La capra bianca delle fate
Le fate vestono di bianco e hanno bisogno dell’acqua corrente per lavare ogni giorno i loro panni, perciò, di solito, vivono nei pressi di un fosso, dove un tempo c’erano i mulini.
Le fate sono incorporee; si nascondono nelle grotte e capita di scorgerle danzare sulla cima delle alture, anche lassù sul Ventasso, e paiono nuvole. Lassù, possono viverci soltanto i falchi, le poiane, le aquile. Potrebbero anche salirci le capre.
Lassù, si è inerpicato Umberto, appassionato di fotografia naturalistica, con l’amico Marco, con Giovanni, bravo reporter, con Roberto, Bruno e altri. Tutti alla ricerca di un animale diventato leggenda, quasi uscito da una fiaba. Tutti stregati da questa speciale creatura.
Nemmeno i caprioli e i lupi osano arrampicarsi su quelle “grotte” (ripe scoscese), solo le capre potrebbero abitarci. E le fate.
D’altra parte, lo scrittore Carlo Lorenzini sapeva bene che le fate possono trasformarsi in caprette. È lei, la fata dai capelli turchini a regalare al Grillo Parlante la casetta dove poi si riparano Pinocchio e Geppetto fuggiti dal ventre del Pescecane.
Carlo Lorenzini nacque a Collodi, in quella Toscana non lontana dalla valle del Serchio abitata dalle fate e da altre fiabesche creature. Sapeva delle fate, Lorenzini, forse pure di quelle che si trasformano in capre.
Le fate vivono anche qui, sull’Appennino reggiano: “in t’el fade”, su uno dei versanti del Monte Ventasso, e in altri luoghi. Dalle rocce di “in t’el fade”, sopra Busana, scende il rio Riccò, dove un tempo c’era un mulino e dove oggi c’è un agriturismo: quello del signor Vincenzo.
Da queste parti sono state ritrovate misteriose pietre incise e del ritrovamento ci dà notizia “Mingh”, Domenico, altro componente del gruppo di ricerca della capra.
Anni fa, il padre di Vincenzo, Sergio, era a caccia e, sedendosi, notò una grossa pietra con delle incisioni. Più avanti, anche “Mingh”, s’imbattè in quel sasso, così ne parlò con la studiosa e storica Rosi Manari, la quale contattò il linguista Adolfo Zavaroni.
Questi, analizzò e decifrò i graffiti, attribuendoli ai Liguri Friniati che permasero sulle nostre montagne fino al 100 a.C circa. Zavaroni afferma che un’iscrizione trovata al centro del Frignano, testimonia che gli antichi Friniati chiamassero se stessi Umbri, sebbene Tito Livio li avesse definiti Ligures. Altre scritte in grafìa e lingua friniate sono state rinvenute dallo stesso linguista sul Monte Valestra e sotto la Pietra di Bismantova.
Per diversi studiosi, comunque, le ipotesi di Zavaroni sono soltanto fantarcheologia e non credono alla sua “lettura”, per esempio a ciò che “vede” in un’incisione “…due profili che si fronteggiano toccandosi, probabilmente di due divinità, una più anziana e una più giovane, anche questi simboli riconducibili al tema della dualità e della ciclicità.”
Cosa c’entra tutto questo con le fate e con le capre? E con l’animale cercato da Umberto? Forse nulla, forse si tratta soltanto di casuali sincronismi, ma vediamo un po’…
L’animale ormai leggendario che il nostro, con gli amici, ha cercato e trovato “in t’el fade” è proprio un’eroica capra bianca. In ambito umano, la bestiola verrebbe definita ‘pecora nera’, perché ha rivendicato la sua libertà fuggendo dal ‘padrone’, proprio da quell’agriturismo dove prima c’era il mulino e dove, forse, le fate di un tempo lavavano e stendevano i panni.
“Paradossalmente, però”, dice Umberto, “si può essere pecore nere senza essere pecore, dato che lei è una capra, e senza essere nere, poiché è bianca. È l’icona della pecora nera, ma nell’aspetto è il suo contrario.”
L’aveva comprata, il signor Vincenzo, insieme ad altre quattro capre, circa dieci anni fa, per tenere pulite le coste più ripide. Poi, un giorno, un cane randagio aveva fatto irruzione fra di loro. Le capre erano fuggite: quattro in una direzione mentre lei, quella bianca, si era gettata in una corsa a perdifiato verso Cervarezza.
Il padrone l’aveva cercata, finché gli erano giunte strane voci… Una capretta bianca compariva – quasi una fata - sulle “grotte” del Ventasso sovrastanti Busana.
E lassù è rimasta fino ad oggi, rifugiandosi in inverno sopra l’abitato di Nismozza, sul fianco del monte dal microclima meno rigido e meno battuto dal vento.
Leggenda vuole che la bestiola abbia frequentato i mufloni, abitanti selvatici di quei luoghi.
“I mufloni”, spiega Umberto, “hanno una vista acutissima, paragonabile a quella di noi uomini se guardassimo dentro a un cannocchiale da otto ingrandimenti. Certamente, però, i lupi li predano, ma la nostra capra l’ha sempre fatta franca: abita questo ambiente scosceso, difficilmente raggiungibile dai lupi, dove io faticavo a stare ritto da fermo.”
Strani aneddoti si raccontano su di lei; per esempio, alcuni cacciatori in appostamento l’avrebbero vista con i cinghiali. Anche “Mingh” l’ha vista avvicinarsi stizzita ai cinghiali che pasturavano sull’erba - da lei ritenuta sua - sollevare e battere gli zoccoli anteriori a terra, come fanno anche gli stambecchi, con l’intento di cacciarli. Nonostante un’enorme scrofa l’avesse inseguita, la capretta era poi tornata a cercare di mandarli via.
Anche Bruno l’ha vista puntare i piedi contro i grossi suini, per poi salire a rifugiarsi più su, vicino a quella che lui definisce “Porta del diavolo”.
“In t’el fade” è diventato la sua casa, proprio lì, dove le pietre incise testimoniano i culti pre romani, liguri, dell’acqua e delle cime. Per dire di quanto l’associazione pietre incise e fate sia diffusa, c’è un “santuario” simile in provincia di Savona, sul monte Beigua, in località “Le Faie” (le fate).
Disegni di corna, residui del culto di divinità animali, sono in altre incisioni, in Lunigiana e Garfagnana. Qualcuno, poi, ritiene che il dio pagano celtico Cenrunnos, raffigurato con palchi di cervo, in realtà fosse un “dio cornuto” più simile a una capra. L'uso di elmi da guerra ornati di corna trova riscontro anche presso i Liguri.
Le capre hanno le corna, si dice abbiano la vista di un falco e sanno arrampicarsi sulle “grotte”, dove campano senza problemi e, se vogliono, senza padroni.
Le capre bianche hanno una qualità in più: come altri animali chiari, venivano sacrificate agli dei del cielo, mentre gli animali scuri agli dei dell’oltretomba.
Può darsi, allora, che le fate vestite di bianco fossero le druidesse che presiedevano a quegli antichi riti… vestali poi cancellate dall’occupazione romana e, più tardi, dai culti cristiani, ma rimaste nell’immaginario folklorico e nella toponomastica delle località.
Può darsi che quei luoghi (come il “ballatoio delle fate” dalle parti di Montemiscoso) fossero gli spazi dove venivano accesi i fuochi per comunicare tra villaggi, pratica che forse si è conservata nei falò di fine carnevale di molte vallate.
In ogni caso, le “fade” sono ovunque; a venti minuti in auto da Minerve, in Occitania (Francia), c'è, per esempio, l’affascinante Dolmen Des Fades. L'omonimia e l’affinità con le “fade” del nostro Appennino o con quelle della Lessinia veronese è veramente sorprendente.
Nelle grotte di Sillano, di là dal crinale, si racconta che ci fossero le fate; chi provava ad entrarci veniva preso a bastonate. Erano belle, vestite di bianco e se ne stavano là a filare, senza uscire mai.
Sempre in Garfagnana, a Vagli di sotto, i vecchi testimoniano che “la grotta delle fate” era abitata da fanciulle bellissime, che cantavano e ballavano abbigliate di bianco e azzurro. Si narra che, durante la guerra, lì si fossero rifugiati i partigiani e che le stesse fate li avessero salvati dai tedeschi.
Tornando al professor Zavaroni, in una sua pubblicazione dice: “Plutarco, nella Vita di Gaio Mario racconta che quando gli Ambrones iniziarono ad urlare il proprio etnico “Ambrones !”, i Liguri, ingaggiati nell’esercito romano, risposero gridando lo stesso nome, che – dicevano – era anche la loro ancestrale denominazione”, e continua, il professore: “Semplice e plausibile mi sembra l’attribuire a Umbri (sing. Umber), la radice di lat. umber, -bri ‘incrocio di capra e pecora’- ‘caprone, pecorone’. Sono incline a supporre che un italico Ombros fosse il nome di un divino mitico progenitore collegato al germanico ‘doppio, duplice’, con allusione al principio ‘vita-morte’, ‘bene-male. Tale funzione era svolta da tutti gli dèi con le corna: Dioniso, Pan, Fauno, il Mercurio gallico avente l’epiteto Gebrinus, ‘Caprino’ e raffigurato con un ariete su un monumento trovato a Bonn.”
Umberto, intanto, continua, irriducibile, a seguire l’altrettanto irriducibile capra ‘pecora nera’, un po’ fata, un po’ dea dei boschi, armato di macchina fotografica e teleobiettivi.
A tale scopo, aveva posizionato diverse fototrappole dalle parti delle “grotte”, con la speranza di fermarne l’immagine. Difficile, troppo furba, lei, eppure, alla fine c’è riuscito.
Ora commenta: “Ogni volta che, nella vita, in qualsiasi campo - che sia poesia, musica, cultura o altro - credete di trovarvi di fronte a una “pecora nera”, consideratela con attenzione, poiché forse, al di là dell’apparenza e dell’inconscio pregiudizio, individuerete anche lì le fattezze e l’anima di una capra/fata bianca.”
Come non ricordare, a tal proposito, le capre violiniste dei dipinti di Chagall? Figurazioni della tradizione ebraica, in cui l’animale è simbolo di protezione e del focolare domestico.
Emozione e dono forse inaspettato è ciò che Umberto sta vivendo con gli amici della capra/fata, amici che vuole ringraziare:
“Dedico al mio amico “Marcone” (all'anagrafe Marco Campari) questa favola per grandi e per piccini. La storia della Fata Bianca che, da almeno dieci anni vive, (poichè sa viverci) in Ventasso dove, appunto, vivono le fate. È ostinata almeno quanto te, Marcone, che tuttora persisti a tenere la tua famiglia aggrappata alle “grotte” di Valbona, senza ancora deciderti a lasciare la presa e scendere a valle, dove tutto è più a portata di mano. Tu per me, sei l’emblema della montagna che resiste. Forse è questo il motivo per cui ti sei innamorato della capra: perchè entrambi sapete esistere/resistere lassù, dove non conviene. Per questo ti ringrazio. Tu, che ti svegli di sera per fare il fornaio e il mattino seguente vai a inerpicarti a Riccò o a Nismozza, in cerca della nostra fata. Nostra: di Angela, di Bruno, di “Mingh”, Nostra: di Sergio, di Vincenzo e di Moreno... Nostra: di Giovanni, di Roberto e mia... Ma tua, più di chiunque altro!
Perchè io credevo di essere il regista di questa narrazione ma, poi, piano piano, mi sono sentito esautorato dalla tua passione per questa favola... Una passione che ha superato anche la mia...
È grazie a te se noi siamo ancora qui ‘in t’el fade’ a dire ‘c’era una volta’, per una volta ancora...”
Noi, nel frattempo, aspettiamo ulteriori sviluppi della ricerca di Umberto e dei suoi amici, ma ormai sappiamo che “sopra le grotte la capra (fata) campa.”
(Un ringraziamento a Umberto Gianferrari, investigatore naturalistico e un po' filosofo, che mi ha permesso di scrivere questa storia)
Grande Normanna!!!!
RispondiEliminaconfesso che mi sono affascinato e poi commosso
RispondiEliminaPerché sia Normanna che la Fata Bianca sanno arpeggiare, con le corde del cuore...
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