Torna in libreria con una raccolta di
racconti. Secondo lei questa frase le si addice: "Normanna
Albertini è una scrittrice di crinale, con un piede avanti e uno indietro, con
una mano verso l'altro e una stretta, come per custodire una terra difficile,
che però è unico elemento e destino dell'uomo. Quella terra che è alla fine
proscenio di ogni sua storia".
Sì,
mi ci ritrovo: “I piedi bene dentro la propria terra e la testa tra le nuvole,
magari fino a sfiorare la luna”, avrebbe detto Giuseppe Pederiali, grande scrittore
di Finale Emilia.
Io,
però, diversamente da lui, pur essendo emiliana, sono montanara. I narratori
d’Appennino credo abbiano peculiarità ben riconoscibili. La montagna è terra difficile,
è margine, distanze, solitudini. In montagna s’impara subito a intuire più che
a vedere, regolando lo sguardo verso e oltre i rilievi, fino al mare, fino alla
pianura. S’impara a immaginare l’oltre. S’impara a salire e scendere, con ritmi
sinuosi, circolari, lenti, sia che si cammini a piedi, sia che si usi un mezzo
di trasporto. E, intanto, si ha il tempo per pensare. S’impara a non perderlo,
il tempo, perché l’inverno è lungo e perché la vita sociale finisce con il
declinare del giorno. In montagna s’impara a fare i conti con la scarsità o
assenza dei servizi, con le depredazioni continue in favore della pianura e
della città, con lo spopolamento inarrestabile, con la crescente eliminazione
degli spazi di cittadinanza, con il presagio continuo della rovina e della fine,
del deserto. Chi vive in Appennino (e scrive) sa considerare e osservare i
dettagli, la diversità, la varietà, le differenze, sia pure in spazi tanto
ridotti. Pluralità di luoghi ed esseri umani. Entra nella storia arcaica del
territorio, richiamata da castelli, pievi, ruderi, borghi, evocata dai suoni di
dialetti che serbano reminescenze di antiche lingue, celebrata dai piatti di
una cucina più o meno povera, ma sempre gustosa. Il narratore d’Appennino, in
fondo, è smaliziato: non crede alla presunzione di chi si erge a ombelico
culturale del mondo, perché ne riconosce la profonda ignoranza, tipica di chi
concepisce la propria realtà come l’unica, quella giusta, votata al profitto, quella
da imporre. Quella ratificata dal potere. È vero: in ogni mia storia c’è la
terra e c’è la montagna. Poi c’è il cammino, l’andare e il tornare, quello che,
per millenni, ha caratterizzato gli abitanti dei monti. Lo sapevano, loro, che
non esiste un solo modo di vivere, un solo universo, un solo modello culturale.
Sapevano che camminare e incontrarsi
è il destino dell’uomo. Camminare, incontrarsi, suonare, cantare, mangiare
insieme. Ridere. Altrimenti non è vita.
Chi è Melusina che dona il titolo a
questo libro?
Melusina
è una creatura immaginaria che si ritrova in storie e leggende di tutta l’Europa medievale, anche se, in
realtà, proviene da miti più remoti. È una delle immagini della Dea che,
secondo l’archeologa Marija Gimbutas, fu il punto centrale dell’antica civiltà
europea basata sul matriarcato. L’importanza della Dea continuerà durante tutto
il paganesimo con le figure, per esempio, di Athena, Artemide, Demetra,
Astarte, Dione, Melusina (sirena a due code). La spiegazione più interessante del mito di Melusina è quella
dei medievalisti Jacques Le Goff e Emmanuel Le Roy Ladurie, per i quali alla
base ci sarebbero le ninfe, protagoniste dei racconti mitologici greco‑romani.
La cristianizzazione dell’impero porta a una demonizzazione di quelle divinità,
le quali, tuttavia, permangono nel culto popolare, legate a substrati religiosi
come i miti celtici. Nelle diverse rappresentazioni (quasi tutte all’interno di
chiese e pievi romaniche, comprese quelle matildiche!), la sirena è raffigurata
il più delle volte con le code divaricate (di serpente o di pesce) a mettere in
evidenza i genitali femminili. La sirena bicaudata è passata indenne attraverso
i secoli, residuo di una devozione delle forze generatrici femminili e del
valore apotropaico della loro raffigurazione. Il racconto che chiude il libro,
ambientato a Castiglione di Garfagnana, parla di Melusina e mi sembrava
opportuno dedicarle titolo e copertina (bel lavoro della giovane illustratrice
Sara Davalli). Nel libro c’è dunque la montagna con le antiche credenze
popolari, il substrato culturale delle religioni arcaiche, la Dea Madre, la sirena
bicaudata. E poi ci sono una serie di personaggi e vicende che solo la montagna
tra Emilia e Toscana poteva ospitare in modo verosimile. Opere d'arte
quattrocentesche trafugate in Garfagnana e preti - forse ladri - morti ubriachi
per colpa - forse - di mafiosi russi. Commercio di strane carni dalla Romania e
vecchietti assassini per amore. Inoltre, quello che cammina (e cammina) scalzo
e non sa il motivo. Una distinta centenaria avara ed erbaiola che cucina
luppolo, ma luppolo non è. La Pietra di Bismantova e pietre come paesaggi,
forse incantate, dai nomi orientali; torrenti misteriosi e ancora la magia dei
culti della Dea. Racconti quasi gialli, irrazionali, dove la narrazione sfocia nell'assurdo, con ironia, però, ché la
realtà è sempre più goffa e risibile dell'immaginazione.
Le donne come protagoniste, anche
quando il dolore prende il sopravvento. È la cultura l'unica via per l'emancipazione del
mondo femminile?
Direi
che è l’emancipazione femminile l’unica via per una cultura che sia quella del
dono senza reciprocità, del recupero contro lo spreco, del costruire relazioni
e non muri. Una cultura che possa salvare l’umanità. Chi ha studiato le società
matriarcali ancora esistenti può confermare che se un uomo all’interno di esse vuole
guadagnare stima o rappresentare il clan verso l’esterno, il parametro è: “Deve
essere come una buona madre”. Oggi siamo convinti che il sistema economico
capitalistico basato sullo scambio, la cui tendenza logica è indirizzata verso
l’Io invece che verso l’altro, sia l’unico possibile, anche se sta divorando
tutte le risorse del pianeta. Il principio del profitto è accentratore e fa sì
che pochi singoli e gruppi minoritari siano favoriti rispetto alla maggioranza
della popolazione mondiale.
L’unica
via per una cultura che sia quella del dono è recuperare la vera essenza del
femminile/materno, sepolto e alterato, svilito da millenni di dominio
patriarcale. Femminile/materno che, per le sue origini, per natura, è orientato
verso la risposta ai veri bisogni.
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