mercoledì 28 febbraio 2024

ALBERI DI NATALE DELL’EDEN E COPPELLE PESTAROLE - QUANDO LE GHIANDE ERANO CIBO PER GLI UOMINI

 

Natività con pigne e ghiande

La narrativa sulle origini dell’albero di Natale fa riferimento alla cultura celtica. Si tratterebbe di una pianta sempreverde che i druidi - gli antichi sacerdoti dei celti - onoravano in varie cerimonie. Un pino o un abete? O forse una quercia che non perde le foglie, come il leccio? Capita poi di imbattersi nell’immagine di un rilievo del IV secolo a.C. raffigurante la Natività, conservato nel museo di Atene e proveniente da Naxos. Il Bambinello in fasce dorme nella mangiatoia e, ai lati, ha due alberi, oltre all’asino e al bue. Gli alberi sono un pino e una quercia: si vedono le pigne sulla pianta a sinistra e le ghiande su quella a destra. Quasi certamente si tratta di un pino domestico e di una roverella, specie utilizzate dall’uomo per trarne cibo ben prima del Neolitico, quando finalmente iniziò la domesticazione e coltivazione delle piante. La farina più antica ad oggi conosciuta risale infatti a trentaduemila anni fa, più di ventimila anni prima dell’avvio dell’agricoltura nel vicino oriente. Gli amidi sono stati rinvenuti su un pestello trovato nella grotta Paglicci, a Rignano Garganico, Foggia. Insieme alle avene selvatiche, è provata, sul pestello stesso, la trasformazione in farina delle ghiande. Quindi, il Bambinello di Naxos sembra collocato in un “Giardino dell’Eden” di alberi selvatici che producevano semi commestibili: ghiande e pinoli, i più antichi alimenti amidacei del Mediterraneo. Ma come era possibile trasformare le ghiande, amare per l’eccesso di tannino, in una farina commestibile? 

Monte Sassoso (Ceriola): coppelle e il ricercatore
Roberto Ronchetti con il cane dello studioso Rino Barbieri

Le coppelle nelle rocce: antichi mortai?

Il processo era lungo, laborioso e potrebbe aver lasciato dei segni anche in alcune zone del nostro territorio. Parliamo, almeno per una parte, delle famose coppelle scavate su rocce - non del tutto rovinate dagli agenti atmosferici - come quelle di Ceriola/monte Sassoso e del monte Lulseto. Perché le coppelle? Come abbiamo già scritto in altri articoli, questi incavi nella pietra avranno avuto diverse funzioni - utilitaristiche e rituali - ma una è sicuramente la macinazione di semi per l’alimentazione. Foto e filmati dei primi del novecento, in California, ci mostrano le donne native mentre producono farina di ghiande, togliendoci ogni dubbio riguardo ai metodi di lavorazione. Vero che, sia a Ceriola, sia al Lulseto, in mezzo alle querce sono presenti dei castagneti, fonte di un amido più adatto all’alimentazione umana (perché senza tannini). Tuttavia, la coltivazione del castagno pare sia successiva e si debba ai Romani, pur essendo la pianta già presente allo stato selvatico anche nella preistoria. Sull’indigenato del castagno in Italia si è molto discusso. Alcune ricerche attestano, in base alle analisi di pollini fossili della pianura costiera apuana, la presenza del castagno già diecimila anni fa. Quindi, il castagno avrebbe resistito alle ondate di freddo glaciale susseguitesi nel tempo; pertanto, l’ipotesi che l’ultima glaciazione lo avrebbe fatto scomparire, per poi vederlo ritornare dall’Asia Minore, portato dall’uomo, è stata abbandonata. In ogni caso, nei periodi particolarmente rigidi, la quercia resisteva e dava frutti, il castagno no.

Maggie Iko, nativa americana che pesta le ghiande


Ricavare farina edibile dalle ghiande

Come si produceva la farina di ghiande? Ce lo hanno mostrato le donne indiane delle tribù Mono, Yokut e Chuckchansi della California. All’arrivo dell’autunno, le comunità si riunivano per raccogliere le ghiande. In tre giorni, una famiglia poteva accumulare, in “granai” di corteccia d’albero, ghiande sufficienti per il loro fabbisogno. Terminata la raccolta, venivano essiccate per un anno. Le donne, in seguito, si raggruppavano sedute su un macigno e, usando un pestello di pietra, prima sgusciavano i frutti, poi li vagliavano con crivelli di cortecce intrecciate e, infine, li macinavano. La ripetuta molatura e la fitta serie di colpi sulla roccia creava, nel tempo, degli avvallamenti e delle coppelle. Avranno macinato ghiande, allo stesso modo, creando coppelle, anche i nostri antenati in Appennino? Alla macinazione seguiva la “lisciviazione” per togliere il tannino. Ci voleva molta acqua, ecco perché le operazioni venivano svolte vicino ai ruscelli. Le donne formavano dei cumuli di argilla asciutta in cui scavavano una sorta di largo catino che foderavano di rametti. Poi, lo ricoprivano con un telo leggero fissato ai bordi. Quindi, dopo aver mescolato la farina di ghiande con l’acqua fredda, la versavano sopra al telo. L’acqua filtrava sotto, portando via i tannini, mentre le donne continuavano a versarne ancora dall’alto, alternando acqua calda con acqua fredda. Una volta terminata l’operazione, veniva raccolta la poltiglia rimasta sul telo: la farina era pronta per essere cotta (come una piadina) su pietre arroventate. 

Lavaggio della farina di ghiande dai tannini

Da alimento per i maiali a cibo nelle carestie

In Italia, l’utilizzo delle ghiande per fare il pane è raccontato da Plinio il Vecchio, che, nel I secolo d.C., riferisce del consumo, in Sardegna, di un pane dal sapore asprigno. Ancora nel XVIII e XIX secolo, alcuni descrivono il pane di ghiande sardo come qualcosa di immangiabile, senza sapore. Dopo aver tolto la buccia, le ghiande venivano bollite in una caldaia di rame con argilla e cenere per asportarne l’acido tannico. In questo modo, si ottenevano frutti commestibili. Il brodo nero rimasto nella caldaia, insieme alle ghiande sciolte, continuava a bollire, fino quasi a disidratarsi; successivamente, veniva versato sopra a grandi pezzi di sughero. Con un coltello si tracciavano le forme che, raffreddate e asciutte, diventavano il “pane”. Ma il “mangiar ghiande” (per eccellenza cibo dei maiali) è rimasto come sinonimo di fame e carestia. In alcuni documenti riguardanti l’Appennino modenese si narra che, nel 1443, a causa del ghiaccio e delle enormi quantità di neve caduta, i raccolti, soprattutto di grano, andarono distrutti, con effetti atroci anche nei due anni successivi; tra il 1589 e il 1598 ci fu la peggior carestia del Frignano: molti, per procurarsi di che mangiare, furono costretti a vendere o uccidere il bestiame. Gli alimenti principali divennero la crusca, le ghiande, oppure gli acini d’uva ridotti in farina, le radici, le erbe. In quanto alle castagne, da secoli fonte di cibo per la popolazione, le condizioni meteorologiche distrussero i raccolti nel 1612, nel 1621, nel 1663, nel 1740, nel 1751, nel 1807, nel 1816 e nel 1850. L’ultima carestia risale al 1936, quando una forte nevicata, tra il 7 ed l’8 ottobre, compromise la raccolta delle castagne e sradicò molti alberi, pregiudicando i raccolti anche negli anni seguenti.




Un caffè “ciofeca” di ghiande

“Quando il re era solo re, di caffè se ne bevevano tre, poi divenne imperatore, del caffè neanche l’odore; se prendiamo un altro stato, sparirà anche il surrogato”. Alcuni anziani montanari raccontavano che, prima e durante la seconda guerra mondiale, non si trovava il caffè e, chi non aveva terra dove seminare, non poteva nemmeno usare l’orzo come succedaneo, così ci si arrabattava con il caffè di ghiande. La tostatura delle ghiande era fatta con un attrezzo metallico forato, di forma cilindrica, che si usava anche per tostare l’orzo: fissato alla catena del camino, sulle braci, si faceva girare a mano. Le ghiande arrostite venivano sbriciolate e poi bollite per la preparazione del caffè. In Calabria questo “caffè” si chiamava “ciofeca” (che oggi significa alimento disgustoso) e deriva dalla parola araba antica ‘safek’, che significa “bevanda poco energica”. Per tornare alla Natività di Naxos, il giardino dell’Eden biblico era forse l'emisfero settentrionale post glaciale, che, da terra fredda e desolata, era diventato un giardino pieno di cibo: ghiande, noci, nocciole, pinoli, radici, cereali selvatici, uva e forse castagne? Può essere, visto che le querce (con il loro vischio) e gli aghifoglie, come i pini e gli abeti, risultano essere i più importanti alberi del solstizio d’inverno in Europa, quando il sole sembra morire, ma poi, proprio a Natale, risale più alto nel cielo.


Pane di ghiande sulle montagne dell'Iran oggi


 

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