Al centro, Adalgisa Raffaelli |
Adalgisa Raffaelli era una bellissima ragazza dallo sguardo fiero, spalle dritte, capelli raccolti a scoprire un viso dall’ovale perfetto. Figlia di un pastore, era nata a Vaglie di Ligonchio nel 1898 ed era cresciuta a formaggio e polenta – sicuramente anche a castagne e prodotti dell’orto - una dieta che, in ogni modo, non doveva essere così sbilanciata, visto l’ottimo aspetto fisico. In famiglia erano in tanti fratelli, uno morì poi giovanissimo al fronte, durante la prima guerra mondiale. Adalgisa sapeva che, a quei tempi, per una donna le opzioni erano poche: o ti sposavi, o tentavi di andartene lontano a trovare un lavoro. Scelse la seconda e, poco più che adolescente, da Vaglie partì per Genova. Racconta Simona Sentieri, una nipote: “Oggi, gli italiani che emigrano lo fanno in aereo; allora, ci si incamminava per stradine e carraie e si arrivava in luoghi sconosciuti: altra regione, altra provincia. Anche mia nonna si avviò a piedi con alcune donne del paese per raggiungere Genova. Per fortuna, trovarono un passaggio dalle parti di Aulla - o poco prima - su una corriera che le portò fino in città. Una volta, varcare i confini tra province o tra regioni erano già trovarsi all’estero. Da quegli angoli di mondo ignoti, ci si portava a casa oggetti e usanze che qua non si conoscevano. Era una meraviglia, una sorpresa. Oggi, magari, andiamo in India e acquistiamo le sete indiane, oppure più nemmeno quelle. Il territorio, allora, era davvero piccolo e, se si andava oltre i confini conosciuti, era per trovare lavoro, ma c’era anche il desiderio di imparare… di migliorarsi.”
Corriere per il Cerreto ferme a Felina |
Le corriere attraverso il crinale
Dal volume “Radici”, che raccoglie le genealogie di quello che fu il comune di Collagna (oggi facente parte del comune di Ventasso), nel saggio curato da Pier Giorgio Ferretti, è scritto che, fino alla sostituzione con quello automobilistico - dopo il 1912 circa - il servizio pubblico di trasporto posta e passeggeri (dapprima gestito dallo Stato, poi da appaltatori privati) era effettuato da una corriera a cavalli, detta “Posta dei Cavalli” o, più semplicemente, “postale”. Il viaggio di andata verso la Toscana, destinazione Aulla, aveva inizio con la diligenza Reggio - Castelnovo ne' Monti, gestita per il tratto montano dagli Zurli, impresari e albergatori castelnovesi. Partenza dalla stazione in città alle ore 5.30 del mattino, sia d'estate sia d'inverno, secondo l'orario ufficiale delle corriere dell'anno 1906. Per raggiungere Aulla si impiegavano trenta ore, anche perché ci si doveva fermare per i tre cambi dei cavalli. All’ultima stazione, sul percorso Reggio – Aulla, una notte del 1900, mentre si recava a Fivizzano per consultare dei manoscritti, vi dormì “malamente” anche il poeta Giosuè Carducci, in preda ai fumi dell'alcol; nel dopo cena aveva trovato bevitori di toscano più resistenti di lui. In realtà, per chi abitava a Cerreto e dintorni, era più comodo scendere verso la Toscana e raggiungere le città toscane o liguri che raggiungere Reggio.
Corriere a Castelnovo |
Il diploma da infermiera
Adalgisa, a Genova, venne ospitata da una famiglia di lontani parenti genovesi. Ancora, Simona Sentieri - oggi affermata pittrice e poetessa - ci parla di lei: “La nonna si mise a studiare e divenne un’infermiera professionale. Di questo andava fiera, diceva che aveva superato l’esame con il risultato di 28 su 30, e ciò per lei era qualcosa di eccezionale. Non era analfabeta, aveva imparato a leggere e scrivere, ma aveva fatto tutto da sola, quindi, riuscire a diventare infermiera diplomata non era stata cosa da poco. Di solito, le donne che emigravano andavano a servizio, a fare le “serve”, oppure a balia; lei, invece, era riuscita a diventare infermiera. Il suo camice lo ha conservato nell’armadio fino alla morte, avvenuta a 84 anni. Questo perché ci diceva che aveva la speranza di vedere una di noi diventata infermiera o dottoressa, e allora le avrebbe passato quel camice. Ce lo mostrava, lo lisciava con le mani, poi lo rimetteva nell’armadio come fosse un vestito da sposa. Raccontava anche che, purtroppo, a volte, nell’ospedale dove lavorava, le ragazze carine e semplici come lei si trovavano a dover tener testa alle avance dei medici. Non c’erano dottoresse, le sole altre donne in ospedale erano le suore, per cui capitava che qualche dottore facesse il cascamorto con le infermiere. Ci riferiva di aver saputo di tresche tra giovani ragazze e medici sposati. Purtroppo, quello era un modo per divenire, allo stesso tempo, l’infermiera, la segretaria e l’assistente del dottore, assicurandosi il posto a vita. Di fronte a uno sgarbo di uno di questi medici, lei si ribellò e si licenziò.”
L’incontro con Giovanni e l’acquisto dell’albergo
La giovane cominciò a lavorare “in proprio”, andando in giro in città, dove la chiamavano, a fare le iniezioni. Poi, un giorno, alla fiera di San Giuseppe - che si tiene anche oggi a Bolzaneto e dove era andata a ballare - conobbe un bel ragazzo di Cerreto Alpi. “Mio nonno era nato nel 1894, si chiamava Giovanni Adeodato Sentieri ed era scalpellino; faceva anche il calzolaio ma, anzitutto, lavorava la pietra e io conservo ancora cose sue veramente belle” ci spiega Simona. “Dicevano tutti che avesse una mano sopraffina, infatti faceva i bolognini e le coperture dei muretti in pietra scolpita a mano. A Genova era andato a lavorare nei cantieri stradali ed era diventato presto capomastro di una delle squadre. I nonni si conobbero a quel ballo, si innamorarono poi decisero di tornare al paese.” Questo, però, significava inventarsi una nuova attività. Si imbatterono nell’albergo della Gabellina che, fino a quel momento, era stato gestito dagli Zavattini (sì: la famiglia di Cesare). Comprarono l’albergo pagandolo poi nel corso degli anni, assumendosi il rischio di un enorme sacrificio economico. Sempre dal volume “Radici”, recuperiamo queste notizie. La Gabellina, un tempo chiamata “Capanna”, doveva il nome alla caserma con la funzione di gabella per l'esazione del pedaggio, costruita intorno al 1832, da Francesco IV, Duca di Modena, sulla “Strada Militare di Lunigiana”. La sorella di Cesare Zavattini, Tina, nel 1930, a Cerreto Alpi sposò Clemente Sentieri, uno dei fratelli di Giovanni Adeodato, e questo legò per sempre il famoso scrittore e soggettista cinematografico al paese. Ma quando gli Zavattini presero in affitto il locale, il “pianzano” Cesare portava ancora i pantaloni corti e come cameriere dicono lasciasse molto a desiderare.
La Resistenza e la paura
Era molto intraprendente, Adalgisa, era una donna “avanti” e nell’albergo teneva lei i fili di tutto: dell’organizzazione, dei dipendenti. Durante la Resistenza, nascose dei partigiani nelle soffitte, mentre di sotto venivano le squadre dei tedeschi e si mettevano a tavola. Anche i suoi due figli, Alfredo (poi stimato professionista molto conosciuto in montagna) e Piero, erano partigiani. Lei li nascose tante volte e tante altre diede da mangiare ad altri partigiani. L’Adalgisa non chiudeva mai la porta in faccia a nessuno. Rimase vedova molto giovane, perché il marito morì a soli 45 anni, e non si risposò mai più. Continua Simona: “Mio nonno morì d’infarto. Era stato messo al muro per una notte intera insieme ad altri uomini: erano le finte fucilazioni che facevano i tedeschi per estorcere i nomi dei luoghi dove erano nascosti i partigiani. Nessuno parlava, non li uccidevano ma li torturavano, fingendo di fucilarli. Continuavano fino al mattino. Mio nonno, da quella notte non si riprese più. Cominciò a indebolirsi, a essere stanco, a patire per qualsiasi cosa; è poi morto, finita la guerra, per ‘debolezza di cuore’. Restò mia nonna, ovviamente con l’aiuto dei figli e delle loro famiglie, ad amministrare ogni cosa. L’albergo continuò ad avere molto successo: venivano villeggianti dalla Toscana, dalla Liguria e alcuni anche dal reggiano. E salivano con i carri, i cavalli e le corriere. Infine, mia nonna decise di affittare la struttura e tutta la famiglia si trasferì a Castelnovo, dove mio padre continuò a dedicarsi alla sua professione.”
Le collane di nocciole
La foto di Adalgisa (al centro) con le amiche e con le collane di nocciole era stata scattata a Genova, alla festa di San Giuseppe. Da quelle parti, durante le sagre, le fiere e i mercati, si vendevano, appunto, le “reste”, collane fatte con le nocciole. C’era l’usanza, tra i giovanotti, di regalarne una alla fidanzata che se la metteva al collo come significato di buon augurio per un felice matrimonio e come pegno d’amore. A proposito di questa consuetudine, è giusto ricordare Caterina Campodonico, donna nata nel 1804 a Genova in una famiglia poverissima. Dopo essersi separata dal marito ubriacone, per sopravvivere aveva fatto la venditrice di canestrelli e collane di nocciole. Caterina un giorno si ammalò gravemente e scoprì, con sgomento, che i parenti volevano appropriarsi dei suoi denari. Una volta guarita, pensò di far loro un bello scherzo. Commissionò allo scultore Lorenzo Orengo una statua in cui investì tutto ciò che aveva, chiedendo di essere ritratta con le “reste” e i canestrelli. Ora la statua è là, al Cimitero di Staglieno, a perenne memoria. Tornando ad Adalgisa, Simona conclude: “La nonna ci aveva insegnato a fare le collane di nocciole, ma qui era difficile trovarne a sufficienza e abbastanza grosse. Lei aveva imparato a fare le ‘reste’ a Genova e aveva mantenuto l’usanza anche nell’albergo della Gabellina. Così, ordinava i sacchi di nocciole facendoli arrivare dalla Liguria, insieme ad altri generi alimentari come la farina, che, di solito, giungevano, per comodità, dalla parte toscana del versante e non dal reggiano. Quando arrivavano le sue clienti genovesi, regalava loro le ‘reste’ per riconoscere la sua appartenenza anche alla Liguria.” Ma le “reste” avevano anche un altro significato. Nel 2017, papa Francesco era al santuario della Madonna della Guardia, dove pranzò con i rifugiati, i detenuti e i senza fissa dimora. l rettore del santuario gli regalò una grande collana di nocciole, in ricordo di quelle che, un tempo, ogni pellegrino riceveva in dono per rifocillarsi.
Nessun commento:
Posta un commento