Chi fa ricerca storica e poi la diffonde
deve, in ogni caso, essere anche un abile scrittore, con una cura speciale per
la forma comunicativa, i metodi narrativi, le scelte stilistiche e il
linguaggio utilizzato. Ci riesce benissimo il professor Giuseppe Giovanelli, storico
di primario valore, allievo di monsignor Francesco Milani, che dalle carte
degli archivi, spulciate e accantonate negli anni, riesce a ricavare testi
divulgativi di piacevole, facile lettura, eppure di grande impatto culturale.
Autore del nostro Appennino, Giovanelli ha alla spalle una produzione di almeno
una ventina di libri e la partecipazione a molte altre opere, come la storia
della Diocesi di Reggio e Guastalla. Due anni fa, sollecitato da alcuni amici
di Minozzo, ha pubblicato un volume che è un affresco coinvolgente degli anni
tra il 1426 e il 1448, non solo del territorio minozzese, ma di tutta quella
parte di montagna facente parte del Ducato estense, comprendente anche la
Garfagnana, con relazioni in Lunigiana. Il libro si intitola “Lettere dalla
rocca di Minozzo” e l’autore lo introduce così: “Le lettere, oltre a dare una
collocazione precisa nel tempo ad alcuni eventi storici fondamentali,
descrivono, con una lingua semplice e ancor quasi dialettale, la vita
quotidiana dei Minozzesi di allora, il loro rapporto di fraterna convivenza con
i Garfagnini, le modalità – non sempre entusiastiche come vorrebbe la vulgata
ufficiale – della loro sottomissione agli Estensi, la loro voglia di libertà e
autonomia, il loro sentirsi Chiesa allo stesso modo in cui si sentivano
comunità civile.”
Senza l’instancabile lavoro di indagine,
studio e decifrazione degli originari atti d’archivio, non avremmo “la storia”.
“Lettere dalla rocca di Minozzo” è frutto di questo certosino lavoro di ricerca
e ci conduce in un mondo, quello della montagna del basso medioevo, sottovalutato
dai più, sconosciuto, dimenticato. Innanzitutto, però, quando si tratta di
storia “locale”, dovremmo comunque ricordare che definire una volta per tutte i
fatti umani è pura utopia, perché sempre nuovi documenti e notizie ci giungono
dal passato a scompaginare le nostre conoscenze. Forse anche quest’opera
qualche dubbio lo instilla, creando desiderio di ulteriore conoscenza.
In una lettera del 5 giugno 1426
riportata nel libro, per esempio, il podestà di Felina, Conte dei Costabili,
responsabile in montagna della guerra contro i Fogliani, scrive, a proposito
degli armigeri delle rocche: “Questi uomini non possono comperarsi neppure il
pane e voi volete che vi paghino il sale? E se anche avessero i soldi – come
voi credete che abbiano – volete che corrano anche il pericolo di venir giù a
portarveli? A mio avviso è stata una villania incarcerare quell’uomo di
Berzana. Non c’è tempo per queste faccende, gli uomini si sentono oppressi, non
risarciti come è stato fin qui. Credetemi se vi dico che si induriscono e si
disperano. Vi prego, vi prego, messer Vicario, messer Massaro, rimettete in
libertà quel povero uomo, lasciategli quel po’ di soldi che la guerra gli
lascia, ne ha un gran bisogno. Quando i tempi saranno migliori, si potranno
riscuotere sali e dazi con comodo…” Insomma: non è che le guardie delle rocche
e gli stessi castellani se la passassero poi tanto bene. Nel 1443, alle
Scalelle viene sostituito il castellano Franceschino da Ramusana con Giovanni
di Polo da Monzone, detto Giovannello. Ebbene: a quest’ultimo viene anticipato
uno stipendio di due mesi da restituire a rate nei primi sei mesi successivi.
Oltre al capitolo specifico che
tratta della storia e della costruzione della rocca di Minozzo, Giovanelli
ricava dai documenti preziose informazioni sui dazi, le tasse,
l’amministrazione della giustizia, i delitti d’onore e contro le donne, la vita
dei podestà, le vicende dei castellani, le vicende dell’ultimo dei Dalli di Piolo,
Andreolo, e poi la famosa “lite”, durata trecento anni, tra i “Toschi” e i
“Lombardi” per i pascoli di quella che oggi si chiama, appunto, “Lama Lite”.
Il quadro che viene fuori dagli
atti è quello di una montagna abitata, dove i piccoli borghi spopolati di oggi
erano punti cruciali sulle vie dei commerci, paesi ambiti dai vari signori. La
famiglia longobarda Dallo, originaria della Garfagnana, aveva avuto qui i suoi
feudi: Piolo, Ligonchio, Predare, Scalelle-Gazzano, dove si elevavano, a quei
tempi, le rocche.
Inconcepibile risulta, oggi,
l’importanza di Piolo, punto d’incontro delle strade provenienti da Busana e
Cervarezza con quella di Minozzo, via che poi, superato Ligonchio, proseguiva
verso il valico per la Garfagnana. Qui, il territorio dei due versanti
appenninici, da Minozzo a Camporgiano, era strategico soprattutto per i traffici
commerciali di Lucca. Si scopre, addentrandosi nella lettura, che l’agibilità
delle strade, anche nel periodo invernale, doveva essere totale, soprattutto
per permettere il servizio di consegna della posta da Reggio fino alla
Lunigiana. Toccava agli abitanti di Minozzo la spalata delle nevi, il servizio
più oneroso, che consisteva nel tenere aperti i valichi dell’Alpe. “Con rozze
pale di legno, essi devono liberare un sentiero, percorribile da muli o
cavalli, proprio nel pieno della stagione invernale quando la maggior parte
degli uomini è in maremma per la consueta transumanza (…) Terribilmente gravoso
appare l’inverno del 1446 – 1447, particolarmente in gennaio quando,
approfittando di lunghe bufere di vento e di neve, si fa più ardita la
ribellione di alcune ville di Camporgiano, la vicarìa (podesteria) garfagnina
che giusto un anno prima, il 12 febbraio 1446, convinta dalle ragioni e dalle
armi del podestà di Felina, si era sottomessa al marchese di Ferrara.”
Meraviglioso il capitolo “Una
‘compagnia’ di pecore”, dove si ricorda, tra l’altro, che nel 1472 la nascita
del Monte dei Paschi di Siena vide la partecipazione dei pastori reggiani.
Tenute al pascolo sugli alpeggi del Cusna in estate, d’inverno le pecore erano
condotte a svernare nelle “maretime” di Toscana e qui, sia per la cessione
della lana che per la vendita del formaggio, i pastori entrarono in stretta
collaborazione con i banchieri locali. Per sostenere questo forte circuito
economico, nacque appunto il Monte dei Paschi. “Nel XV secolo prevale
l’organizzazione così detta della “compagnia di pecore”: c’è chi mette il
capitale (e possono essere anche più persone) e chi lo conduce, cioè il pastore
vero e proprio, detto allora pecoraio (pegoraro). Chi mette il capitale (…)
generalmente è un nobile o un borghese che ha disponibilità di contante o che,
comunque, riscuote la fiducia del banchiere o del prestatore di denaro.”
È una bella finestra su quei
tempi e quei luoghi, abitati da migliaia di pecore e altri animali al pascolo,
la lettera al Reggimento del novembre 1442 in cui Giacomo Tirimbochi racconta
le vicende di Sparapan e Simone di Bertoluzzo, “capitalisti”, che costituiscono
una compagnia di pecore con un certo Zuntello di Butignana (pecoraio, anzi:
capo pecoraio, cioè vergaio) e affittano un terreno per il pascolo a
Castiglione della Pescaia da un certo
Nicolao. Sparapan e Simone porteranno poi via le loro pecore senza pagare
l’affitto al padrone dei campi e in prigione finirà il solito poveraccio: un
certo Cristoforo del Casale di Quara, semplice pecoraio.
La nascita dei primi archivi risale
più o meno al secolo XV, quando Stati e regni europei cominciarono a dotarsi di
un apparato, più stabile e complesso, costituito da organi centrali e
periferici per l’espletamento di varie funzioni. Il documento d’archivio,
quindi, non è solo un’altra fonte
storica utile alla comprensione di un evento, ma assume un più grande
significato, rappresentando la visione di un evento da parte di un organo
ufficiale del regno/stato, com’è per le lettere raccolte e studiate da
Giovanelli.
L’introduzione al libro termina
con questo auspicio che sa tanto di speranza: “E mi auguro che ulteriori
ricerche di giovani di buona volontà trasformino questi squarci furtivi in
quadri e panoramiche di ben più ampio e soddisfacente contenuto.”
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