Rosalba, anzi, no: Rosa Maria. O forse solo
Rosa.
Pare
che tutto ciò abbiamo intorno - e che siamo - sia soltanto un inganno della
mente; un’illusione perenne, un errore di percezione. Pare che ciò che comprendiamo
con i sensi non corrisponda a quello che è; come quando osserviamo il cielo,
dove le stelle ci appaiono come modeste luminarie di Natale, mentre, al
contrario, ognuna è un sole. Pertanto, noi non possiamo vedere tutto, non
conosciamo tutto: né l’infinitamente piccolo, né l’infinitamente grande.
In ogni
modo, cosa sarebbe l’oggetto di quest’inganno cosmico? Cos’è che, del Creato,
ci rimane nascosto? Particelle non identificate, cioè “materia oscura”, come la
definiscono i fisici?
Pare
che i cervelloni che frequentano e studiano l’infinitamente piccolo e
l’infinitamente grande ne abbiano dimostrazioni: dai suoi effetti
gravitazionali sulle galassie, le stelle e i pianeti, per esempio.
Certo
che vivere in un universo che è, se non altro per metà - o forse più, -
impenetrabile e oscuro, significa vivere in un mondo e in un tempo davvero
senza confini, illimitato, dove sussisterebbero illimitate alternative di mondi.
Mia figlia Anna in Secchia con suo padre |
L’ho
pensato quando ho avuto tra le braccia per la prima volta mio figlio appena
nato; un piccolo, meraviglioso prodigio, bello, buono e vivo come il pane in
lievitazione. Materia cosmica e divina.
Forse
perché vengono da là, i neonati, laggiù o lassù dove la materia oscura dà forma
a mondi paralleli, non hanno paura di nulla; essi sanno più di noi quanto
l’universo ci sia madre.
Si
affidano a noi, si affidano al Creato tutto. Mia figlia, per esempio.
Come
vedeva una pozza d’acqua, la streghetta ci si tuffava. Non era una bambina: era
un pesce, o forse una ranocchietta; sta di fatto che, quando si andava al
fiume, si doveva sorvegliarla senza sosta e riacciuffarla velocemente, appena
spariva a faccia in giù nell’acqua.
E aveva
sì e no due anni, la streghetta; anche uno, le prime volte che scendevamo al
fiume Secchia, ma poi dovemmo limitarci, perché quella, quasi stesse morendo di
fame, afferrava belle manciate di sabbia e se le metteva in bocca, tutta
felice. Che dire: era fatta così.Veniva dalla materia oscura dove facilmente
anche la sabbia era nutrimento.
Forse,
in un’altra vita, o in quello spazio sconosciuto dell’universo, la mia figliola
era stata una creatura marina, o di fiume o di lago. Trovava gustosa la sabbia
e l’apnea le risultava naturale, quasi avesse ancora il cordone ombelicale a
ossigenarla.
Si
andava al fiume, d’estate. Il fiume era il nostro mare: lì, comodo, a dieci
minuti da casa.
E c’era
sempre la folla, allora. C’erano signore che, già ad aprile, cominciavano i
bagni di sole, stese sul greto del Secchia (o dell’Enza), tenaci nel sopportare
il sudore, i moscerini, il riverbero bollente dei ciottoli; tenaci e perseveranti
nell’abbrustolire fino a settembre.
I
risultati, a distanza di trenta e più anni, sono volti e decolleté
completamente incartapecoriti, come le bistecche appena tolte dal barbecue, giacché
un po’ di sole farà anche bene alle ossa, sì, ma alla pelle mica tanto; lo
sapevano bene le contadine più anziane che in campagna ci andavano coperte il
più possibile e con il largo cappello di paglia a proteggere il volto; lo
sapevano bene le mondariso dell’età di mia madre che, in risaia, si spalmavano
le gote, la fronte e il naso con la pomata “Biancardi” per evitare di
abbronzarsi.
Per i
bimbi e i ragazzi, però, il fiume è sempre stato un bel parco giochi naturale a
costo zero; passarci i pomeriggi estivi era oltremodo rilassante. Andare al
mare? Ma no, non ci pensavamo proprio. Figuriamoci: rinchiudere i miei piccoli
cresciuti in una casetta circondata da prati verdi, abituati a stare sempre
all’aria aperta (tanto che, quando a due anni avevano smesso il pannolino,
marcavano il territorio come i cani e i gatti con le loro pisciatine),
rinchiuderli in un albergo o in un appartamento? Difficile senza farli
soffrire.
Poi
arrivò Rosalba. Cioè, no: Rosa Maria, per l’anagrafe, credo; Rosa per il
battesimo (o forse il contrario); Rosalba per tutti.
Mia figlia con Rosalba in parrocchia a Guasticce |
Anche
Rosalba, per me, venne fuori dalla materia oscura. Non c’è bisogno di
accelleratori di particelle occultati in tunnel scavati nelle montagne, di
rilevatori che aspettano pazientemente sottoterra e di telescopi che fissano il
cielo per capirlo; forse non si riuscirà mai a penetrare la vera natura della
materia oscura, ma per me, pure Rosalba era uscita da lì.
Rosalba
di Bari, Puglia. Cugina acquisita.
Lei e il
cugino Giancarlo avevano praticamente unito l’Italia con il loro matrimonio. Meglio
di Garibaldi. L’Italia e anche un po’ d’Africa.
Già,
perché due dei fratelli di Rosalba erano proprio “africani”: nati in Etiopia.
Adesso,
con gli africani che sbarcano a Lampedusa chiedendo asilo pare strano, ma con
le guerre coloniali, seguendo gli eserciti, in Etiopia ed Eritrea erano
arrivati invece gli italiani: mercanti, locandieri, agenti di commercio e intermediari,
tutti dietro quei flussi di denaro che i contingenti militari muovono.
Ecco:
il denaro non so se derivi dalla materia oscura; il denaro, come la guerra,
potrebbe essere, invece, il prodotto di scarto - tossico – delle due materie;
una specie di reazione chimica provocato dal contatto tra i due mondi e infestante
la vita della materia - chiamiamola così – “illuminata”, non oscura, corporea.
Nella
materia corporea ci sono le guerre, pure quelle per arraffare le terre e i beni
dove già vivono altre persone. A volte, oggi, le chiamiamo “guerre umanitarie” e
servirebbero a esportare la democrazia.
Dall’Italia,
verso l’Africa, insieme a quelle guerre erano partiti gruppi di operai
disoccupati, richiamati dai tanti cantieri aperti laggiù. In seguito, ecco le
prime famiglie contadine facenti parte di un progetto di colonizzazione
agricola.
Più
tardi, Mussolini giudicò inaccettabile che nella colonia si aggirassero operai
italiani sbandati, perché la cosa, mio Dio, avrebbero offeso il prestigio
nazionale; così come riteneva che alcuni lavori (il manovale, per esempio, mio
Dio), sempre per dignità, dovessero competere esclusivamente agli indigeni. Ai
neri. Alle “faccette nere”.
Il
padre e la madre di Rosalba erano dunque emigrati in Africa come coloni e, dopo
la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero, si erano trovati in
quelle terre che, secondo il regime, non dovevano essere considerate come una
colonia di semplice sfruttamento, ma avevano un altro, importante compito.
Perché Mussolini pensava in grande.
Che
dire: fosse diventato un bravo scrittore, o attore, il Duce, o direttore
didattico o provveditore agli studi ci avrebbe evitato molto molto dolore.
Però,
probabilmente, a parte nell’arte di arringare le folle, era pessimo in tutto.
Anche
Hitler, se avesse avuto successo come pittore o architetto ci avrebbe forse
evitato gli orrori che ha poi riversato sul mondo.
Mai
fidarsi di questi artisti frustrati e falliti: diventano spesso dittatori
terribili.
E
trovano continuamente masse frustrate, anche più di loro, che li seguono e li
ascoltano.
Peggio
ancora: li venerano. Lasciateli dunque dipingere, recitare, scrivere, coloro
che si pensano geni delle arti; fate
loro credere che sono degli artisti sublimi, così che solamente in quello
possano spendersi – soddisfatti - per tutta la vita.
Mussolini,
nel suo delirio, aveva un’idea ben precisa in testa. Pensava in grande, il
Duce.
l’Impero,
colonie comprese, non poteva sussistere senza un popolo numeroso e in grado di
rigenerarsi e aumentare di numero, superando, in quel caso, la popolazione etiope;
una massa da cui prendere soldati pronti a mobilitarsi per la guerra.
Aveva
la guerra, in testa, il Duce. La guerra, lo scarto tossico della reazione
chimica tra la materia oscura e il mondo concreto. E per la guerra servono
figli. Culle piene per trincee piene.
La
mamma di Rosalba seguì le istruzioni del Duce, diventando subito una prolifica
madre della Patria, ma il marito finì prigioniero degli inglesi (altrimenti
chissà quanti figli avrebbe fatto, dice ora Rosalba), così che la loro fiorente
attività agricola nella colonia africana dell’Impero ebbe fine.
Prigioniero
degli inglesi significava, per chi non lo sapesse, un vero e proprio campo di
concentramento. Lo raccontò poi al ritorno, Giovanni, il padre di Rosa Maria, e
per tutta la vita nutrì un odio viscerale e un immenso disprezzo per i britannici.
Erano
campi – tantissimi - di quasi ventimila reclusi l’uno, suddivisi in tendopoli;
mille uomini per ogni tendopoli; otto persone per ogni tenda. Riso bollito a
pranzo e cena, quando non era brodaglia peggiore, seduti a terra e, per letto,
sotto le tende, solo la sabbia umida.
Il
campo di prigionia inglese più grande d’Africa era quello di Zonderwater, in Sudafrica; lì, a Zonderwater,
avrebbero potuto alloggiare fino a 112.000 uomini.
Una
storia dimenticata, questa dei prigionieri italiani degli alleati.
Volutamente
dimenticata? Volutamente oscurata?
Giovanni
Daddario, padre di Rosalba, fu prigioniero di guerra in mano inglese e probabilmente
poi si sentì, per sempre, un prigioniero di serie B, dato che, nel periodo
postbellico - momento di guerra fredda – si tendeva a parlare solo dei reduci
dalla Russia o dagli orrori del nazismo, lasciando in secondo piano, o
addirittura ignorando, il sacrificio di questi altri poveri italiani.
Io dei
prigionieri italiani in mano alleata non sapevo proprio nulla. Altro che
materia oscura!
Fu
Rosalba a raccontarmi questa parte a me ignota dell’ultimo conflitto mondiale.
Rosalba
uscita da quella parte dell’universo che dona il bello e il buono e dove il
bello e il buono tornano. Rosalba che, in quella materia oscura, aveva a lungo
cercato un bambino, un figlio, che madre migliore di lei non poteva essercene
altra, ma poi aveva dovuto rinunciare, sublimare il dolore e diventare madre in
altro modo: dei nipoti, dei bimbi che accudiva come bambinaia, degli amici, dei
parenti. Anche di noi, in fondo.
Rosalba
e Giancarlo avevano davvero unito l’Italia, in lungo e il largo, sposandosi.
Avevano
unito Puglia, Calabria, Emilia e Piemonte. Si erano incontrati a Genova,
avevano abitato nel Lazio e si erano poi trasferiti in Toscana, dalle parti di
Livorno.
Da lì,
un bel giorno avevano deciso di venirci a trovare, così me la trovai davanti,
Rosalba, tutta carina, sorridente, con i capelli gonfi, come usava negli anni
Ottanta; alta, vita stretta e fianchi barocchi tipici delle donne del
meridione.
Però,
da brava pugliese, aveva già assunto la cadenza toscana, che nessuno come i
pugliesi riesce ad assorbire perfettamente parlate e dialetti dei luoghi di
emigrazione.
Sì,
ogni tanto se ne usciva con qualche bella espressione barese: “Achiude u cèsse!”,
oppure: “A ffà la varve au ciucce se perde l'acque u timbe e u sapone!”, ma in
genere parlava livornese, pur evitando il “deh” esclamativo con la “e” aperta e
il “dé” di “Dé, guarda ‘i c’è…” che invece usavano abbondantemente i suoi altri
familiari che abitavano in zona.
Prima
di lei, prima di incontrare Rosalba, oltre a non conoscere né il dialetto
barese, né le espressioni gergali livornesi (e nemmeno il Vernacoliere, foglio
satirico che più volgare non si può, ma in senso positivo, almeno per me), non
conoscevo buona parte della storia d’Italia – che a scuola ci sono pezzi che
proprio non si studiano – e non conoscevo tanto altro.
Per
esempio, il peperoncino. Non l’avevo davvero mai sperimentato, m’ero sempre
rifiutata di provarlo. A casa di Rosalba, il peperoncino entrava quasi in ogni
pietanza: impossibile non assaggiarlo. E poi il pesce: che ne sapevo io del
pesce davvero buono e preparato davvero a modo?
Insomma,
sì: avevo mangiato il pesce come si cucina qui o in Romagna, ma non avevo mai
mangiato il vero, unico meraviglioso pesce appena pescato, comprato ancora vivo
al mercato di Livorno e cucinato dalle mani magiche di Rosi.
Che è
come dire: mettere il parmigiano nel ripieno dei cappelletti o metterci solo
del pan grattato. Che è come dire: mangiare l’erbazzone fatto in casa con la
ricetta della nonna o mangiare quello industriale, lardoso e unto, che sa solo
di sale, grasso e cipolla e ti si pianta sullo stomaco per giorni.
Prima
di Rosalba, non avevo mai mangiato il cacciucco alla livornese (con quattro c, come
si usa a Livorno), un piatto di una bontà straordinaria.
Seppioline in umido di Rosalba |
Prima
di Rosalba, credo, non sapevo nemmeno ben individuare il giusto punto di
cottura della pasta; lei era magica, magica davvero. Le sue pastasciutte erano qualcosa di celestiale, di
incomparabile e il piccolo orto giardino davanti a casa sua era una miniera di
delizie da cui attingere per la cucina: pomodori, zucchine, cetrioli, basilico,
maggiorana, origano e ogni altro tipo di aromatiche; persino una pianta di
passiflora arrampicata sulla recinzione, con i lunghi tralci legnosi, carichi
di viticci, e i fiori bianchi, porpora, alcuni rosati e sfumati di bronzo.
Nel bel mezzo del giardino, un albero profumato di eucalipto
dal tronco eretto, con la corteccia grigia che si rompeva appena in scaglie
rossastre e il fogliame verde scuro, lanceolato. E poi violacciocche, piante
grasse di ogni specie, rose, margheritone bianche, fiori di ibisco e una bella
vite di uva fragola a ricoprire la pergola sulla porta di ingresso.
Inquilino di quel giardino, oltre che guardia attenta e
componente della famiglia, era Rocky, un magnifico incrocio tra un pastore
tedesco e un collie; il cane di Rosi e Giancarlo.
Quando
erano venuti a trovarci, quella prima volta, l’avevano portato con sé, il loro
Rocky, perché difficilmente riuscivano separarsene.
Rosalba
e Giancarlo erano venuti a trovarci e, con un affetto e una simpatia cui era stato
difficile resistere, ci avevano invitati a casa loro, offrendosi di accoglierci
per le vacanze estive.
Al
mare, in quel di Tirrenia.
Così,
poco tempo dopo, abbandonammo i bagni di sole sul greto del Secchia a due passi
da casa e, stipata la Renault 5 – beige e seminuova - di valigie, borse e
figlioletti, partimmo (lemme lemme) per il nostro esodo attraverso il Passo del
Cerreto alla volta di Guasticce, Livorno, Toscana.
Era
forse il primo lungo viaggio per mia figlia, che lo fece tutto con il naso
fuori dal finestrino, lamentandosi con la sua vocetta disperata ad ogni curva:
“Mamma! Vompio… vompio…”, perché il mal d’auto le sarebbe passato soltanto con
l’adolescenza e spostarsi, anche per pochi chilometri, significava, per lei,
vomito sicuro.
Ma ci
arrivammo, a Guasticce, sia pure in tempi biblici.
Prima
di incontrare Rosalba, per me finanche Guasticce era parte della materia
oscura; ci trascorsi poi, per ben trent’anni, almeno una settimana ogni estate,
che da lì alla spiaggia di Tirrenia era un attimo.
Guasticce:
“Neppure duemila anime, - dice l’amica
guasticcese Patrizia Barbini, - un microcosmo piatto incapace di trovar posto
in qualunque carta geografica che si rispetti. Li vedete i paesini all’intorno?
Leggete i nomi: cosa vi ricordano? Stagno, Mortaiolo, Nugola, Arnaccio, con
quel suffisso che non promette niente di buono... Eh sì, ci troviamo
all’interno di una ex palude che solo la lungimiranza dei Granduchi di Toscana
strappò alle zanzare, le quali peraltro se la legarono al dito ed ogni anno, in
piena estate, ritornano a perseguitarci, con somma gioia dei produttori di
Autan.”
Vero:
Rosalba e Giancarlo abitavano nel bel mezzo di quella che era stata un’immensa
palude, nel bel mezzo di uno zanzarificio, a due passi dal mare, vero, ma anche
a due passi dalla raffineria di petrolio dove Giancarlo lavorava, - e che
inquinava l’aria con un tanfo ammorbante, - e a due passi dal Camp Darby, una
gigantesca base militare americana nata nel 1951 da un accordo tra Italia e
Stati Uniti.
Prima
di conoscere Rosalba, anche le basi americane in Italia, per me, erano parte
della materia oscura. Non ne sapevo niente, me sciagurata.
E ora,
eccolo lì, il Camp Darby, con i suoi infiniti rotoloni di filo spinato in alto,
sulle recinzioni, per chilometri e chilometri, e tutti quei capannoni, e case,
e persino una chiesa e molti campi sportivi dentro. E poi armi, carri armati,
aerei ben in vista. E il divieto di fotografare sui cartelli appesi alle reti.
Eccolo
lì, costruito sul Tombolo, in quella pineta che, fino agli anni Cinquanta, era
stata luogo di passeggiatrici, di contrabbandieri, di renitenti sfiancati dalle
guerre.
Mi
raccontarono che nel Camp Darby era custodito il più grande arsenale americano
all’estero e che, grazie al canale navigabile che arrivava all’interno della
base, i materiali potevano andare e venire dal porto senza che nessuno se ne
accorgesse.
Inquietante:
Livorno, Pisa, Italia, e nessun controllo?
Oggi,
le prostitute sono tornate e stanno lì, in bella mostra, seminude o
completamente nude, lungo la strada che costeggia la recinzione del Camp Darby
e che porta a Pisa; stanno lì in pieno giorno, sotto i pini marittimi,
accomodate su divani sporchi e spelati, oppure su una sedia, mentre i loro
magnaccia vigilano passando avanti e indietro in auto.
Ma non
sono italiane, le sventurate, e forse non sono nemmeno tutte di sesso certo,
perché, dalla loro vistosa nudità, appare una muscolatura del fondoschiena e
delle cosce – e un’assenza di cellulite - non esattamente femminile.
Corsi e
ricorsi della storia: soldati che, per volere del Duce, erano morti o che erano
stati fatti prigionieri in Africa per creare un Impero e “civilizzare” le
“faccette nere” - buttando invece nella miseria più spaventosa le loro famiglie
in Italia - e ora quelle “faccette nere” qui a ricordarci che la colonizzazione
selvaggia e il ladrocinio hanno creato altrettanta miseria e devastazione che
si sta ritorcendo contro di noi.
Su
quella strada che rasentava il campo americano, noi transitavamo dunque per
andare a Tirrenia, al bagno Vittoria, alla spiaggia, e la colonna sonora
proveniente dal mangianastri dell’auto mutava ogni anno, mescolandosi con la
fragranza decisa dei pini e il salmastro del mare che il libeccio ci rovesciava
addosso.
Nell’
’89, per esempio, con i finestrini spalancati, i nostri figli cantavano a
squarciagola le canzoni dell’ultimo album di Zucchero, “Oro, incenso e birra”, tanto
che le note di “Diavolo in me”, “Overdose d'amore”, e della tenera, commovente
“Diamante” arrivavano probabilmente anche agli zingari del campo nomadi di
Coltano, lì vicino.
Zingari
che, un bel dì, Rosalba si era ritrovata in camera da letto a frugare in tutti
i cassetti per cercare l’oro; lei ne aveva molto sofferto, perché la violazione
della propria intimità è ancora più dolorosa della perdita di qualche oggetto
prezioso.
E a
proposito di corsi e ricorsi storici, se a Coltano oggi c’è il campo nomadi,
alla fine della seconda guerra mondiale c’era un campo di concentramento.
Messo
in piedi dagli Alleati, lì ci finirono i prigionieri della ex Repubblica
Sociale Italiana, i militari tedeschi e i collaborazionisti dei nazisti. Il
campo rimase attivo pochi mesi, da luglio a settembre del 1945.
Ma a
noi non importavano né gli zingari, né le armi del Camp Darby, né le zanzare di
Guasticce, né i miasmi della raffineria di Stagno, né il fatto che da quelle
parti ci fosse stato un campo di concentramento; noi andavamo al mare, al bagno
Vittoria, dove c’erano tutti i parenti e gli amici di Rosalba e poi, a
mezzogiorno, mangiavamo in pineta.
A quel
punto sorgevano dei seri problemi di digestione, dato che l’idea meridionale di
“pranzo al sacco” con il sacco inteso come paniere e la sua frugalità non
coincideva proprio.
La sera
prima, infatti, mentre i miei figli, seguendo alla televisione le lotte del
Wrestling, dell’Uomo Tigre e di Antonio Inoki, si rotolavano sui divani e le poltrone
di Rosi, impeccabilmente rivestiti da granfoulard
fermati con gli spilli, finendo poi prigionieri degli spilli stessi, lei
cucinava per il picnic del giorno successivo. Panini? Tramezzini? Non sia mai!
Dalle
mani sapienti di Rosalba, cuoca pugliese (ma anche un po’ genovese, piemontese,
laziale, dato che Rosalba aveva assorbito le ricette dei luoghi in cui si era
spostata), uscivano piatti complicati e prelibati che di più non si può.
Così,
il giorno seguente, in pineta veniva fuori dalla borsa frigo di Rosalba,
novella Mary Poppins, qualcosa come un pranzo di nozze, e bisognava mangiare,
anzi: non si riusciva a non mangiare, perché tutto era talmente gustoso che era
impossibile resistere.
Finiva
sempre che ci ritrovavamo gonfi come mongolfiere, stravaccati su qualche
panchina sotto ai pini ad aspettare le tre ore canoniche per poter tornare in
acqua – con i bambini a chiedere ogni cinque minuti se era finita la digestione
e se potevano tuffarsi, salvo poi fare la spola tra la pineta e il bar a
comprarsi gelati e ghiaccioli - e a ripensare alla parmigiana di melanzane, al
soufflè di zucchine, allo sformato di patate, al “riso, patate e cozze” (una
delizia barese senza paragoni) che avevamo ingurgitato.
Don Italo tra Anna e Rosalba |
E poi
Rosi invitava anche il parroco, don Italo, che però non voleva essere chiamato
“don” e che per tutti noi divenne soltanto “Italo”: un prete aperto, capace di
stare in mezzo alla gente con l’umiltà e la simpatia di una persona comune; uno
che promuoveva sempre belle iniziative in parrocchia con altri preti
eccezionali, come padre Alex Zanotelli, e che divenne, in seguito, un caro
amico di famiglia.
La
grandiosa, luculliana grigliata comprendeva, oltre alle salsicce fatte in casa
da Rosi e alle braciole, anche della roba di agnello che, subito, non avevo ben
identificato.
Però
era roba buona. La mangiai. Poi, Rosalba mi chiarì ogni dubbio, e, se non fosse
stato per lei, mai avrei immaginato che quella “roba” potessere diventare un
cibo per umani.
Pare che,
in Puglia, non si butti niente degli agnelli e dei capretti, nemmeno gli
“gnemerìdde”, le interiora. Ecco cos’erano! Tagliate a striscioline e strette a
gomitolo, lì, sulla griglia, Giancarlo ci arrostiva budella d’agnello; cena
leggerissima, dopo il pranzo altrettanto leggerissimo in pineta.
Ma mai
con tanti chili come Pinuccio, il figlio di Giuditta, un’anziana maestra amica
di Rosalba che saliva dal Sud, quasi ogni estate, con un carico sterminato di
prodotti pugliesi. I lampascioni, per esempio, cipollotti piccoli, biancastri
all’interno, spontanei nei prati, poi il pane di Altamura, la ricotta salata,
lasciata seccare e ottima da grattugiare come il parmigiano, acciughe sotto sale,
pomodorini secchi, capperi, caciocavallo, taralli ai semi di finocchio,
orecchiette, olive verdi e mozzarelle che si scioglievano in bocca come burro.
Pinuccio,
anzi “Pinone”, che come suffisso, vista la forma a uovo, andava meglio “one”,
aveva una bella pancia… e te lo credo: con tutta quella bontà a portata di mano
ogni giorno!
Della
cucina di Rosi, uno dei piatti preferiti di mia figlia erano, però, “gli
impiegati” - come li aveva battezzati lei, perché li vedeva parecchio piegati e
arrotolati, - cioè le brasciole (si scrive proprio così) di cavallo alla
pugliese. Si tratta di involtini di carne di cavallo con un ripieno di
parmigiano, aglio, prezzemolo, capperi, forse anche origano e mortadella, in un
sugo di pomodoro fresco. Con “gli impiegati”, Rosi condiva la pasta, le
orecchiette o i cavatelli, che spesso faceva anche in casa.
Tornavamo
a casa nostra dal mare, dunque, belli grassi e gonfi; “freschi”, diceva mia
suocera che, essendo cresciuta nella miseria, non poteva vedere le persone
magre e valutava come brutte tutte le modelle e le attrici televisive “con le
ossa di fuori”.
Al bagno Vittoria, Tirrenia |
Io, come già detto, a tavola da Rosi scoprii innanzitutto il pesce cucinato come Dio comanda, specialmente il cacciucco; con quel cibo degli dei fu amore alla prima forchettata.
Il
cosmo della materia oscura fa parte del nostro cosmo; tutto ciò che percepiamo
con i sensi ha un solo tipo di esistenza, ma ciò che non siamo in grado di
cogliere potrebbe avere un numero infinito di realtà e forse, su qualche
supercomputer, prima o poi si scoprirà la vera natura della materia oscura.
Intanto, io avevo scoperto il cacciucco, e mi bastava come assaggio del
paradiso.
Quando
poi, davanti allo sguardo compiaciuto di Rosi, mio figlio prese il pane e ripulì
anche l’ultimo residuo di cacciucco, per riprendere subito in mano la forchetta
e rovistare sul fondo del piatto, lei scoppiò a ridere e strillò, con il finto
cipiglio che la distingueva quando voleva sembrare infuriata (“ingufita”, diceva mia figlia): “Mario, oh Mario! Il
piatto lascialo!”
Mario
la guardò sorpreso; povero bimbo: aveva confuso i disegni decorativi dei pesci
sul fondo del piatto con il pesce cucinato, e stava cercando di recuperarli con
la forchetta.
Era
tanto buono il cacciucco di Rosalba (Rosa Maria, per l’anagrafe, Rosa per il
battesimo, o forse il contrario), che spingeva a mangiare anche il piatto.
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