Ci rifletteva, Caterina, mentre attizzava il fuoco, china sul paiolo agganciato alla catena.
Ne aveva parlato poche ore prima con Cesara, una vagabonda di Cavatore che girava a vendere le sue mercanzie.
«Quel cretino del re!» Era sbottata l’amica. «E ora, come faccio?»
«Bella famiglia, quella dei Savoia, Cesara. Hai sentito le dicerie che continuano a girare sull’erede di re Carlo Alberto?»
«Quelle dell’incendio?»
«Ma sì! Raccontano la storia di suo figlio salvato da un incendio, ma si dice anche che, invece, sentimi bene, eh! Si dice che il bambino sia morto…»
«Lo so, lo so, Caterina, tu hai ragione. E dicono che l’abbiano rimpiazzato con un altro, un figlio di chissà chi… parlano di un macellaio di Firenze».
«Certamente! Così, alla scomparsa di Carlo Alberto, ci ritroveremo, come re, il bastardo di un beccaio, te ne rendi conto, Cesara?»
«Loro fanno ciò che vogliono, cara mia. Però… dicono che quel macellaio sia diventato improvvisamente ricco e abbia allargato la bottega». Sospirò e si ravviò i capelli, poi continò: «Invece, io, cara mia, mi devo tenere un marito buono a nulla perché quell’altro buono a nulla di Vittorio Emanuele ha cancellato il divorzio! E a Cavatore, in collina, cosa vuoi: raccolgo nocciole, allevo due conigli, qualche gallina, ma se non girassi a vendere – e a fare le fatture, a segnare le malattie - non camperei».
Si faceva accompagnare dal figlio più piccolo, Cesara, mentre aveva lasciato a casa le bambine grandi per attendere alle faccende domestiche e al padre nullafacente. Il bimbetto, di sei anni, l’aiutava a vendere le mercanzie: filo da cucire, matasse di lana, frutta secca e collane di nocciole tostate. Dormivano nei fienili, nelle capanne, nelle stalle, spostandosi da un paese all’altro; lei, in testa il fagotto con la merce, e il bambino che le stringeva la mano. Nient’altro.
Non avevano nemmeno le mutande, che era roba da ricchi. Quando le veniva “il marchese”, la donna si adattava usando pezze di lino fermate con spille da balia. Ma era così magra che passava mesi senza vedere un goccio di sangue. Anche Caterina per mesi e mesi non aveva avuto le “sue cose”, tanto che pensava di essere incinta. Invece no: era solo la fame.
Cesara era ancor più sfortunata, avendo i figli da tirar su. Come darle torto se si disperava. In Piemonte la legge sul divorzio l’avevano abrogata sul serio e ora, l’amica, quel suo marito doveva sopportarlo fino alla morte. La sua o quella di lui. Caterina rimestava la polenta e cercava di frenare le lacrime. Si fermò e si soffiò il naso: non poteva rischiare che il moccio cadesse in quel cibo, l’unico che avrebbe mangiato anche lei. Sicuro che, al consorte, invece, avrebbe volentieri sputato nel piatto. Si pulì le mani nella sottana e riprese a mescolare. Non si poteva più divorziare, le aveva detto Cesara.
Ai re non interessava il divorzio, di amanti potevano averne lo stesso a volontà. Caterina nulla sapeva della storia passata, però aveva imparato che Napoleone, in mezzo a tutti i suoi macelli e ruberie, aveva autorizzato il divorzio. E adesso? In Piemonte - in tutto il Regno di Sardegna - non ci si poteva più separare.
La ragazza sganciò il paiolo dalla catena e versò il contenuto sul tagliere; il vapore si sparse per la cucina e lei cominciò a grattare con un cucchiaio la polenta rimasta incollata al pentolone. Raccattò lunghe strisce bruciacchiate e le mise nel suo piatto. Si sarebbe accontentata di quelle. Tempo pochi minuti e sarebbero arrivati i figli delle sorelle con le ciotole da riempire. Più tardi, il canto sguaiato del marito barcollante le avrebbe messo i brividi; ah, poterlo cacciare! Invece, lui avrebbe preteso di consumare la cena come si deve, anche se era pieno di vino, poi avrebbe tentato di combinare qualcosa a letto ma, complice l’alcol, avrebbe fallito, così, frustrato, l’avrebbe tempestata di pugni fino a cadere, esausto, sul pavimento.
La giovane estrasse un’aringa salata da una botticella di legno e la posò sulle molle del focolare, dopo aver ravvivato le braci. L’odore forte del pesce, i cui umori colavano sui tizzoni ardenti, riempì la stanza, mentre qualcuno raspò sulla porta. Lei aprì e un gatto saltò dentro, balzando sul tavolo. «Via! Via! Vai a cercare i topi, che qui non ce n’è nemmeno per noi!» E lo cacciò con la scopa. Fu poi la volta dei nipoti e, quando li ebbe spediti con le loro ciotole piene di polenta, appena strofinata con l’aringa, Caterina si sedette inattesa del marito. Sarebbe arrivato ubriaco, come al solito. Ubriaco e senza più un soldo di quelli che le aveva rubato la mattina. Il divorzio… il divorzio… In tutto il Regno di Sardegna, il divorzio non c’era più.
«A Genova sì, è possibile». Le aveva detto uno dei venditori ambulanti che venivano dalla Toscana. Sarà stato vero? Doveva informarsi meglio, Caterina.
«Guardate che a Genova il re ha lasciato in vigore le leggi di Napoleone». Aveva continuato l’uomo. «Ho conosciuto un tipo che si è separato in questi giorni dalla moglie, perché l’aveva trovata a letto con un altro».
Aveva aspettato Giovanni, il marito, tutta la notte e, poiché non riusciva a dormire, aveva ravvivato il fuoco e si era messa a impastare, per poi cuocerli nel forno, i suoi biscotti al limone, alle mele, quelli ai pinoli e i canestrelli. Il giorno dopo l’aspettava un lungo viaggio fino al santuario di Acquasanta, dove avrebbe venduto quei dolci insieme al croccante. In mattinata, aveva anche confezionato le collane di nocciole tostate e le aveva già riposte nel fagotto.
La luce rossastra dell’alba s’infiltrò tra le fessure della porta quando i suoi dolcetti erano già sistemati nei cartocci ben in ordine sul tavolo. Ma Giovanni non era tornato. Caterina afferrò lo scialle, uscì di corsa e, proprio a due passi dall’uscio, vide il marito disteso a terra: pareva morto, ma no, russava e tossiva. «Che hai fatto, questa volta?» Lo scosse forte. Una terribile zaffata di piscio, escrementi e vomito la colpì, tanto che indietreggiò tappandosi la bocca. Lui aprì gli occhi, si alzò a sedere, riparandosi gli occhi dal sole, e la osservò come se non la riconoscesse…
«Maledetta strega! Sei una strega! Sei una troia! Guarda come mi sono ridotto per colpa tua! Brutta troia… Vai via! Via!» Si alzò in piedi, mentre dai portoni e dagli usci intorno usciva una folla di curiosi. «Via! Hai capito? Vai a lavorare, maledetta, e portami i soldi, hai capito?» Continuò lui, avventandosi su Caterina e colpendola con un forte manrovescio. Lei non fiatò. Entrò in casa, prese un lenzuolo dove buttò le sue poche cose, lo legò, afferrò l’altro fagotto con i dolci, cercò la scatola nascosta dietro un mattone, dove teneva i soldi, e uscì in strada.
«Cercatene un’altra che ti mantenga, maiale!» Urlò al marito. «E non seguirmi! Non mi vedrai più». Tremila franchi! Questo aveva stabilito il giudice: Caterina, aveva dovuto versare tremila franchi al marito perché era stata lei a lasciare il tetto coniugale. Però, c’era riuscita a divorziare. Sì, Napoleone almeno una giusta l’aveva fatta e ora lei era libera.
Al momento, con altri ambulanti, stava marciando verso San Cipriano, il solito fagotto in testa e le collane di nocciole a tracolla. «Che t’hanno detto le tue sorelle?» Domandò Cesara che, nel frattempo, era rimasta vedova e s’era trasferita a Genova. «Le stesse cose che mi diceva lui: che sono una donnaccia, una puttana, che chissà con quale vero lavoro riesco a mettere insieme tante palanche, che una donna deve ubbidire all’uomo di casa e chinare la testa, non comportarsi come me». Rise: «Intanto, quel povero scemo si è già bevuto e giocato i tremila franchi, e da me non ne avrà più. Le mie sorelle sì, le aiuto: sono piene di figli… però che la smettano di darmi ordini, che io la testa non la chino!»
«Sei ancora giovane, Caterina… Magari trovi qualche buon partito e ti rifai una vita».
«Che dici, Cesara! Sono uscita da una prigione, sono libera. Me la sono già rifatta una vita. Ho sposato la libertà. E non sai come sto bene quando dormo nei pagliai e nelle stalle e so che al mattino riprenderò il viaggio verso una nuova meta».
«Lo sanno, i tuoi parenti, che riesci anche a “segnare” le malattie e a fare le “fatture”?»
«Dovrei forse informarli secondo te? Non aspettano altro che io mi ammali, o che abbia un incidente, o che muoia per mettere le mani sui miei soldi, ma sai che ti dico? Rimarranno tutti a becco asciutto!»
Quella notte, Caterina Campodonico si addormentò nel fieno di un pagliaio e fece un sogno. Una statua di marmo, tutta bianca, si distingueva in mezzo a quella dei “signori” di Genova nel cimitero di Staglieno. La statua raffigurava una vecchia signora con le collane di nocciole tostate su un braccio e un canestrello in mano. Nel sogno, si accostò alla scultura e… si riconobbe. Rise, rise così tanto da non riuscire a smettere.
«I miei soldi verranno tutti con me, andranno tutti per la statua, tutti al cimitero». Disse quando si svegliò.
con le sue collane di nocciole tostate.
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