Io, gli Etruschi credevo si fossero estinti. Invece, quando arrivai per la prima volta a Costa de’ Grassi, ne vidi parecchi nella classica posa da sarcofago: semisdraiati, con il capo sostenuto da una mano e il gomito poggiato a terra. Semisdraiati nelle piazzette, nelle aie, agli angoli delle strade. L’impressione fu proprio quella: direttamente dai secoli remoti – e dai libri di storia – gli uomini di Costa si ristoravano discorrendo nell’identica posa dei Romani (o degli Etruschi) sul triclinio (e sul sarcofago).
Emilio, in particolare, giù a Ferdana, all’inizio del paese, aveva corporatura e volto identici a quelli delle antiche statue, oltre alla precisa sistemazione semisdraiata. Ti accoglieva quest’immagine, quando arrivavi a Costa. Insieme alle figure di uomini che camminavano a passi lenti, con la giubba buttata sulle spalle a mo’ di mantello, il cappello di feltro in testa e le mani dietro la schiena, che non se ne vede più di gente camminare così.
Luigi Zannoni, alto, leggermente curvo, magrissimo, piccoli baffetti e occhi buoni, camminava in quel modo, in silenzio, e sembrava un filosofo in raccoglimento. Per quanto, le mani sul dorso (lasciando il torace non protetto), credo che significhino assenza di paura, apertura, tranquillità. Forse per questo oggi più nessuno cammina così. Forse perché tutti hanno paura.
Ti accoglievano inoltre le pecore: greggi abbondanti di pecore; tante greggi, tante pecore e capre, tanti cani ad accudirle, perché c’erano ancora diversi pastori, allora, in paese.
E le greggi fungevano da decespugliatore bio: i bordi delle strade, le siepi, persino gli improvvisati giardinetti davanti alle case, venivano sistematicamente ripuliti dai denti forti delle capre che strappavano via tutto, rose pungenti comprese.
La presenza di tutti quegli animali brucanti aveva reso obbligatorio recintare tutto il recintabile: campi, orti, cortili delle case; in dialetto si dice “sciòndre” (cingere? Chiudere?).
Così, gli uomini, ogni tanto, partivano armati di “stropetti”, roncola, rami di nocciolo e andavano a controllare le recinzioni dei campi, chiudendo tutti i buchi per impedire alle greggi di esondare ed estirpare fino all’ultimo filo d’erba. E quando succedeva, quando il pastore (fingendo?) non vedeva le pecore penetrare nei campi altrui, erano guai: grandi litigate, anche qualche querela.
E pensare che i pastori son quelli che Gesù Cristo ha voluto accanto per primi alla sua nascita…
Con tutti quegli animali, ovini, caprini, ma anche bovini, a Costa ti dava il benvenuto l’odore del letame, ammucchiato in concimaie un po’ ovunque; ma io dico sempre che l’odore del letame è odore di lavoro, di impegno, di buon cibo; in fondo è odore di parmigiano. Molto peggio sono gli odori inutili e improduttivi, desolanti, di certi altri luoghi e persone di oggi.
Non per niente, “pecunia” e “peculium” (il denaro) derivano da “pecu” e “pecus” (il bestiame) e “lieto” “laetus” deriva da “laetamen” (il letame), che è “ciò che rende rigoglioso e fertile il terreno”.
Per quanto riguarda la quantità del letame in giro, Costa era di sicuro luogo “fertile e rigoglioso”, non c’è dubbio! Certo che arrivare a Costa, pure negli anni Settanta, non era una passeggiata.
C’era la strada – per fortuna: fino a due decenni prima il paesello era servito unicamente da una mulattiera – ma era solo inghiaiata, piena di buche e soggetta a frane; una sorta di serpente sinuoso e altalenante che scorreva tra i campi argillosi (e franosi); addentrarsi dentro quel serpente significava mettere a dura prova sia la mia povera Cinquecento, sia il mio stomaco e le mie vertebre (e fondoschiena). Ma prima era stato sicuramente peggio.
Prima, gli abitanti dovevano per forza arrivare a piedi fin sulla statale – e nel fango, quando era brutto tempo – trasportando pacchi e valigie in spalla. E con le scarpe in mano, per non sporcarle.
Mi raccontava la maestra Ines Ghirelli Cavalieri – scomparsa da pochi anni, originaria di Leguigno e sposata in quel di Frascaro – di aver insegnato a Costa per un periodo e di essersi recata là a piedi, come tutti, trasportando la sua valigia con la biancheria e le cibarie (scorta per la settimana che avrebbe trascorso ospite presso una famiglia). E le era andata anche bene, perché le colleghe destinate a Succiso, una volta arrivate alla fine della strada, si ritrovavano tutto un monte fitto di oscure boscaglie da attraversare a piedi per raggiungere il paese.
Grande capacità di adattamento, le maestre di una volta, che non era facile ritrovarsi sole in quegli sperduti paesini di montagna. Ebbene, diceva Ines che un inverno le capitò di doversi fermare per ben due settimane di seguito a Costa senza rientrare a casa, forse a causa del maltempo, e che le riserve mangerecce s’erano così esaurite. Non avrebbe saputo come nutrirsi se un pastore non le avesse gentilmente offerto una formaggetta: “Mangiai per tutta la settimana pane e formaggio”, disse Ines, “e riuscii a resistere fino al sabato successivo.”
Anche partorire, a Costa poteva essere un dilemma, se c’era bisogno dell’ospedale.
Capitò, infatti, che Tognina, la madre di mia cognata, quando si trovò in pieno travaglio e la neve aveva completamente isolato il paese, venne caricata su una “traggja” (una slitta), in una “benna” riempita di paglia (una specie di enorme cesto che serviva per il trasporto dei generi più vari) e venne, a passo d’animale, trascinata fino a Castelnovo ne’ Monti, dove nacque il suo ultimo figlio, Alberto. Ed eravamo intorno alla metà degli anni Cinquanta.
Un luogo isolato, Costa; un luogo a suo modo rude, selvatico. Eppure, la gente non era stanziale, chiusa e immobile entro i propri confini come si potrebbe immaginare. Eh no, lo diceva spesso mia suocera che loro erano andati un po’ tutti “per il mondo”.
Un po’ tutti nomadi per necessità, per miseria, per desiderio di migliorare le proprie condizioni economiche, da Costa la gente si era sempre spostata, e molto.
Verso la Garfagnana i mercanti di bestiame, per esempio.
Ancora oggi, fatevi un giro tra Piazza al Serchio e San Pellegrino in Alpe, fermatevi nei paesini a parlare con le persone e dite che siete di Castelnovo ne’ Monti; immediatamente vi replicheranno: “Ah sì? Io conosco un commerciante di quei posti, un certo Ielli!” “Carlo Ielli detto ‘Mezzanotte’?” “Sì, proprio lui!”. Ecco: Carlo Ielli è uno di Costa de’ Grassi con cui ha buona familiarità persino il piccolo Pacetto, gestore del bar vicino al santuario di San Pellegrino.
Che poi la storia del nomignolo “Mezzanotte” è quasi una leggenda e davvero stento a crederla: tre fratelli e un letto solo in una sola camera, quand’erano piccoli, per cui dovevano necessariamente fare a turni per andare a dormire; Carlo ci andava a mezzanotte… Ora, dopo una vita di lavoro e risparmio, di letti e camere i tre si potrebbero permettere interi alberghi.
Sicuramente, si spostavano da Costa, verso le pianure e le zone di mare, anche i pastori; si spostavano verso le città (Genova e Milano soprattutto) le donne che andavano a balia o a servizio, e verso la Francia tantissimi altri, uomini e donne, ma talmente tanti che qualcuno, addirittura, s’era conosciuto e sposato là, a Marsiglia, a Grasse, e qualcuno c’era pure nato.
Qualcuno sicuramente c’era morto; qualcuno si era trovato perfino coinvolto nei fatti di Aigues Mortes, cittadina nella Francia meridionale, sulle Bocche del Rodano.
Un certo Grisanti di Costa, infatti, pare che abbia fatto parte di quella colonia di operai italiani che avevano trovato occupazione nelle saline di Perrier e Peccais. Gli italiani erano allora preferiti ai francesi perché erano disposti ad accettare paghe inferiori pur di poter lavorare, come succede oggi per gli emigrati africani, indiani e compagnia bella.
Insomma: niente di nuovo sotto il sole, quando si tratta di emigrazione per fame. Fu a causa del solito episodio di poco conto che scoppiarono i disordini a cui prese parte il Grisanti e, la mattina del 17 agosto 1893, oltre cinquecento francesi infuriati attaccarono i ricoveri degli italiani.
Cominciò così una colossale caccia all’italiano, che mise a soqquadro la cittadina di Aigues Mortes e i suoi quartieri periferici al grido di “A morte gli italiani! Viva la Francia e morte all’Italia! Fuori gli orsi italiani!”
Furono uccisi i lavoratori italiani a decine; il governo francese fu ritenuto colpevole di non aver bloccato il massacro e di non aver, in seguito, condannato nessuno dei responsabili del pauroso eccidio. Pare che quello sia stato poi uno dei motivi che spinse l’anarchico Sante Caserio a uccidere il presidente francese Carnot, colpendolo al cuore con un coltello.
Chissà se gli emigrati di Costa in Francia avranno conosciuto il Caserio… Di fronte al tribunale che lo condannò alla ghigliottina, tra le altre cose aveva detto: “La patria non esiste per noi poveri operai. La patria per noi è il mondo intero… voi siete i rappresentanti della società borghese, Signori giurati; se voi volete la mia testa, prendetevela; ma non crediate con questo di arrestare la propaganda anarchica.” Bel tipino davvero. Peccato averne perso la memoria: ci avrebbe aiutato a leggere con maggiore consapevolezza il presente.
A Costa, anche i preti dovevano arrivare a piedi quando gli veniva assegnata quella parrocchia; il nuovo pretino si fermava al Terminaccio e lì arrivava un parrocchiano con un carro per i bagagli a prelevarlo. E alla domanda dell’inconsapevole presbitero sul livello di religiosità dei nuovi parrocchiani, una volta l’improvvisato taxista dal biroccio rispose: “Dio… (qui e là e sotto e sopra…), certo che siamo credenti, signor parroco, certo che veniamo messa!”
E per il dottore? In genere, era l’ammalato a recarsi dal medico ma, se c’era bisogno di far venire il dottore, questi doveva per forza di cose montare a cavallo e così, cavalcando, il dottor Baroni o il dottor Campanini raggiungevano i loro pazienti.
Si partiva a piedi, da Costa de’ Grassi, anche per scendere in pianura a vendere le castagne, in autunno; anzi, no: a barattarle, in un primo momento, con il granoturco.
Veramente, io avevo scoperto la cosa quando ancora non ero sposata. Era successo che un lunedì mattina ero scesa a Reggio in Cinquecento con il mio moroso (che lavorava giù, alla Bertolini, e si fermava a pensione, come molti altri ragazzi della montagna) e, sul sedile posteriore della piccola utilitaria, avevo notato un sacco. “Cosa sono?”, gli avevo chiesto, “Castagne, mezzo quintale di castagne che ha raccolto mia mamma.”. Mi aveva poi spiegato che le avrebbe vendute, scendendo verso Bagnolo, verso Santa Vittoria, dove ancora le persone uscivano a fare due chiacchiere sulle piazze e sulle strade; bastava fermare la macchina, aprire la portiera e chiedere se volevano delle castagne. Disse che riusciva a venderle tutte in breve tempo e che, a volte, doveva raccontare la bugia che le aveva raccolte sugli alberi, perché l’idea che fossero cadute a terra non andava tanto a genio ai “pianzani”. Aveva proprio ragione, mio padre, quando sentenziava – forse preoccupato, vista la provenienza del mio moroso – che quelli di Costa eran tutti un po’ “tragattini”!
In ogni caso, si partiva a piedi, prima dell’avvento dell’automobile (e della strada) per vendere le castagne; si partiva con un carretto, carico di sacchi, tirato da un asino o da un mulo e si scendeva, pian piano, verso Reggio e poi verso il Po e persino oltre, avventurandosi nelle zone del Mantovano e del Cremonese.
Unico albergo: le stalle, dove l’animale da tiro trovava cibo e acqua e l’uomo poteva riposare – al caldo sviluppato dalle bestie – in un angolo, sul fieno. Un viaggio lungo, che terminava soltanto quando i sacchi s’erano svuotati delle castagne e riempiti di mais.
Ci andava anche Jusfin “di Vescle” a baratto, sfidando freddo e neve, vestito solo con giacca e pantaloni e il cappello di feltro in testa; partiva a piedi con il suo carretto a due ruote tirato dal mulo verso la lontana pianura. Quella pianura che, parole di Jusfin, aveva sempre sfamato la montagna. Pare impossibile, paiono cose da medioevo, ma è roba di solo pochi decenni fa.
Jusfin si chiamava Giuseppe Ielli, era della famiglia Ielli “di quelli dei Vescovi” (“di Vescle”, in dialetto), gente che aveva tutta una mitologia alle spalle che merita di essere raccontata.
Alto, magrissimo, i capelli di un nero ebano impressionante anche a ottant’anni, folti e ondulati, la pelle molto scura e il naso tipico delle popolazioni persiane – lungo, sottile e adunco – Jusfin, se si fosse messo una khefia in testa, sarebbe stato facilmente scambiato per un arabo.
Lo chiamavano “il moro”, infatti, o anche “il greco”. Jusfin era il padre di mia cognata.
Andava a baratto fin dalle parti di Viadana e di Casalmaggiore e, anno dopo anno, aveva stretto amicizia con diverse famiglie laggiù; conosceva ogni paese, ogni cascina; sapeva dove fermarsi, dove trovare accoglienza e aiuto.
Successe poi una cosa strana, uno di quei fatti che imputiamo al caso, ma che sanno tanto di evento soprannaturale. Successe che, quando mio cognato venne ricoverato in ospedale a Milano per un problema che si trasformò, purtroppo, in tragedia, portandoselo via per sempre (e che cambiò il mio sguardo sulla vita per sempre), in ospedale con lui c’era una signora di Casalmaggiore; la figlia, Luisa, e il marito, Umberto Chiarini, strinsero amicizia con mia cognata e, negli anni successivi, spesso vennero a a Costa per qualche settimana, lì, nell’aia dei “vescovi”.
Furono di grande aiuto e conforto per mia cognata Emma; furono, per lei, come un fratello e una sorella, persone meravigliose capaci di amore incondizionato.
Umberto era un ambientalista convinto ed era stato il primo, negli anni Ottanta, a creare un “Movimento antinucleare”, attivo per tredici anni, la cui storia è documentata nel suo libro “La bassa contro l’atomo”.
E proprio Jusfin si è ritrovato immortalato in una foto e consegnato alla storia nel libro di Chiarini: è lì anche lui, nel corteo della manifestazione antinucleare, a fianco di uno striscione. Per mano, Jusfin tiene Damiano, uno dei quattro figli di Chiarini. Purtroppo, Umberto si è spento giovedì 16 giugno 2011, stroncato da un infarto, dopo aver festeggiato il quorum al referendum che ha cancellato l’ipotesi del nucleare in Italia.
A Costa, l’usanza di definire le appartenenze famigliari con “quelli di…” c’è ancora; c’erano (e ci sono), perciò, “qui dal Catirùn”, “qui ad Iorie”, “qui ad Marcùn”, “qui ad Mingarìn”, “qui ad Bigarel”, “qui di Vescle”, appunto, e via così.
Impiegai non poco tempo a far corrispondere le varie denominazioni con i cognomi e i volti delle persone, ma alla fine, bene o male, imparai. La famiglia di mio marito erano “qui ad Iorie”, cioè i Corsi Iori, da non confondere con “qui dal Catirùn” che erano soltanto Corsi, senza doppio cognome.
E “il Catirùn”? Pare che fosse una donna: una grande Caterina, insomma, forse un po’ sovrappeso.
Quando domandai il perché della denominazione “vescovi” legata alla famiglia di Jusfin, con mia grande sorpresa mi venne narrata la più incredibile delle leggende.
Eccola. Arrivarono a Costa, in tempi remoti, dei vescovi greci (qualcuno dice macedoni) con le loro famiglie, e lì si stabilirono. Erano fuggiti da qualche persecuzione? Chissà. Profughi, erano giunti din sui nostri monti. Fatto sta che avevano portato con sè un enorme libro sacro, preziosamente miniato e rifinito con oro vero, forse un messale. Lo tenevano nascosto, questo libro, e solo qualcuno aveva potuto vederlo; poi, però, era sparito. La famiglia mantenne, nel tempo, la denominazione “dei vescovi”, ma il ricordo delle origini si perse per sempre, così come il libro pregiato e misterioso.
Sì, probabilmente è tutto inventato, ma i lineamenti e i colori di Jusfin qualche punto a favore di una veridicità del racconto lo danno!
Oggi, nell’aia dei “vescovi”, Cristian, uno dei nipoti di Jusfin (scuro come il nonno, a dire il vero, e suo fratello Kevin ancor di più), ha un allevamento di cane lupino dell’Appennino, un’antica razza autoctona – la più antica? – di cane da pastore da lui recuperata prima che si perdesse per sempre come le antiche leggende sulla sua famiglia.
Per quanto riguarda l’ostico dialetto del luogo, invece, c’erano due modi di dire che subito mi avevano messo in difficoltà, appena sposata e arrivata in quel di Costa; uno era il “Dio perdoni mio padre” o “Dio perdoni mio nonno” e via di seguito.
Non capivo questo intercalare, poi, pian piano, convenni che si trattava dell’equivalente del “fu” e riguardava un parente defunto. Insomma: invece di dire “Il mio povero padre”, come si usa qui in media montagna, si diceva “Dio perdoni…”.
L’altro riguardava il sostantivo “barba” legato a un nome.
Barba Gian? Che voleva dire? Barba ‘Dam? Boh! Mia suocera mi spiegò che il “barba” ero lo zio… “L’è minga roba de’l Barba”, col significato di “non è roba da buttar via” si usava anche a Milano, ma che ne sapevo io?
E pure a Genova pare fosse in auge “il barba”, tuttavia, per me era un termine nuovo e oscuro. “Barba” per “zio” secondo alcuni ha origini latine, altri studiosi pensano a un’origine germanica. “Barba” erano stati anche i predicatori valdesi che avevano percorso il Nord Italia, ma io, quando sentii una signora raccontare a mia suocera del “barbagian”, ci misi un bel po’ a capire che si trattava dello zio Giovanni e non di un uccello notturno.
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