La vocazione femminile alla cura: gli studi dell’antropologa Antonella Bartolucci ispirano una mostra. Tradizioni arcaiche, tramandate nei secoli e ancora presenti nel nostro territorio, illustrate attraverso le opere d’arte
La mostra d’arte si terrà a Casina agli inizi di settembre, nelle sale della biblioteca comunale “Sincero Bresciani”. Il titolo, “Le Medichesse”, riporta a quella realtà di guaritrici, soprattutto anziane, che curavano diversi malanni fisici e pure quei disagi nascosti spesso dissimulati; curavano l’essere umano, unità corpo, mente e spirito, attraverso segni, preghiere e simboli. Diciamo che le “medgûne”, in assoluta buona fede e nei limiti di ciò che ereditavano come “dono”, fin dall’alba dei tempi si sono fatte carico della salute di ogni comunità. All’interno dell’esposizione artistica, il 3 settembre, ci sarà una conferenza nella quale di ragionerà proprio su questi antichi metodi di cura. L’idea della mostra, già presentata nel 2019 alla Rocca Estense di San Martino in Rio, è di Claudia Bianchi, del gruppo culturale Artisticamente. Si tratta di dipinti che propongono il tema delle curatrici, trattato da ogni artista in modo diverso: “Non abbiamo chiarito scientificamente il perché di queste cure, non è nostro compito, ma è un argomento misterioso e affascinante e ogni pittrice lo ha delineato dal proprio punto di vista”. L’associazione Artisticamente (una ventina di componenti) è nata proprio grazie a Claudia Bianchi nel 2014. Il simbolo adottato è una civetta, animale sacro alla dea Atena, metafora di saggezza, sapienza e intelligenza. Claudia è di Guastalla, ha alle spalle un bagaglio di studi pedagogici a indirizzo psicologico uniti ad altri di pittura, tra cui un corso tenuto da Carlo Ferrari sulla tecnica classica della velatura. È insegnante, collabora con diverse gallerie ed espone da tempo in Italia e all’estero.
A Casina, insieme a Claudia, sarà Antonella Bartolucci, antropologa di San Martino in Rio, a parlarci delle segnature, delle malattie che con esse venivano curate, di alcuni procedimenti specifici, della donna legata all’arte della cura. “Le streghe buone”, il suo libro edito da Aliberti nel 2016, è frutto di oltre vent’anni di ricerche sulle medichesse. Ci saranno poi alcune guaritrici a rivelare frammenti della loro conoscenza; ci sarà la dottoressa Ameya Gabriella Canovi che parlerà di malattia e guarigione da un punto di vista psicologico; si converserà inoltre di immaginario magico in Appennino e, tra un intervento e l’altro, ogni pittrice illustrerà il proprio quadro. Il tutto sarà coordinato da Italo Garavaldi.
Trotula de Ruggiero, medica dell’anno Mille
Per secoli, le donne sono state incaricate di guarire, medicare e occuparsi della salute della collettività. Furono loro le prime medichesse (mediche) nella storia. Sono le antesignane degli infermieri, farmacisti, ginecologi, pediatri, alchimisti, chimici. Si sono occupate di seguire gravidanze e parti, di migliorare la fertilità delle donne, hanno coltivato e imparato a usare erbe medicinali. Hanno trasmesso le loro conoscenze ed esperienze - in segreto - di generazione in generazione. E se Asclepio era il dio della medicina, queste erano le sue figlie: Igea, la salute; Panacea, l’incarnazione della guarigione universale e onnipotente per mezzo delle piante; Iaso, che aveva ereditato il potere della guarigione e Acheso che ne sovrintendeva il processo; poi Egle, madre delle Grazie, e Meditrina, la guaritrice. La medicina fa parte del patrimonio delle donne, dunque, appartiene alla loro storia e al mito, ne è eredità ancestrale. Il termine “medica” venne utilizzato per Trotula di Ruggiero, vissuta nel XI secolo, contemporanea di Matilde di Canossa. “Medica” e non “medichessa” si diceva in latino: fino al XV secolo inoltrato, in latino e nelle lingue volgari, “medico” si declinava sia al maschile, “medicus”, che al femminile “medica”. Trotula de Ruggiero fu la più famosa delle “mulieres salernitanae”, dame della scuola medica di Salerno, dove la scienziata studiò, si laureò e insegnò. Fu autrice di trattati di medicina che mostrano inconsuete conoscenze in campo ginecologico ed ostetrico. Nonostante fossero firmati con il suo nome, nelle trascrizioni successive questo fu trasformato nel maschile “Trottus”, forse perché non si reputava che una donna potesse avere simili competenze. Trotula fu recuperata come legittima autrice delle sue opere solo nell’Ottocento. La medica “mulier salernitana” conosce i bisogni delle donne, ascolta le loro richieste, si rende promotrice di una medicina per le donne in assoluto laica, priva di qualsiasi influenza morale o religiosa. Colpisce la modernità, che potremmo definire “di approccio olistico”, di Trotula, la quale, mille anni fa, sosteneva che la salute non deve essere intesa come assenza di malattie, ma come una situazione di benessere psicofisico complessivo della persona.
Le segnatrici: curare con le mani e con i segni
Nel 1862, scrive nel suo libro “La sorcière” lo storico francese Jules Michelet: “Per mille anni l'unico medico del popolo fu la ‘strega’… la massa di ogni stato, e si può dire il mondo, non domandava parere che alla ‘Saga’ , o donna saggia...” Da un lavoro della ricercatrice etnografica Luciana Nora nel territorio carpigiano, emerge che più di tre secoli di Inquisizione, uniti agli attacchi da parte della medicina e cultura ufficiali, non hanno sradicato il fenomeno di queste pratiche rituali. Significativi, a tale proposito, appaiono gli atti di un processo del Tribunale dell’Inquisizione del marzo 1734, tenutosi a Modena, contro Anna Astolfi, di cinquant'anni, rea confessa di scacciare “il mal delle doglie” attraverso la seguente formula: “In nome di Dio sia e della Vergine Maria, vi metta prima la sua man che io la mia, in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, sto male non passi da qui d’innanzi. Prego Dio e la dolce Vergine che se son doglie, se ne vadin via.” Ad accusarla sono le stesse donne che a lei erano ricorse, incapaci di sottrarsi al senso di colpa derivante dalla loro trasgressione: la donna doveva assolutamente “partorire con dolore”! La medicina popolare, mutata, ridotta a spettro della sua essenza, è comunque sopravvissuta. Il fatto poi che in prevalenza si tratti di guaritrici, afferma Luciana Nora, induce i più a ritenerla sottocultura da “donnette”. Viene da chiedersi, invece, chi fossero, chi siano queste figure: le medichesse. Se, cioè, la loro saggezza sia tale da aver compreso il senso profondo dei limiti, dei bisogni individuali e collettivi della natura umana. Bisogni riassunti per simboli in rituali molto complessi, come il “levare al simiot”, senza il bisogno di inveire su qualcuno o maledirlo ma – piuttosto - riconciliandone le componenti. Una saggezza che evitava quindi il pericolo di sanare una situazione a scapito di un’altra. L’aspetto che più colpisce nelle segnatrici è la loro carica vitale, la serenità, l’ottimismo, la generosità, la forza d’animo. Si tratta di persone fornite di una forza interiore speciale, di un vero carisma, per cui, oltre ad aiutare chi le interpella, sono in grado di suscitare fiducia, incoraggiare, rasserenare.
Segnare con le croci e ‘infornare’ i bambini
Sempre dalla ricerca effettuata a Carpi, ma le cui testimonianze si ritrovano simili ovunque, ecco la segnatura del “Fuoco di Sant’Antonio”; la segnatrice racconta: “Non è che guariscono subito in tre volte che vengono qui; no, se ‘la tirano’ a lungo (la malattia ). Mia madre diceva così: ‘Lo devi segnare con tante croci, però stai più alla larga di dove c'è il male, perché il male non deve uscire da dove fai il segno tu… deve restare dentro… non soffrono, dopo va via il dolore, ci diminuisce’ . Ci sono di quelli che vengono e sono tutti rovinati, perché hanno delle croste, ci viene la vescica… invece segnando, il dolore non lo sentono più.” Impariamo da “La condizione contadina e l'esperienza del sacro”, Centrostampa- Comune di Carpi, 1982, una delle pratiche per guarire “al simiot”: “Mia madre guariva i bambini quando avevano "al simiot". Poverini, ci si seccava la pelle attaccata alle ossa, diventavano magri, magri e arrivavano a morire. Mia madre ci andava e con l'olio fine li ungeva e ci staccava la pelle, faceva tre "alvador" [lieviti] poi li lavava con l'acqua dei lieviti. Metteva il lievito a bagno nell'acqua e poi quell’acqua la usava per lavarli, poi li infornava tre volte, il forno era appena caldo. Qui a Fossoli c'era solo mia madre… sapeva le parole, sapeva tante orazioni… [interviene la figlia]: Anche mia zia lo sapeva fare, li infornava dopo che aveva tolto il pane dal forno, prendeva la pala del frumento ci metteva sopra il bambino con un panno, poi si legava perché non cadesse, sopra lo coprivano con un altro panno perché non si scaldasse troppo, poi lo infornavano per tre volte com'era lungo il manico della pala, diceva delle parole e guarivano...” Dice la ricercatrice Luciana Nora: “È come se la vita venisse rimpastata. L'introduzione del bambino nel forno, dove l'impasto diventa pane, per associazione riproduce la permanenza pre/natale nel grembo materno dove l'embrione “lievita” fino ad essere un individuo compiuto. La definizione corretta di questo rituale è “levare al simiot” e non curare o guarire come alcuni informatori, indotti dalle domande, qualche volta hanno usato, e questo riporta ancora alla rappresentazione della nascita, collega la figura della donna che “leva al simiot”, e che può ricevere in compenso un pane, a quella della levatrice.”
A quando risalgono questi riti e tecniche che sono giunti fino a noi? A tempi certamente molto remoti, quando l’elemento magico religioso aveva un ruolo importante. Ancora oggi, in certe popolazioni definite “primitive” la figura dello sciamano (o sciamana) unisce in sé le due funzioni: quella religiosa e quella terapeutica. Probabilmente, l’incanto del rito eseguito da una personalità carismatica, che prende “in carica” l’ammalato e intercede per lui, mette in moto, in quest’ultimo, meccanismi psicosomatici di cui è difficile valutare la portata, senza dubbio enorme.
Le ultime segnatrici
Nel 2012, “ReggioINchieste” intervista Elvira Incerti, segnatrice di Albareto di Canossa. Erano ormai poche le segnatrici reggiane (ricordiamo “la Rinciolla” e poi Maddalena Viani) e molte cercavano di tramandare le loro formule segrete a persone più giovani. Elvira aveva curato la stomatite per mezzo secolo, usando la pianta del giunco e una preghiera in dialetto. L’intervistatore chiede a Elvira se la segnatura ha a che fare con la religione e lei risponde: “Io lavoro sulla religione; le parole nascoste sono sulla religione… della Chiesa, insomma, religiosi...” Nessuna superstizione: semplicemente fede, devozione popolare. In una ricerca di Isabella Riccò, “Guaritori tradizionali nel territorio parmense: un’indagine etnografica”, si legge: “Tutte le altre componenti, che comprendono gestualità, simbologia e utilizzo degli oggetti, sono chiaramente percepibili dal paziente. Le parole no, sono pronunciate in modo da essere riservate, inaccessibili, segrete. Durante le interviste sono emersi dati interessanti. Innanzitutto, su undici guaritori (in maggioranza donne) solamente due non pronunciano alcun genere di parole. Dei restanti nove ho rilevato tre differenti categorie: chi fa uso di preghiere cattoliche canoniche, chi fa uso di altre formule verbali e chi fa uso di entrambe. Alcuni guaritori, pur non rivelandomi con esattezza le formule, mi hanno riferito che vi è una frequente evocazione dell’elemento acqua. Quest’ultima potrebbe essere intesa sia in relazione alla medicina greca, che curava mediante l’equilibrio degli umori, sia all’acqua benedetta o al rituale del battesimo. Alcune formule rievocano Gesù o i Santi. Tutto sommato, anche sotto questo aspetto si evidenzia quindi l’ambivalenza del rituale, in continua oscillazione tra un mondo cristiano connaturato da secoli nella nostra cultura e un sostrato tradizionale che continua a emergere.” In definitiva: le figlie del dio della medicina Asclepio (o Esculapio) sono ancora tra noi e hanno le fattezze delle ultime segnatrici.
Testo presente nel catalogo "Le figlie della luna"
Ci sono le fate, sui monti. O forse c’erano, insieme ad altre creature. Insieme al serpente con la corona da re in testa (giurano di averlo visto in uno dei laghi del Cerreto), insieme alla “Burda” che stava nei pozzi, alla capra/strega “Barbantana”, allo “Sgnifro”, folletto dei boschi (quante volte vi hanno chiamato “sgnéfre”, da bambini, se eravate dispettosi?), al Buffardello, altro folletto abitante, però, il crinale. Poi c’era il diavolo che appariva qua e là, soprattutto - da buon capitalista - nei dintorni o dentro ai mulini. E c’erano le apparizioni di santi e sante, soprattutto di sante: la Madonna, a Bismantova, oppure su un ginepro a Cavandola (ma qui la bimba che la vide finì, per un periodo, in manicomio: la fame e la malnutrizione sono il più potente allucinogeno) e Santa Maria Maddalena, che sul Ventasso dormiva sotto una grossa pietra.
La Maddalena che era stata persino sul Monte Valestra e a Saccaggio di Carpineti. Anche Santa Elisabetta, cugina di Maria, era apparsa a un pastorello, seduta su una quercia, in quel di Soraggio di Gombio. Le fate vivono “in t’el fade”, su uno dei versanti del Ventasso, dove alcune pietre incise testimoniano i culti pre romani dell’acqua e delle cime, e in altri luoghi, come Monte Ca’ di Viola, tra Costa de’ Grassi e Frassinedolo. Dalle rocce di “in t’el fade”, sopra Busana, vicino a quella che viene definita “Porta del diavolo”scende il rio Riccò, le cui acque, un tempo, muovevano le ruote di un un mulino. Può darsi che quei luoghi (come il “ballatoio delle fate” dalle parti di Montemiscoso) fossero gli spazi dove, anticamente, venivano accesi i fuochi per comunicare tra villaggi, pratica che forse si è conservata nei falò di fine carnevale di molte vallate. Ad esempio, nella valle del Tassobbio. Può darsi che le fate vestite di bianco fossero le druidesse che presiedevano ad antichi riti… poi cancellate dall’occupazione romana e, più tardi, dai culti cristiani. Le pietre, i massi, le vette, gli alberi erano, per i nostri progenitori, espressione della divinità. La vetta delle montagne un grande tempio. Dalla pietra delle montagne nasceva l’acqua, la fertilità. Ogni fonte, sorgente, fiume, pozzo era luogo sacro e taumaturgico, con caratteristiche proprie. La grotta all’interno della montagna era come l’utero femminile, era il rifugio, il sacro.
Quella del serpente è storia che ritorna, sempre uguale, di qua e di là dal crinale: è sempre lei, la Dea. I culti delle “dee madri”, custodi delle molte sorgenti anche terapeutiche (fonti termali) esistenti nelle zone abitate dai Liguri (e dagli altri popoli italici), con l’avvento del cristianesimo diedero del filo da torcere alla Chiesa che si impegnò per estirparli.
Dei Liguri Plinio scrisse: “Utilizzavano le sorgenti di acque calde e le annoveravano come divinità”. Per lo storico Le Goff: “Buone o cattive, le fate si sono, da sempre, chinate sulle nostre culle. Esse raccolgono una triplice eredità: quella delle tre parche, le "Tria Fata", quella delle "Fatuae" (poi diventate le ninfe) dell'antichità, e quella delle divinità madri di numerose religioni protostoriche, in particolare celtiche.”
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