“Il sapere piccolo” di Normanna
Albertini, Garfagnana Editrice, è un libriccino di 119 pagine (12 euro) che può
essere definito uno scrigno in cui sono riposte graziose fotografie di una
Emilia che in gran parte non esiste più, un tentativo, tra l’altro
magistralmente riuscito, di conservare la tradizione e allo stesso tempo i propri
ricordi che per l’appunto appartengono a un tempo che via via si è andato
sbriciolando. La penna della Albertini, come una paziente mano materna,
raccoglie queste briciole di pane dalla tovaglia per evitare che vengano
gettate nel rusco, per lanciarle invece nella stia così da salvarle in un ciclo
che alimenti l’anima non solo dei figli di quella terra, ma un po’ di tutto il
nostro bistrattato paese. Un’immagine per davvero bucolica, poetica, ed è
questo lo stato d’animo in cui si troverà il lettore che voglia affrontare
questa piacevole lettura.
Questi racconti sono dieci
dipinti, dieci storie di una tradizione contadina in cui il rapporto tra l’uomo
e la terra assumeva il sapore e le sembianze di una ritualità arcaica, da una
parte, e di una vera e propria epica,
dall’altra. Ad esempio, l’uccisione del porco viene riportata non solo
in tutti i suoi passi rituali, ma introdotto dal racconto dell’arrivo dei
maslin “non era il padrone del signor maiale a dargli la morte, erano i
“maslin”, esperti macellatori che, in quel periodo dell’anno, andavano di casa
in casa con tutto il loro armamentario di macchine da macinare (a mano),
coltellacci, coltelli per scannare (“al burcaj”), che poi era un lungo
punteruolo, coltelle e coltellini per tagliare e radere, perché il maiale
andava pure depilato!” – pagina 25.
Il talento e la sensibilità
della Albertini rendono piacevole questa lettura al più convinto degli
animalisti.
Questo fantastico recupero della
memoria viene effettuato – quasi si snocciola con magistrale eleganza – su di
un tesoro di conoscenza che si potrebbe definire binaria: il sapere e il
sapore. Scrive l’autrice a pagina 14: - Come non ricollegare, a questo punto,
il nome “sapa” al concetto classico del verbo latino “sapio?” Dal latino
volgare “sapere”, dal latino classico “sapere”, “sapere” significa, infatti,
etimologicamente, “avere sapore”. Il sapere è qualcosa che, dall’esperienza dei
sensi, dal sapore, dalla bocca, dalla lingua, sale fino alla mente e diventa
pensiero, notizia, riflessione; tuttavia: “Il sapere partito dalla lingua, alla
lingua deve poter ritornare, e chi non può esprimere bene quello che sa è come
se non sapesse” (Giuseppe Manno). Quante volte ho sentito i vecchi dire “non sa
né di me né di te”, che significa persona insulsa, di poca sostanza e poco
interessante; una persona che non solo non ha sapore (né saperi) ma è pure
incapace di stringere e coltivare relazioni, amicizie, amori.
L’Albertini non si è limitata a
registrare le usanze del passato, bensì anche i primi cambiamenti di quella
società. Ed è qui che forse la sua penna diventa un po’ più graffiante,
comunque esilarante. “E per fortuna che li avevano escogitati, i collant, e ci avevano liberate,
noi ragazze, dal tormento del reggicalze; che sarà stato anche sexy, però
fastidioso e scomodo lo era da morire” – pagina 127. “Andavamo in giro in
minigonna con assoluta naturalezza come, con altrettanta naturalezza, quando
arrivò l’atroce novità dei pantaloni a vita bassa, strettissimi, tanto stretti
che dovevi sdraiarti sul letto per chiudere la cerniera lampo, uscimmo tutte
con la pancia nuda e la maglietta striminzita toccante appena la cintura”. Con i maschietti è andava anche più a fondo:
“… e i maschi, fasciati nei pantaloni a zampa d’elefante beige (i colori del
periodo erano nocciola chiaro, il grigio cenere, il marrone cammello, l’avana),
sempre a vita bassa, incollati alla pelle fino all’assurdo, probabilmente
rischiavano di autoevirarsi ogni volta che si piegavano, poveretti” – pagina
108.
È veramente un bel libriccino e
ne consiglio la lettura.
Gianpaolo Ferrara
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