Ma dovevo arrivare a Costa de’ Grassi per vedere una donna condurre una motofalciatrice con la stessa grinta con cui un torero afferra il toro per le corna e lo stende?
Cresciuta in un paesino di campagna – e di montagna, che è qualcosa di ancor più impegnativo – credevo di aver visto le donne svolgere ogni attività possibile, in casa e fuori. Ma guidare una macchina da segare l’erba no, mai.
Le avevo viste nei boschi a sostituire gli animali da soma: come muli a trainare fuori, su pendii a picco, enormi pali di castagno che sarebbero poi stati venduti; uno dei tanti modi per ricavare qualcosa in più anche dal castagneto.
Nei campi, con vanga e zappa, insieme agli uomini, a rivoltare il terreno e frantumare le zolle.
In mano la falce messoria, chine sulle spighe di grano, avevo poi visto le donne mietere, con il sudore che filtrava dal fazzoletto sotto il largo cappello di paglia e le calze pesanti tirate su fin quasi alle ginocchia per difendersi dallo strame affilato.
Che l’immagine serena e giocosa della mietitura dei film e delle rievocazioni degli antichi mestieri fa a pugni con i volti bruciacchiati dal sole, incisi precocemente dalle rughe e segnati dalla fatica; volti subito adulti, perché non c’era possibilità di rimanere adolescenti.
Negli odierni duplicati d’un mondo che non c’è più, l’abbigliamento delle figuranti e antistorico: bluse bianche ben stirate, gonnelloni a fiori, grembiulini di pizzo, cappelli con fiocchi di raso e scarpettine o sandaletti da città.
Nemmeno per andare a messa si sarebbero vestite così, le contadine. Anche perché avrebbero valutato come pacchiani e zingareschi tali indumenti! Il decoro era tutto per i poveri, un tempo. Poveri, ma dignitosi sempre. Non si sarebbero mai fatti fotografare con vestiti in disordine e capelli spettinati. Di abiti “dalla festa”, in genere, ne avevano uno, ma molto distinto, mentre nei campi si andava con roba pezzata e ripezzata, rammendata, rimediata.
Sempre con il fazzoletto ben stretto sul capo (non come ornamento, ma perché i capelli non assorbissero odori e polvere), le donne erano in stalla, ogni mattina – già alle quattro – e sera, piegate, fin da bambine, a spremere le mammelle delle vacche (e il suono metallico del latte che sprizzava nel secchio era ritmato e veloce, mentre le dita, assorbendo l’umidità, preparavano l’artrite e le deformazioni ossee della vecchiaia tipiche di quasi tutti i contadini).
Prima dell’avvento delle macchine agricole, verso il ’68, donne e uomini erano a caricare il letame sui birocci e sui cassoni, subito dopo la mietitura, e poi a tirarlo giù, con quei forconi dalla punta ricurva, depositandolo in cumuli neri: irregolari piramidi disseminate ordinatamente sul terreno riarso, dove era stato falciato lo strame e dove poi, una volta disteso tutto lo stallatico, si sarebbe arato. E non era certo l’odore quel che tormentava (che quando ci si è immersi non lo si sente più), ma era il peso: il letame è vero piombo e spostarlo, tutto a mano, richiedeva una fatica spropositata, in ogni caso non evitata alle donne.
Credevo di aver visto e conosciuto, dalle mie parti, tutti gli sforzi e i compiti che una donna figlia dei campi (e dei monti) poteva sostenere.
Anche le donne di Costa de’ Grassi, per la verità, lavoravano tanto, nonostante trovassero il modo e il tempo per fermarsi in gruppetti qua e là per il paese a chiacchierare; qualche sedia fuori dalla porta di casa, un sedile di pietra ed ecco creato un informale centro di aggregazione cui aderivano pure gli uomini.
Però, sì: nonostante le chiacchiere, lavoravano, e lo scoprii subito, appena andai ad abitare lassù.
Oltre a quelle occupate in ospedale a Castelnovo ne’ Monti, molte di quelle signore, nei decenni precedenti, erano emigrate ancora bambine (o appena adolescenti) nelle grandi città del nord Italia o perfino all’estero.
Parlo di bambine di otto, nove anni andate “per serva”. Che voleva dire subire e sopportare fatiche disumane e angherie di ogni genere. Provate a immaginare cosa significava arrivare in case dove andava tirata la cera sui pavimenti con lo spazzettone di ferro, la famosa “galera”, quando le poverette, nelle loro abitazioni, se avevano il pavimento era di mattoni grezzi o di pietra.
Dico “se avevano il pavimento” perché, ancora negli anni Cinquanta, in molte case dell’alta montagna usava il pavimento di terra battuta.
Lo raccontava Carmen Borlenghi Delindati, una signora che, nel 1949, a 23 anni, trascorse le vacanze estive in quel di Cervarezza Terme, a una manciata di chilometri da Costa de’ Grassi.
Giunta lassù, si ritrovò a vivere la villeggiatura in due stanze: una cucina, provvista di fornellino a carbonella, col pavimento di terra battuta, e una camera al primo piano con un letto matrimoniale e un lettino. Non c’era, ovviamente, il bagno e l’acqua si doveva andarla a prendere alla fontana.
La sera, per dormire, un mucchio di paglia buttato in un angolo della cucina, perché il letto era destinato alla famiglia con cui era partita. Telefonare a casa era quasi impossibile e non c’erano mezzi di trasporto per poter tornare alla svelta. Si fermò e, in ogni caso, si trovò bene, perché ci tornò ogni estate per tutta la vita.
Cervarezza è oggi un bel centro, ordinato, pulito, con case nuove o ristrutturate, ma allora la strada era “bianca”, percorsa da greggi e vacche che andavano e tornavano dal pascolo e c’era uno spazzino con il carroccio che si affannava a ripulirla, dopo il passaggio delle bestie, onde evitare che la corriera, transitando, schizzasse gli escrementi sui muri e sulla gente.
C’era il lavatoio per lavare i panni; tuttavia, spesso ci si doveva mettere in fila, perché i sei posti erano tutti occupati. Affittare le case ai turisti era diventato un modo per raggranellare un po’ di soldi e, in fondo, ai clienti interessava stare al fresco. Così, bastava una cucina senza pavimento, camera con letto matrimoniale, una turca in comune con altri, il “lavabo” con brocca e catini per lavarsi “a pezzi” e il lavatoio fuori per il bucato.
Le nostre ragazzine montanare che in quegli anni migravano provenivano da quelle abitazioni.
Probabilmente nemmeno sapevano che un pavimento si poteva lavare con lo straccio, abituate a spruzzare l’acqua sui mattoni e a spazzarli poi energicamente con una scopa di saggina per eliminare lo sporco. Probabilmente avevano abitudini igieniche che oggi farebbero inorridire, dettate dal dover risparmiare l’acqua, o dal fatto che gli abiti erano insufficienti per poterli cambiare in continuazione e lavarli come facciamo ora, oppure, ancora, dalla mancanza di sapone.
Ci pensò bene bene, mia suocera (ragazzina, forse dodicenne), rimasta sola a casa con il padre – una volta che tutti erano emigrati – quando si trovò a spazzolare per l’ennesima volta, come le era stato insegnato, i pantaloni del genitore. Si faceva così a pulirli: spazzola inumidita, aceto o, per chi poteva, la “benzina” e tanto unto di gomito.
Era la “rinfrescata”, poi i pantaloni (e le giacche) venivano stirati con il ferro con le braci e si riponevano, una volta asciutti, nell’armadio. In realtà, il ferro li sterilizzava.
Gemma ci pensò bene, afferrò i pantaloni del padre, si recò al lavatoio con un pezzo di sapone e la spazzola e li lavò. Che scandalo!
Ebbe subito addosso le critiche delle donne anziane, le quali le sbraitarono che no, non si faceva: i pantaloni non si potevano lavare, perché si rovinavano. Ma lei li stese ad asciugare, li stirò e dimostrò che, facendo così, ritornavano come nuovi. L’ingegnosità di queste adolescenti, che avevano sì e no la terza elementare, era unica. Arrivata diciassettenne a Milano “per serva”, mia suocera si trovò, una sera, a dover preparare una cena a base di pesce.
Pesce? E quando mai aveva visto un pesce fresco, a Costa de’ Grassi? Non avendo la più pallida idea di come si cucinasse, pensò, semplicemente, di lessarlo.
Poi, però, le venne un dubbio: avrà mica avuto le budella come le galline, il pesce! Allora, disperata, telefonò (nelle case signorili di città il telefono c’era) a una paesana che era a servizio lì vicino, chiedendole spiegazioni. Poi, pulì delicatamente il pesce già cotto con un coltello, lavò bene l’interno con il succo di limone, preparò una bella maionese, delle verdure cotte di diversi colori e compose il piatto di portata.
“Gemma, sei stata bravissima: non ho mai mangiato un pesce così saporito”, le disse il padrone.
Ecco: non c’erano però solo le ragazze costrette a emigrare; c’erano le ragazze e le bambine che, almeno per un periodo, rimanevano a casa sole a badare alla famiglia come donne adulte, svolgendo tutte le incombenze domestiche.
Da ricordare che la legge Coppino del 1877 sull’istruzione obbligatoria faceva cessare l’obbligo scolastico proprio a nove anni, quando, almeno per i poveri, cominciava l’obbligo lavorativo.
A nove anni, i figli dei poveri non erano più minori per il lavoro.
Ho ascoltato decine e decine di racconti su queste vite di serve e balie da latte o balie asciutte, quelle che oggi chiamiamo baby sitter.
Carolina, la madre di mia suocera, nata il 7 dicembre 1882, sposatasi a diciannove anni, aveva messo al mondo sette figli nell’arco di un ventennio e, per ogni figlio, era andata via a vendere il proprio latte. In Francia, nella zona di Grasse, vicino a Nizza. Il marito, Flaminio Marzani, ha lasciato una bella foto in posa, opera di un fotografo di Marsiglia, quindi anch’egli, per qualche periodo, avrà lavorato in territorio francese. Secondo la rilevazione censuaria francese del 1889, si trovavano a Grasse 1472 famiglie italiane, per cui nel Novecento l’abitudine ad emigrare da quelle parti era già ben consolidata.
I figli di Carolina non erano stati da meno e, a uno a uno, erano partiti tutti in cerca di lavoro: Giuseppe, a nove anni, per esempio, era già a Genova e Paolo, il più vecchio, era un perfetto sconosciuto per mia suocera, che era la più giovane. Gemma non l’aveva mai visto, non sapeva nemmeno che faccia avesse.
Poi, una sera, a Genova, durante una festa da ballo, un bel giovanotto le chiese di ballare. Lei accettò e, nel frattempo, sentì qualcuno che lo chiamava per cognome e poi per nome. Mia suocera rimase interdetta e gli disse: “Allora… tu sei mio fratello Paolo! Io sono tua sorella Gemma.”
La penultima sorella, invece, Maria Isabella, bellissima, aveva seguito in Francia, a soli dodici anni, la madre Carolina e aveva poi scelto una vita libera e senza matrimonio, cosa impensabile a quei tempi, amenochè non si vivesse come una suora, e non era proprio il suo caso. Tra le cose che ha lasciato, ci sono degli spartiti musicali – aveva studiato canto – e tanti libri di narrativa in francese.
Aveva raccontato che, passato il confine, Carolina le aveva intimato di smettere di parlare in italiano e, da quel momento, le si era rivolta sempre e solo in francese, finché, pian piano, Isabella l’aveva imparato. Alla faccia di certe migranti di oggi che sono qui in Italia anche da dieci anni e non parlano una parola d’italiano!
Ma perché la Francia? Come riporta anche il volume “Storia dell’emigrazione italiana”, a cavallo del primo Novecento, le donne si recavano sempre più numerose in Francia per lavorare come cameriere, lavandaie e stiratrici nei centri di villeggiatura della Costa Azzurra e della Savoia, o per svolgere i più svariati lavori agricoli in Provenza. Dall’autunno alla primavera, donne, ragazze e bambini si recavano nella zona di Grasse per la raccolta delle olive, del gelsomino e delle violette.
E poi, migliaia di donne prendevano la via dell’emigrazione per lavorare come balie.
La balia ideale era una donna che aveva partorito un bambino sano da poco (si richiedeva da non più di due mesi, per cui succedeva che si falsificassero i certificati cambiando la data del parto se di mesi ne erano trascorsi di più). Quando arrivava nella famiglia dei “padroni”, la ragazza riceveva la divisa: ampia gonna, corpino, cuffia e colletto inamidato.
Aveva comportamenti e norme da rispettare, come quella di non coccolare il neonato assegnato ma di riporlo subito nella culla dopo averlo allattato. Forse perché il piccolo non si affezionasse troppo?
Le balie non dovevano essere troppo giovani, non al di sotto dei vent’anni, poiché si riteneva che in caso diverso non avrebbero avuto l’esperienza per occuparsi di un neonato; donne capaci di premura e attente ai bisogni del bambino, sicuramente non irascibili, non facili a spaventarsi, calme e con un carattere fermo.
Queste poverette dovevano staccare il proprio figlio dal seno, lasciarlo al latte di un’altra donna del paese o al latte di capra e di mucca e partire verso la città per attaccarsi al seno il figlio di una signora. La dura esperienza della separazione dai figli, a volte aggravata dal fatto che era difficile, se non impossibile, ritrovare più tardi lo stesso posto nel loro cuore, segnava per sempre, tristemente, la vita di queste donne.
Ma, allo stesso tempo, feriva per sempre l’interiorità dei loro figli che subivano troppo prematuramente l’abbandono.
Tuttavia, non era la donna a fare questa scelta dolorosa e a disporre del proprio corpo nel periodo dell’allattamento, ma era il marito o era la suocera a decidere che la giovane madre doveva partire. I contratti di baliatico, infatti, venivano firmati dai mariti. Le balie erano inoltre soggette a dure critiche dai soliti benpensanti: “Lasci tuo figlio per andare ad allattare i figli degli altri?”
Ma avevano altra scelta? Spesso il loro latte era l’unica risorsa della famiglia, l’unica cosa che potevano vendere per cercare di uscire dalla fame.
Certo, discorrendo con le donne che erano state migranti, si capiva subito che avevano maturato una certa consapevolezza della propria autonomia e indipendenza, in fondo la coscienza di poter compiere scelte, nella vita, che le altre mai si sarebbero immaginate.
Ma pure le donne che erano rimaste in paese e avevano visto, invece, partire i loro uomini, erano state costrette, in qualche modo, a fare un passo in più verso una sorta di emancipazione obbligata. Complici le guerre, che, insieme all’emigrazione, avevano svuotato i paesi di forza giovane maschile, le donne avevano sostituito i loro uomini nelle attività agricole, avevano mantenuto saldi i rapporti familiari e dato un minimo di stabilità all’economia della casa.
Oltre a occuparsi dei figli e crescerli da sole, avevano dovuto anche prendere decisioni, frequentare gli uffici pubblici, oppure scegliere di investire i pochi soldi che il marito spediva a casa, magari comprando un pezzetto di terreno.
Quelle che, come Carolina e come, in seguito, mia suocera (o mia nonna, dato che anche mia mamma era stata lasciata dalla madre a un anno per rivederla l’anno dopo…), erano partite per vendere il proprio latte, si erano trovate ad essere rispettate più delle giovani domestiche; ben vestite e nutrite, con carne a volontà, latte, bevande sconosciute come l’aranciata, budini di semolino, brodo di cappone, avevano imparato ad avere maggior rispetto e considerazione di sé.
Il salario mensile, che era tre volte la paga di un operaio, finiva tutto a casa, alla famiglia, ma i regali che ricevevano, come il corallo – che sembrava aumentasse la montata lattea – li tenevano per sé. Carolina, con il suo latte, quello in parte sottratto ai sette figli, aveva fabbricato casa e stalla.
Quando le migranti tornavano in paese, il nuovo “amor proprio” acquisito si scontrava con l’antica subalternità agli uomini di casa e alla suocera. No, non sarebbero mai più state le donne docili e remissive di prima. C’era sempre la valigia lì, e, quando ce n’era bisogno, perché in famiglia qualcuno non le trattava alla pari, scattava quella sorta di ricatto morale: “Guardate che io posso anche ripartire e tornare a lavorare via…”
Le balie lasciavano dunque il proprio figlio quando riusciva a digerire il latte vaccino, in genere intorno all’anno d’età, e poi allattavano per un altro anno il figlio dei “signori”. Da ricordare che, in tutto questo periodo, dovevano assolutamente evitare qualsiasi contatto con il marito perché, in caso di gravidanza, avrebbero perso il lavoro. Infatti, ad alcune, nel contratto veniva fatta aggiungere la seguente postilla: “la balia non può visitare il marito fino a quando il bambino non avrà compiuto un anno”. Per poter partire, ci voleva un certificato di autorizzazione del Podestà ad esercitare il baliatico, firmato da un medico. Quello di mia suocera è firmato dall’Ufficiale sanitario dottor Alcide Campanini, in data 21 settembre 1948: “… è sana, robusta, immune da sifilide e da altre malattie infettive trasmissibili e riunisce in sé tutti i requisiti necessari per essere una buona nutrice.”
Mi ha sempre raccontato, mia suocera, del suo ritorno dopo un anno: il figlioletto Domenico non l’aveva ovviamente riconosciuta, non capiva chi fosse e non la voleva nel letto con sé e con suo padre, implorandola, singhiozzando, di andare via.
Una sofferenza atroce per una madre, che andava a sommarsi a quelle lacrime a lungo represse che ogni balia si sforzava di trattenere per paura che liberare il pianto facesse andare via il latte.
Altre signore di Costa erano state balie o balie asciutte, bambinaie, serve.
Erano donne forti, quando le ho conosciute io, lavoravano ancora tanto e trovavano pure il tempo per sedersi in strada a chiacchierare – cosa meno consueta dalle mie parti, dove una donna, quando si sedeva, aveva sempre qualcosa da rammendare, o da cucire o da ricamare in mano, se non polli da spennare – e io, giunta lassù, credevo ormai di aver visto tutto ciò che una donna è in grado di fare con le braccia e con il cuore.
E poi vidi Ginetta. A Costa de’ Grassi, mentre, nei mesi precedenti il mio matrimonio, andavo su a pulire quella che sarebbe diventata la mia casa, un mattino la vidi, e fu perplessità.
Vidi Ginetta ed ebbi l’impressione di trovarmi di fronte una sorta di donna della prateria, di quelle che, nei film western, quando il marito è impegnato in lunghi viaggi, arano con i buoi o spaccano la legna con la scure, oltre a tenere sempre il fucile a portata di mano per difendersi dagli indiani.
Ginetta il fucile non l’aveva, ma vestiva come un uomo e, in quel momento, stava mettendosi alla guida del carretto della motofalciatrice, quella specie di trattorino rimediato che tutti usavano in paese. Il volto dai lineamenti stranamente sardi, con grandi occhi e gli zigomi ben marcati che avrebbero fatto la felicità di qualsiasi fotografo o operatore televisivo (le attrici e le modelle mica per niente se li fanno oggi montare di silicone, trasformandosi poi in mostri da incubo), i capelli neri e dritti dal pratico taglio corto, il fisico asciutto e scattante trasmettevano una sensazione piacevole di forza e di fierezza. Mi era parsa bella e coraggiosa.
La descrizione che alcuni antichi storici greci e romani fanno dell’altrettanto antico popolo dei Liguri – i nostri verosimili progenitori – si combinava alla perfezione con l’immagine di Ginetta: “Le donne sono forti e vigorose come gli uomini; gli uomini come le fiere; e si suol dire che, in combattimento, il più corpulento dei Galli è inferiore a un gracile ligure.” (Diodoro Siculo). E ancora: “Dice Posidonio che in Liguria, il suo ospite marsigliese Carmolao, gli fece il racconto seguente: aveva preso a giornata, per lavorare la terra, uomini e donne insieme. Una delle donne, colta dai dolori del parto, s’allontanò alquanto e, dopo aver partorito, ritornò subito al lavoro per non perdere la mercede. Ella aveva portato il suo neonato vicino ad una fontana, l’aveva lavato e avviluppato, recandolo poi in salvo a casa.” (Strabone). Forte, resistente, determinata come un uomo, pensai che Ginetta dovesse per forza avere qualcosa del Dna degli antichi Liguri.
Su di lei volli subito saperne di più, perciò interrogai mia suocera. Ginetta era quella della “bottega”, mi disse, una delle due “botteghe” del paese (oggi scomparse) e vendeva un po’ di tutto, pure i “sali e i tabacchi”, come si usava allora, rendendo un prezioso servizio ai paesani, principalmente ai più anziani che andavano lì a fare la spesa, invece di doversi spostare in corriera fino a Castelnovo.
Il servizio si prolungava e allargava in quello di un improvvisato “centro sociale”, visto che i clienti ne approfittavano sempre per fermarsi, sedersi lì davanti alla porta o in negozio, e scambiarsi un po’ di informazioni e pettegolezzi.
Però lei non era pettegola, lei no davvero. Non aveva tempo.
Era una donna fondamentalmente buona e disponibile, come ebbi poi modo di sperimentare in seguito, di quelle abituate a servire; di quelle che, quando troppo in là con gli anni perdono le forze, arrivano poi a dire: “Che senso ha continuare a vivere se io non servo più a nessuno?” , spiegando così, con una semplice frase, e in modo più incisivo di tanti predicatori, il significato evangelico e teologico del mettersi il grembiule e il senso vero della vita stessa: se non sai servire, non servi; se non servi, non è vita.
Infatti, ancora oggi Ginetta è un aiuto prezioso per figli e nipoti e credo che, pur stanca, il suo problema più grande sarebbe proprio non poter più fare niente.
Tornando al pettegolezzo, Primo Levi lo definiva “una forza della natura umana. Chi ha obbedito alla natura trasmettendo un pettegolezzo, prova il sollievo esplosivo che accompagna il soddisfacimento di un bisogno primario”. Lo sappiamo tutti che nelle piccole borgate il pettegolezzo sostituisce praticamente la polizia, o i vigili: una forza pubblica, un modo per controllare la vita di paese. Raccontava Esterina Fioroni, mia amica e collega, che a Casalino di Ligonchio, dove abita, c’era un tempo un’usanza terribile: “l’impulata”.
La “pula” sarebbero i rimasugli di bucce delle castagne secche dopo che, estratte dal metato, erano state sbattute con forza sulle pietre o su un tronco. Ebbene: i giovanotti del paese si prendevano la briga di pedinare le giovani spose, quelle più avvenenti, per scoprire qualche tresca amorosa.
Se scoperchiavano qualche traccia di adulterio, ne informavano tutto il paese con dei segni inequivocabili. Durante la notte, afferravano un sacco di pula e, nella neve, la disseminavano a mo’ di sentierino dalla casa della moglie traditrice a quella del suo amante. Al mattino, tutti sapevano e i due non avevano scampo. Spettava poi al marito cornuto decidere cosa fare, ma certo non poteva divorziare, visto che il divorzio non era possibile per legge.
Nei borghi come Costa de’ Grassi, il pettegolezzo era radicato e potente e forse lo è ancora; quasi una gabbia che un po’ limitava e imprigionava. Comunque, dev’essere un’azione piacevole per chi la compie, perché impicciarsi dei fatti altrui e creare maldicenza fa sentire competenti, arbitri, quindi, in qualche modo, più forti degli altri.
E più si spettegola, più le persone di un paesino si sentono controllate e cercano, in qualche modo, di adattarsi e adattare i loro comportamenti.
A Costa il peso del controllo sociale era dunque fortissimo. Se rientravi tardi di notte – non so per quale sortilegio – c’era sempre qualcuno che ti vedeva. Dalle finestre socchiuse? O riconosceva semplicemente i tuoi passi o il rumore della tua automobile? Comunque, il giorno dopo c’era l’interrogatorio: dove eri stata, come mai eri rientrata così tardi, cos’era successo e così via.
E anche quando partivi da casa c’era sempre qualcuno lì a chiederti dove andavi e cosa andavi a fare. Se non ci si è abituati, viene naturale rispondere male e tentare di isolarsi per ritagliarsi un minimo di riservatezza. Allora è anche peggio, perché quel che i curiosi pettegoli non riescono a sapere, se lo inventano.
Non accade lo stesso nelle grandi città, dove il controllo sociale si sente di meno, gli abitanti non si conoscono e non possono controllarsi, neanche tra vicini di condominio.
Tuttavia non possono e non sanno poi nemmeno aiutarsi. Si “dimenticano” in verità l’uno dell’altro. E magari sono poi i pompieri a ritrovarli cadaveri negli appartamenti, che è il colmo della solitudine.
Ginetta era pertanto quella della bottega, eppure aveva anche la stalla di cui si occupava da sola. Ginetta aveva i suoi campi e anche di questi si occupava da sola. Certo, i cognati e le sorelle, una mano gliel’avranno data, ma il grosso toccava a lei.
Ecco: una donna che portava la motofalciatrice e falciava l’erba per quelle campagne in pendio, scoscese e malagevoli, non l’avevo mai incontrata. È un lavoro spossante oltre misura e, se non l’avessi vista con i miei occhi, non ci avrei creduto. Ginetta, dunque, si alzava all’alba e andava nella stalla, poi comunque doveva anche aprire la bottega e doveva occuparsi dei due figli e della casa, poi della campagna.
Malgrado ciò, aveva i pavimenti tirati a cera, lucidissimi, e la casa impeccabile (che faceva un po’ a pugni con qualche altra casa di Costa, dove le galline giravano allegramente sotto il tavolo e le mosche si suicidavano disperate per il sovraffollamento).
Aveva alle spalle una storia tremenda: il marito morto schiacciato da una pianta mentre, nel bosco, era a fare legna; un castagno si era spezzato a metà e l’aveva investito. Ginetta era rimasta sola con due bambini. Come praticamente tutte le vedove di Costa (erano davvero tante) non si era risposata, si era rimboccata le maniche, aveva forse chiuso la sua sofferenza in un angolo del cuore perché i figli non ne fossero travolti e aveva ricominciato. Da sola.
Nella bottega di Ginetta c’era il telefono. In paese, credo ancora nei primi anni Ottanta, forse era solo lì, al bar e nell’altra bottega. Difficile immaginare per i bambini di oggi, abituati a tablet e smartphone, una vita senza nemmeno il telefono, eppure ci si riusciva senza troppi problemi. Ci si arrangiava e ci si aiutava.
A quel tempo, io ancora non ero in ruolo, lavoravo come supplente, perciò avevo lasciato all’ufficio della mia scuola il numero telefonico di Ginetta, in caso mi avessero dovuto chiamare.
E la vedevo allora comparire trafelata sulla mia porta, dopo aver lasciato qualcuno a bada della bottega ed essersi inerpicata, in fretta e furia, per la ripidissima salita fino a casa mia, per dirmi che c’era una supplenza per me.
La ringraziavo, e lei diceva che non era il caso, che non aveva fatto nulla.
Poi, un bel giorno, la mia ingegnosa figliola – di appena due anni – maturò la malvagia idea di scappare di casa. Imparai da quell’episodio che il proibizionismo non funziona, anzi: che scatena l’effetto contrario.
L’antefatto era il mio divieto di mangiare la crema spalmabile di cioccolata e i dolci confezionati cremosi e burrosi e troppo manipolati industrialmente.
In casa, la piccolina prese 500 lire (di carta) dal cassetto in basso nel comò e, senza che né io né mia suocera ce ne accorgessimo, scappò di corsa, diretta risolutamente verso la bottega di Ginetta.
Una distanza notevole, per una bimba così piccola, ma lei era fatta così e non le mancava il senso dell’orientamento. Quando Ginetta la vide entrare in negozio da sola, rimase di sasso, ma le chiese comunque cosa volesse. “La nutella!”, rispose lei, mostrandole le 500 lire. “Non posso darti la nutella”, disse Ginetta, “perché costa 750 lire e i tuoi soldi non sono abbastanza. Potrei darti il ciaocrem…”. Mia figlia s’impuntò: voleva la nutella.
Ginetta cedette, le diede il bicchiere di nutella e l’accompagnò per il primo tratto di strada fino alla chiesa, quello più pericoloso perché percorso dalle automobili, e le disse di tornare subito a casa.
La furbetta, però, si guardò bene dal venire a casa e si fermò davanti alla porta di mia cognata, accomodandosi su un sedile di pietra.
La trovammo, più tardi, completamente imbrattata di nutella, con il vasetto ormai vuoto, intenta a ripulirlo con le dita.
A volte, guardando i miei figli e meditando sul loro aspetto fisico e sul loro carattere, mi chiedo da dove vengono; da quanto lontano, nei secoli, nei millenni, sono giunti sino a noi i geni specifici, caparbi e complicati della gente di Costa de’ Grassi.
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