venerdì 14 gennaio 2022

LA NUVOLA - RACCONTO TRATTO DA "IL VOLO DI MELUSINA"




Era rimasta impressa nei suoi occhi bambini, la silhouette mutevole di quella strana montagna. Sempre diversa, a seconda del punto di osservazione. Se proprio non la si vedeva, bastava spostarsi un po’ e lei si rivelava in tutta la sua magnificenza. Lui c’era nato in Appennino, anche se poi era cresciuto a Milano; la Pietra gli ricordava sua madre; la Pietra era una Madre: osservava, custodiva, proteggeva. Uno sguardo materno di cura e difesa, rassicurante.

Lassù, c’era stato giusto l’anno prima con il gruppo di ciclisti di cui, da tempo, faceva parte. Aprì un cassetto, cercò tra le foto e, subitamente, comparve don Gianni, il loro direttore spirituale: il prete era con lui sulla terrazza di una rocca.

Era venerdì, quella sera, al castello di Rossena. Il prete aveva l’abitudine di digiunare dalla notte del giovedì al mattino del sabato, dunque appariva alquanto smunto e stanco. La pratica del digiuno non gli impediva di accompagnarli, sia pure in auto. Di fatto, era stato al loro fianco anche in quel lungo pellegrinaggio in bici da Milano ai castelli della Grancontessa Matilde.

«La tua terra…», disse il prete, osservando all’orizzonte i paesini sparsi sui colli, «e laggiù c’è la Pietra, dove siamo stati ieri. A proposito: sapevi che il prete che ha in cura l’eremo è un esorcista?».



Alfonso annuì e respirò a fondo l’aria umida che saliva dal torrente Enza:«È una mensa sacra, però molti ne parlano come dello “zoccolo del diavolo”. Forse per questo ci hanno piazzato un esorcista!»

Don Gianni sorrise:«Il diavolo è cosa un po’ più seria e si veste in giacca e cravatta, non si traveste da montagna. E poi, ti ricordi che Dante situa il suo Monte del Purgatorio proprio a Bismantova?»

«Vagamente, don, sì, lo ricordo…»

«E sai che vi sistemò, come custode, una certa Matelda?»

Alfonso scosse il capo; no, non lo ricordava:«Matelda… Matilde… di Canossa?»

«Ah, poco importa che fosse la Contessa o la monaca benedettina Matilde di Hacheborn. Importa che questa donna purificava le anime tuffandole nel fiume Letè. Capisci? Dante immagina una donna che permette l’ingresso al paradiso. La felicità perfetta, la guida: tutto in una creatura femminile, ti pare poco?»

«Be’, ma voi preti, con la faccenda del celibato, siete proprio fissati con le “creature femminili”!» E gli diede una pacca su una spalla. «Non abbiamo una moglie», sorrise il religioso, «ma abbiamo avuto tutti una madre, caro il mio furbacchione, una mamma come la tua, che abbiamo ricordato proprio ieri lassù».

«Accidenti, don…», esclamò l’uomo, interrompendolo e indicando qualcosa nel cielo, «là, in fondo, là, lontano, sulla Pietra… le luci… quelle palle luminose che danzano…»

Prese la macchina fotografica e provò a scattare qualche istantanea, ma i globi, all’improvviso, scomparvero.

«Mah, che vuoi, forse erano fuochi d’artificio», disse il prete, «siamo troppo lontani per sentirne i boati. Oppure era Matelda che trasportava le anime al cielo. Oppure, anche tu hai digiunato e abbiamo le visioni… Scherzo! Dai, andiamo a dormire che domani si riparte!»

Il sonno arrivò tardi. Alfonso aveva chiacchierato a lungo con una delle guide, prima di cena, e continuava a rimuginare sulla festa di Halloween organizzata in quel castello l’anno prima e annullata per decisione del vescovo. «Ha detto che la festa dei Santi non può essere in nessun modo sostituita da Halloween,» aveva spiegato il ragazzo, «non ha niente a che fare con il paganesimo delle zucche vuote, di fantasmi, folletti, mostri o di streghe e vampiri. Per noi è stato un bel danno: avevamo già pronto tutto e abbiamo dovuto annullare le prenotazioni».

Alfonso rifletté che, insomma: se tutte quelle creature anomale erano ritenute “immaginarie”, che male poteva esserci a fabbricarci intorno una festa? Tanto, non esistevano! Oppure, il vescovo credeva ai vampiri?

E le luci che aveva visto dalla terrazza? Anche quelle saranno state “immaginarie”? Sferiche, prima pigre, poi saettanti e dal contorno evanescente… no, non potevano essere fuochi d’artificio, e nemmeno aerei. Eppure, doveva esserci una spiegazione scientifica.

Alla fine, vinto dalla stanchezza, si addormentò.

Lo risvegliò poco dopo un tramestio sul soffitto. Accese la luce, guardò su e vide dei batuffoli grigi, con code soffici e grandi orecchie, rincorrersi sulle travi. Ghiri?

Fece per spegnere la luce quando un’ombra si mosse davanti alla porta. Un tremito gelido gli percorse la schiena, mentre il battito cardiaco gli giunse ampliato, schiacciato in gola, e le mani cominciarono a sudare.

Alfonso scattò a sedere sul letto:«Chi c’è? Chi sei?» Gli occhi si abituarono pian piano alla luce troppo bassa, distinsero i contorni dei mobili e il profilo dell’ombra. Cercò di mandar giù la saliva in eccesso e di respirare a fondo.

La risata di don Gianni sciolse i suoi timori:«Pensavi che fossi Everelina, vero? Tranquillo, sono venuto a recuperare il mio cellulare: era nel tuo zaino, ricordi?»

I versi che la guida gli aveva recitato appena arrivati gli riecheggiarono nelle orecchie. Si trattava di un lungo poema che narrava la consueta storia di una fanciulla – Everelina, in questo caso - rapita dal signorotto e suicidatasi per sfuggirgli:“Che già in pianto m'attende: oh la mia madre/L' amava io tanto! A lei dirai che sciolta/La sua figlia fia in breve, e benedica,/Pria che spunti il mattino, Everelina.”

Ora, il suo fantasma pare che vagasse per il castello. Alfonso non credeva a certi fenomeni mefistofelici, però era contento che ci fosse lì don Gianni. In ogni caso, era una presenza protettrice.

Come non volergli bene? Il gruppo dei cicloamatori di Turro, credenti o meno, atei, agnostici o semplicemente indifferenti, erano un tutt’uno con il loro amico prete.

I cinquecento chilometri che li avevano condotti in Appennino erano stati pensati da Alfonso; don Gianni l’aveva chiamato a pianificare il tutto, perché sapeva quanto conoscesse quelle zone. Così, lui aveva messo in fila cinque tappe: Milano, Casalmaggiore, Reggio Emilia (Marola, Bismantova, Rossena), Busseto, Milano.

Erano perciò partiti il due di luglio ma, usciti da Cremona, il traffico si era talmente intensificato da costringerli ad infilarsi in una stradina parallela. Un percorso piatto e noioso; solo lo stridio delle catene li accompagnava, come musica di chitarre scordate. Finché, tra chi guidava il gruppo, qualcuno planò a terra imprecando e ruzzolando sull’argine, finendo poi, con un grande tonfo, nell’acqua del canale sottostante.

«Valerio! Accidenti, Valerio, ti sei fatto male?»

Scesi dalle biciclette, gli amici si precipitarono a recuperare il povero Valerio, dopo aver scansato la nutria morta - dal ghigno satanico - in cui era intoppato. Lo trovarono in piedi nel fosso, gli occhi fissi su una ragazza seduta su una seggiola. Bagnato, il casco in mano, sembrava Ulisse davanti a Nausicaa.

Non era Nausicaa, la ragazza seduta sulla scarpata, sembrava più Maddalena, ora che, dopo aver fatto accomodare il prete al suo posto, gli si era inginocchiata dinanzi e gli aveva chiesto una benedizione. Il gruppo aspettava ai bordi della strada; in alto, nel cielo terso, una sola nuvola bianchissima, ellittica, si allungava e si sfrangiava, rabbuffata da una brezza dolce.

Don Gianni continuò la sua confessione - una mano sul capo della ragazza - e Alfonso pensò a quanto fosse stato importante quel prete per i ragazzini di Turro nel secondo dopoguerra.

Figli di operai, bisognosi, per molte ore soli in strada, lui li aveva accolti e seguiti nell’oratorio della parrocchia. Non lontano da Turro, a Gorla, il 20 ottobre del ‘44 era arrivato l’inferno.

Il diavolo era venuto pilotando un aereo che avrebbe dovuto bombardare la Breda, ma che si trovò fuori rotta di 22 gradi. Il diavolo avrebbe potuto liberarsi delle bombe in aperta campagna, invece, preferì sganciarle sulle case. Centrò in pieno una scuola elementare. Il diavolo aveva buona mira. Duecento bambini massacrati, più di settecento morti in tutto. Il diavolo, quando si muove, sa il fatto suo. Può essere anche un pilota d’aereo e, quella volta, era un angloamericano.

I bambini cresciuti a Turro da don Gianni, invece - diventati pian piano adulti - all’oratorio erano stati sostituiti dai figli e, più avanti, dai nipoti. Lui, ormai anziano, era sempre lì a seguirli nelle varie attività. Come quella del gruppo di cicloturismo amatoriale.

Finita la confessione, il prete fece una telefonata, poi si ricongiunse ai suoi “ragazzi” (alcuni più che settantenni) e ripartirono tutti per Casalmaggiore.

«Davvero non possiamo sapere nulla di quella confessione, don? Qualche particolare?», scherzarono più tardi i ciclisti in albergo. «Almeno, il nome della signorina! Sembrava brasiliana, o era cubana? O nordafricana?» Don Gianni li lasciò ridere, scosse il capo e non ci fu modo di scucirgli una parola.

Disse soltanto:«La corruzione non sta nello schiavo, ma in chi lo riduce in schiavitù e in chi lo usa. Comunque, spero di aver trovato il modo per aiutarla…» Gli amici si guardarono e tacquero, vergognandosi anche un po’.



C’era il sole, quando s’erano apprestati a salire sulla sommità della Pietra, dopo aver lasciato le biciclette in custodia alla signora del bar e aver ritirato panini e beveraggi prenotati. La salita sapeva di immersione nelle “selva oscura” dantesca, soprattutto l’ultimo tratto, incuneato in un vero e proprio tunnel verde. Il giorno prima, la sosta a Brescello per salutare Peppone e don Camillo era servita ad introdurre il gruppo nello spirito emiliano, ma il vero battesimo (di sudore) fu affrontare la pendenza e le curve della Statale 63 da Reggio a Casina.

Mostrare agli amici, mentre andavano su, il paesello dov’era nato e dove il suo babbo, da Milano, li raggiungeva in bicicletta ogni domenica partendo dalla stazione di Reggio, fu motivo di grande orgoglio per Alfonso, ma anche di infinito rimpianto. Si erano fermati in albergo a Marola e, al mattino, il gruppo si era rimesso in strada, destinazione Bismantova.

Intanto che, a piedi, si arrampicavano verso la sommità, un capriolo attraversò il sentiero, evitando, per un pelo, il solito, sfortunato Valerio.

«Oh, certo che l’intera fauna italiana ce l’ha con te!» Disse don Gianni ridendo.

La comitiva si arrestò e guardò giù, nel bosco. Ora, i caprioli erano quattro, e c’era un altro animale con grosse corna. Aveva le parvenze di un muflone. Le bestiole sembravano ballare in circolo, spiccando, a intervalli regolari, piccoli saltelli sulle quattro zampe. In quel momento, una persona con il cappuccio della maglietta tirato fin sugli occhi e un grosso cane nero al guinzaglio li sorpassò a passo spedito. Si bloccò per un attimo a guardare la danza degli animali, poi borbottò qualcosa come:«Brave, streghe…» e sparì in alto, sul sentiero.

«Ci manca l’incontro con la “lonza” di Dante, poi siamo a posto…», disse Alfonso, «questo pellegrinaggio inizia a preoccuparmi».

Sulla spianata della Pietra, s’incamminarono tra i cespugli di nocciolo e le roverelle e fu allora che una grossa nuvola si abbassò avviluppando il monte e i suoi ospiti in una nebbia fittissima e fredda.

Si era ai primi di luglio, eppure pareva autunno inoltrato.

Il tipo con il cane e il cappuccio li superò nuovamente in silenzio. Alfonso ebbe la sensazione di sentire odore di zolfo, ma non fiatò.

Seguendo le tracce di un sentierino, i ciclisti s’imbatterono in una sorta di altare di pietra. Il prete lo allestì per la celebrazione, alzò le braccia al cielo e invitò i presenti a cantare. La nebbia svanì così com’era arrivata, mentre il nome della mamma di Alfonso saliva al cielo, finalmente azzurro e solcato da una sola, bianchissima nuvola ellittica.


Era sabato mattina ed era il loro ultimo giorno a Rossena. Sui camminamenti del castello il riverbero del sole era quasi accecante, mentre il frinire delle cicale risultava sgradevole, molesto. Alfonso osservava la Pietra ben delineata sullo sfondo del crinale e ripensava al giorno prima.

«Se sapeste cosa capitò ai due gesuiti mandati qui per scacciare il maligno, non sareste saliti a celebrare una messa!» Aveva detto, alla fine del rito, una voce a ridosso di un cespuglio.

Era il ragazzo con il cane nero. «Sei di queste parti?» Gli aveva domandato il prete. «Perché parli di gesuiti? Mi pare che qui ci fossero i benedettini!»

«Ah, be’, provate a pensare al cavaliere inviato quassù dai gesuiti», proseguì lui, «subito catturato dal diavolo e poi scagliato fino a Reggio… Se lo videro cadere sulla tavola del refettorio dopo che aveva sfondato il tetto, quei due!»

Il personaggio aveva scoperto appena gli occhi e Alfonso aveva notato le sue pupille dilatate e il volto in tensione, come di una persona sotto l’effetto di stupefacenti. «Meglio ripartire…», aveva deciso don Gianni. Si erano girati per salutarlo, ma quello era già svanito tra gli alberi.

Scendendo lungo il sentiero, dopo le solite foto di rito, gli amici si erano ritrovati di nuovo immersi nella nebbia. Di caprioli e mufloni nemmeno l’ombra, soltanto un falco, o forse una poiana, che gridava nei cieli litigando con le gazze.

Giunti davanti al santuario, avevano notato un grosso cane nero legato alla recinzione: era quello del ragazzo di prima? Entrati nella chiesetta, in quel momento semideserta, don Gianni aveva chiesto a una signora assorta in preghiera se ci fosse un prete, e lei aveva risposto che era impegnato a confessare:«È arrivata una strana persona con un cappuccio sugli occhi e l’ha praticamente trascinato di là…», e aveva indicato una delle porte a destra.

«Maledetto! Me la pagherai, oh se me la pagherai! Tu credi di vincermi, ma io ti distruggerò!»

Era uscito di corsa sbraitando, il ragazzo dal volto coperto, mentre fuori il cane aveva cominciato ad abbaiare furiosamente. La signora si era alzata, aveva fatto loro cenno di non farci caso, come per dire che di matti in giro ce n’erano tanti, li aveva salutati e si era avviata a confessarsi.




«Stai ripensando a ieri, vero?» Domandò don Gianni ad Alfonso, mentre allontanava qualche zanzara salita fin sulle mura di Rossena:«Che ne dici se prima di parlarne facciamo colazione? Io dovrò pur rompere il digiuno, o vuoi vedermi morto?»

«È grave se non credo a tutte queste storie di diavoli, fantasmi, streghe, mostri e sfere danzanti di luci colorate?» Mormorò Alfonso:«Non so nemmeno se credo in Dio, figuriamoci se prendo sul serio queste superstizioni!»

«Te l’ho detto: pensa al maligno in giacca, cravatta e gran sorriso. I mufloni non c’entrano. E nemmeno Halloween. Però, ora, guarda laggiù quella nuvola!»

«Dove? Sulla Pietra? Quella bianchissima?»

«Sì… a chi somiglia?»

«È un profilo femminile… la fronte, il naso, il mento… è mia madre!»

Uno sbuffo d’aria, e la nuvola si allungò, poi fluttuò e si riavvolse come un gomitolo. Ancora il vento a pettinarla, ed ecco un altro profilo.

«E ora, a chi somiglia?» Disse il prete.

«Oh mio Dio… quella ragazza bellissima, quella dell’incidente di Valerio… Però, ora che ci ripenso, somiglia molto al ritratto di Matilde che abbiamo visto dentro al castello!»

«E anche un po’ alla Madonna di Bismantova, vero?»

«Sì, anche a lei…» Per qualche minuto rimasero in silenzio, poi don Gianni, sorridendo, lo prese per un braccio:«Penso che sia ora di fare colazione: il digiuno mi sta facendo brutti scherzi, dai: andiamo!»

Alfonso annuì e lo seguì dentro al castello.

Prima di pranzo, si erano già rimessi tutti in strada: Busseto, e poi Milano. E la Pietra nel cuore. 




A Milano il freddo si era fatto più intenso, in quegli ultimi giorni. Alfonso mise in ordine le foto e cominciò ad inserirle in un album. Preferiva sempre stampare le migliori e conservarle così, convinto che il cartaceo sarebbe sopravvissuto più a lungo del digitale.

Un sottile nevischio cadeva fuori dalla finestra e gli ricordava che erano già passati sette mesi da quel bel pellegrinaggio in Emilia. Improvvisamente, squillò il telefono. Era don Gianni.

«Hai saputo? Ti ha chiamato Valerio?»

«No, cos’è successo? Gli è piombato addosso uno stormo di gabbiani? Una mandria di bovini? Un branco di cinghiali?»

«Ah, poco ci manca… Forse non lo sai, ma la settimana scorsa era andato a Bismantova con sua moglie, una semplice gitarella, e…» Alfonso trattenne il fiato, aspettandosi una terribile notizia; si avvicinò alla finestra e osservò alcuni deboli bagliori bucare il bigio della nebbia.

«Oddio, don… un incidente? Valerio sta bene?»

«No, no, tranquillo: lui sta bene, ma… alla Pietra c’è stato un crollo spaventoso. Un costone enorme di roccia è franato sul sagrato della chiesa!»

«Un pezzo del monte? C’era gente sotto?»

«No, per fortuna il gruppo che aveva appena visitato la chiesetta se n’era andato, però… ricordi, vero, che il prete del santuario è uno dei due esorcisti della diocesi?»

«Sì, certo, perché? È rimasto sotto la frana?»

«C’è mancato poco, si è salvato per un pelo. Invece, la sua auto è stata tranciata a metà e pure la statua di san Benedetto è stata abbattuta. Un disastro immane».

Ora, il cielo si era di colpo liberato: nebbia e nubi avevano lasciato spazio all’azzurro più trasparente dove oscillava una lunga nuvola bianca.

«Valerio era lì?» Chiese Alfonso.

«Sì, e ha visto tutto: era nel gruppo appena uscito dalla chiesa. E sai chi ha incontrato sul piazzale, poco prima del crollo?»

«Il muflone? Un branco di cervi?» Provò a sdrammatizzare Alfonso.

«No, il tipo dal cappuccio con il cane nero… vestito in giacca e cravatta e con un gran sorriso beffardo stampato in faccia».

«Non è possibile…»

La risata del prete gli arrivò ironica e leggera:«Ci hai creduto? Lascia perdere: il costone doveva cadere perché tutte le montagne, prima o poi, tornano al mare. Il diavolo ha ben altro di cui occuparsi. Piuttosto: vieni da me che dobbiamo preparare il prossimo pellegrinaggio in bici!»

«E dove dovremmo andare, questa volta?»

«Non so, tu hai un’idea?»

Alfonso osservò la nuvola che fluttuava sul Lago Malaspina; era bianchissima, più del velo di neve caduto a terra, e il vento le dava forma, sbozzandola e lisciandola. Ora sembrava un volto di donna dai nobili lineamenti.

«Torniamo da lei, a San Benedetto Po, dove venne sepolta la prima volta. Torniamo da Matilde».

Sul Lago Malaspina la nuvola era sparita e uno stormo di anatre piroettava brioso nei colori della sera.

Alfonso chiuse la telefonata e fissò a lungo la foto che aveva in mano: nei cieli sopra la Pietra, in mezzo a globi di luce danzanti, la sagoma di un uomo e di un cane veleggiavano, neri, verso la luna.

(In ricordo del caro cugino Enrico Bianchi che, con me, ha scritto questo racconto)






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