Alcune delle mie poesie presenti nel volume
Elissa
Vanno e tornano,
le onde; danzano,
lisciano la riva; la mordono
e consumano. Limano
le asperità sue,
incompiute.
La insaporiscono d’alghe morte
e sale.
E qui giungesti profuga,
Elissa, che Sicharbas, l’anima
del tuo amato
– vai, vai lontano –
t’aveva detto.
E tu dormivi.
Più debole appare la donna
nel sonno, nel dolore;
le parlano, placati,
numi e spiriti,
quando in altro modo (vili?),
la ignorano.
- Vai, vai lontano – e tu fuggisti
con le navi e Anna e gli averi
del tuo Sicharbas, trucidato dal re,
e di Tiro i cittadini a te fedeli.
Ideasti, nella terra dell’approdo,
di nastri una cornice
limitante
ventidue stadi;
pelle di bue a strisce, a fili:
il perimetro
della bella Cartago.
Pensava, il sovrano Iarba,
d’ingannarti
di farti sua.
(E tu ingannasti lui)
Andavano, tornavano
(i principi numidi e Iarba, il re)
insistevano.
Possederti era l’intento,
intaccando
le tue increspature,
levigando volontà e coraggio,
revocando la tua libertà.
Avanzano e ripiegano,
i frangenti del tuo mare,
insistenti.
- Sì, sarò tua sposa – hai detto.
(l’hai truffato, Iarba, ancora)
S’aggirava, gonfio il petto,
a gloriarsi:
predatore, tu preda;
il dominio, la vittoria,
il piacere dell’abuso
eran ghigno sul suo viso.
(E il poeta t’abusò, poi,
ancora,
mentendo - narrando,
per cancellarti com’eri -
la tua passione per Enea,
e di te disperata
e di te, non voluta,
che peristi)
Affrancata vivevi, Elissa Didone,
come le onde,
e pur l’aveva appreso, Virgilio
il menzognero.
Fiera,
respirasti il tuo mare,
la risacca e i bianchi flutti
e l’ostro salino.
A fondo ficcasti la spada
nelle viscere tue.
- Eccomi, vengo da te, mio Sicharbas-
(e lui, che, t’amava, t’attendeva)
Sidereus nuncius
È solo abbaglio la purezza degli astri.
Questo aveva afferrato
il suo occhio
studiando i cieli
dal cristallo di vetro.
Eccoli allora i tutori della verità, i chierici:
- Non puoi tu divulgare contro la Bibbia teorie empie -
A Roma, lo reclamarono,
lo citarono in giudizio.
Da lontano, al confino sul colle
di Arcetri, guardò ancora le stelle
e guardò il mondo ottuso;
incapace di riconoscere
il dono.
Diciotto anni
Insolito monumento
di cupa solitudine.
Sono morti troppo bene
questi diciott’anni
troppo bene.
Di fiori, le strade vestite
e di fontane ai bordi;
d’angosciosi dilemmi
colmi
i giorni.
(Hai visto? Che t’avevo detto?)
Vuote le pagine:
bianche
deserto
sgomento
e pochi minuti soltanto
pochi anni per riempirle.
Progettare un effetto di spazio
o soffocare
in assenza totale
d’aria
di colore
d’arcobaleni e mattini.
Noia (magma che assedia
e fagocita)
da intaccare, almeno.
E in ottobre le case
giaceranno abbandonate
tra cascate di nebbia,
e gli zingari accenderanno i fuochi
e un vecchio se ne andrà tremante
per un viottolo di foglie secche.
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