanza rapida - nell’ordine di due o tre mesi per i più svelti, di sette o otto mesi per gli altri - l’acquisizione di una competenza linguistica sufficiente per afferrare i messaggi e per attuare un minimo di comunicazione.
L’apprendimento della
nuova lingua ai fini dello studio è invece molto più complesso e
“lento” e quella dei 12/13 anni è la soglia dell’ “età
critica
La
motivazione è fondamentale, perché il modo di porsi dell’immigrato
nei confronti della nuova lingua (e le fasi del suo perfezionamento)
derivano anche dal valore e dal significato che egli le attribuisce;
la lingua può essere vista come strumento per la sopravvivenza, come
mezzo di integrazione sociale e di miglioramento economico, oppure
come unica possibilità di interagire e socializzare con gli
autoctoni.
È dunque
indispensabile per gli insegnanti stendere un curricolo di
riferimento, ricordando, però, che tale programmazione deve rimanere
sottintesa, flessibile: una base più che un percorso.
Bisogna essere capaci
di accantonare quel che, in itinere, si capisce essere non attuabile,
sostituire, aggiornare. In realtà un curricolo di riferimento serve,
ma va tenuto implicito: si tratta di cercare di individuare, allievo
per allievo, quali elementi vengono via via acquisiti: acquisizione
che non avviene (sol)tanto nelle ore di scuola, sulla base di una
programmazione, ma soprattutto nella vita quotidiana.
È
attraverso la prova di ingresso che si stabilisce in quale livello
collocare l’apprendente e quale percorso formativo programmare. Un
aspetto più tecnico, ma da non sottovalutare, riguarda la scrittura
in cui una persona è stata alfabetizzata: l’alfabeto latino, altre
scritture alfabetiche o scritture logografiche. Per persone
debolmente alfabetizzate in lingua madre, questo può avere
un’influenza importante nella lettura e scrittura in lingua
italiana.
Lingua e
cultura sono in stretta connessione.
È la
lingua a determinare un’appartenenza (pensiamo al fatto che i
popoli colonizzatori, per prima cosa, impongono la loro lingua,
spesso cancellando quella d’origine), a esprimere una differenza,
perciò, parlare una lingua “diversa” in terra straniera è già
sintomo di “estraneità” e può generare i primi pregiudizi. Il
bisogno di imparare la nuova lingua per assicurarsi la sopravvivenza
va di pari passo con la sensazione di sradicamento e,
contemporaneamente, con la necessità di non abbandonare la propria
cultura e la propria lingua nella nuova terra.
Chi
arriva da “fuori” ha già un suo bagaglio di conoscenze e tutto
un capitale educativo con accezioni proprie; non sa parlare, si trova
nella situazione disagevole di un “infante” (privo di parola), ma
non lo è. Questo lo porta a rinchiudersi e a non essere disponibile
a mettere in discussione la struttura delle proprie conoscenze.
Le
maggiori esperienze di vita (pensiamo ai ragazzi che arrivano come
clandestini, dopo avere oltrepassato diverse frontiere e avere
vissuto di espedienti per mesi o anni) potrebbero ostacolare i nuovi
apprendimenti, mentre, al contrario, le maggiori conoscenze e il
percorso scolastico precedente (l’esempio tipico è quello di chi
proviene dalle scuole dell’Est Europa) possono favorirli. Gli
studenti più grandi e con un buon bagaglio culturale domandano
sempre una comprensione cosciente delle regole. Spesso succede che
arrivino nelle nostre scuole pensando di imparare la lingua con il
metodo grammaticale – traduttivo, quando le metodologie più usate
si rifanno, nella nostra didattica, al criterio
comunicativo-affettivo.
C’è
poi tutto il discorso della figura del docente, di quanto questi sia
caricato di autorevolezza in molti dei Paesi di provenienza e di
quanto, invece, venga percepito come poco autorevole da noi. Chi
proviene da altre aree culturali ha della scuola e degli insegnanti
un’immagine molto tradizionale che fa a pugni con quella
“dialogante” delle nostre scuole.
Insegnare
la lingua, non la sua descrizione
Ciò che
spesso mette in crisi, e a ragione, gli insegnanti è l’alta
varietà dei livelli di competenza: ci si trova con studenti ben
scolarizzati e con altri poco o per niente alfabetizzati nelle lingue
di origine; questi ultimi necessitano di acquisire anche le tecniche
della lettura e della scrittura.
In questo
caso i materiali didattici in commercio sono molto scarsi e sta alla
buona volontà dell’insegnante costruirseli. I miglioramenti di
questi allievi saranno lentissimi.
Ci si
sente chiedere di volere imparare “la grammatica”, come se
apprendere le nozioni fondamentali di una lingua significasse
automaticamente saperla padroneggiare, mentre la conoscenza della
grammatica non significa padronanza della lingua.
È come
se, avendo un problema alla spina dorsale, andassimo dal medico che,
invece di avviarci a qualche corso di ginnastica o fisioterapia, ci
desse da studiare i nomi di tutte le ossa della schiena. La
grammatica è la “descrizione” della lingua.
Essendo italiani e
insegnando agli italiani, pensiamo che la cosa più difficile della
lingua sia, ad esempio, la coniugazione dei verbi, in particolare per
quanto riguarda il periodo ipotetico.
Invece,
quel che a noi sembra semplice, quasi mai lo è per uno straniero.
Quel che
per noi è banale, come l’articolo, per uno straniero può
diventare un ostacolo insormontabile. Ci sono lingue in cui gli
articoli non esistono o non vengono usati (come il russo e
l’ucraino), altre in cui ce n’è uno e per di più
indeterminativo, come l’albanese, altre ancora, come l’inglese in
cui ce ne sono due, uno determinativo e uno indeterminativo, ma il
cui uso non corrisponde in italiano.
Conclusioni: perché
tra due lingue non vinca il silenzio
Ciò che
bisogna evitare, come insegnanti, è di indurre al silenzio gli
stranieri (invece di fornire loro delle “opportunità
stabilizzanti”) perché incapaci, noi, di comprendere e
(ri)conoscere la nostra difficoltà e inadeguatezza.
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