Vincenzo
meditò di procurarsi un cane da pastore già ai tempi della capra
bianca, quella scappata sul Ventasso e diventata, ormai, una
leggenda.
Successe
una decina d’anni fa, ed è un fatto che già abbiamo raccontato:
un cane randagio spaventò la capra bianca e le altre intente a
brucare, beate, nei pressi dell’agriturismo di Rio Riccò,
inducendole a fuggire.
Se ci
fosse stato un cane da pastore (anzi: un cane da protezione, che ha
competenze in più), il randagio si sarebbe trovato in grosse
difficoltà, perché il cane da protezione non ci pensa due volte a
dare la vita per il suo gregge. Addirittura per gli asini, in alcuni
casi, negli allevamenti, presi di mira dai lupi. Ci sono infatti cani
che non aspettano indicazioni e non hanno bisogno di segnali dal
padrone; cani che sanno già cosa fare, così che non è la volontà
dell’uomo a guidarli, ma la loro.
Hanno
grande dignità, fierezza, intuizione e istintivo senso di
responsabilità.
Se
Vincenzo avesse avuto un cane simile, la capra bianca non sarebbe
fuggita.
Nobili,
indipendenti e molto equilibrati, se educati bene, sono ostinatamente
irremovibili.
Stiamo
parlando di loro, dei pastori maremmani abruzzesi; cani che in realtà
non ti ubbidiscono, ma decidono di compiacerti. Scelgono di fare come
vuoi tu, però a decidere sono loro.
Quando su
questi cani si raccontano misfatti, si tratta, in realtà, di
cuccioli ai quali è stato permesso di ascendere nella scala
gerarchica ‘di casa’, nei confronti dell’essere umano, prima
che compissero un anno di età. Mai concedergli, in quel periodo, a
detta degli esperti, di sentirsi capobranco: nel momento in cui un
maremmano stabilisce di essere il capobranco, rispetto all’amico
umano, subentrano i problemi. Invece, se cresciuti come si deve,
l’appagamento del rapporto ‘alla pari’ che dà un cane di
quella razza si dice che sia unico.
Autonomi
e un po’ selvatici, si pongono come alleati e collaboratori del
padrone, amando le pecore più del pastore e più di sé stessi,
quasi per un secolare marchio atavico conservato nel cuore.
Belli,
con il foltissimo pelo bianco - così simile al vello delle pecore -
quando sono sdraiati a sorvegliare il gregge, distaccati e pacifici,
li si percepisce del tutto integrati nella natura, come un
qualsiasi animale selvatico. I loro occhi neri con il taglio a
mandorla, un po’ orientali, paiono narrare storie arcaiche. In
effetti, il cane da pastore maremmano abruzzese e il patou, o pastore
dei Pirenei, (quello del romanzo e poi film ‘Belle e Sebastién’)
non sono altro che una derivazione di un altro antico cane da pastore
(per millenni meticcio) che da un po’ di anni è stato riconosciuto
dalla ‘Federazione cinofila internazionale’ con il nome di ‘cane
da pastore dell’Asia centrale’.
Quella
del maremmano abruzzese è davvero una razza straordinaria e lo
sapeva anche il proprietario dell’agriturismo di Rio Riccò da dove
era fuggita la capra bianca. Certo, però, probabilmente non
immaginava di cosa sarebbe stato capace il cane che poi si procurò.
Dunque,
riepilogando, un bel giorno Vincenzo, che aveva comperato anche le
pecore, decise di portare a casa un cane da guardiania, perché un
pastore che si rispetti deve averne uno.
Guardiania,
cioè protezione: sono cani che hanno il compito di proteggere il
gregge, impiegati da millenni come custodi delle pecore, con un
comportamento difensivo, non aggressivo, mentre il cane da pastore -
o da conduzione – sa soprattutto condurre e ‘comandare’ il
gregge.

Di
quest’ultimo, un cane da conduzione, ci parla il nostro
investigatore naturalistico Umberto Gianferrari: “Avevo conosciuto,
anni fa, un pastore di Monteorsaro soprannominato ‘Mucchia’, nel
senso dell’imperativo ‘ammucchia!’, che era l’ordine da lui
dato al cane quando era ora di radunare le pecore. Il nostro
‘Mucchia’ mi raccontava, ormai vecchio, di aver avuto un gregge
di cinquecento pecore. Al mattino si alzava, liberava le sue pecore
dall’ovile, prendeva la strada per andare in Cusna e saliva lassù,
fino ai Prati di Sara, luogo veramente incantevole, dove le sue
pecore pascolavano indisturbate. All’epoca non si sentiva parlare
di lupi, li avevano sterminati tutti, mentre vi si trovavano, in
certi periodi dell’anno, da settembre ad aprile, i pivieri dorati,
uccelletti migranti che possono provenire dall’Islanda, dalla
Groenlandia, dalla Siberia e che scelgono l’Italia per svernare.
Giunto lassù, Mucchia lasciava a guardia del gregge una cagna, una
bastardina uguale a tutti quei bastardini che i pastori allevano da
un anno all’altro, scegliendo il migliore della cucciolata, e
scendeva di nuovo a Monteorsaro.