La zuppa
nel latte era la colazione. Non c’era altro: latte appena munto,
rigorosamente bollito, pane e zucchero, caffé d’orzo che a fatica
coloriva la mistura. Una scodellona: tanto pane da sprofondarci il
cucchiaio così da farlo stare dritto, e dovevi arrivarci in fondo.
Perché poi non c’era altro.
Eppure, a
volte, nel latte ci si inzuppava la polenta del giorno prima, a volte
la carsenta fritta avanzata, a volte – raramente – qualche
rimasuglio di brasadella dolce.
Solo più
tardi arrivarono i biscotti “Famiglia”, grossi come piccoli
panini, che ne bastavano tre per riempire la tazza.
Non mi
piaceva la zuppa nel latte, era una tortura e una sera feci
addirittura sciopero, rifiutandomi di mangiarla. Già, perché la
scodellona me la porgevano, unica alternativa, anche a cena.
Mia nonna
Eva non s’arrabbiò, quando m’impuntai nel respingere quel
ripetitivo menù; semplicemente, mise in serbo la scodella con la
“mia” zuppa nel tricantùn di sala (non avevamo il
frigorifero) e me la ripresentò, fredda, a colazione.
“Chi
non mangia ha già mangiato”, dettava legge mia nonna Eva, e in
casa nessuno si è mai troppo impensierito per l’inappetenza di un
bambino o per il fatto che qualcuno saltasse un pasto, mentre -
questo sì - ci si arrabbiava parecchio se si sciupava il cibo.
E quando
in terza elementare studiai Sparta e Atene, mi resi conto di essere
cresciuta davvero in modo… spartano e parteggiai in seguito per i
perdenti cittadini di Sparta, oltre che per i “perdenti” in
generale.
Comunque,
dopo aver passato la notte con i crampi allo stomaco, assolutamente
ravveduta e redenta nei riguardi della mia scelta, ci misi un attimo
a dimenticare intenzioni e pensieri rivoluzionari e divorai la zuppa,
quando, molliccia e un po’ viscida, la ritrovai sul tavolo al
mattino.
Fu quello
il mio unico sciopero della fame; avevo forse otto anni e scoprii
soltanto da adolescente che quell’atto si poteva definire
“sciopero” e che ero stata, a mio modo, una bambina sovversiva.
Non mi
piaceva la zuppa, perciò, non appena in autunno si cominciavano a
bollire le castagne secche, esultavo per la colazione, dato che nel
latte potevo buttarci loro: le bascotle.
Profumate,
zuccherine, con l’acre che “legava la bocca” dei residui
di cuticola marrone che s’infilavano tra i denti, le bascotle
(castagne secche lessate nell’acqua, appunto) erano il miglior
inizio di giornata per il mio stomaco e per il mio palato.
Ma le
castagne significavano anche polenta dolce, condita con la pancetta
fritta, e i sughi, quella meravigliosa emulsione di farina di
castagne e mosto d’uva che mia nonna Bruna cucinava alla
perfezione, senza un grumo, e poi versava nei piatti perché
raffreddasse, così da ricavarne belle fette. Sopra, cucchiaiate
generose di ricotta ancora calda o di panna scremata dal latte erano
il miglior accompagnamento.
Una
teoria di piatti colmi di crema viola, sprigionanti buon odore di
vino, distesi sul tavolo di cucina, a Predolo, mentre mio nonno
rientrava da caccia con qualche lepre o fagiano - e cani al seguito -
e lei brontolava perché non ne poteva più di spennare e spellare e
far frollare selvaggina.
Che poi
mica ce la cucinavamo tutta, la cacciagione, no: c’era da regalarne
(come le uova, come i conigli) un po’ al dottore, un po’ al
veterinario, un po’ alla cugina Anna di Reggio. Ha sempre fatto
così, mia nonna Bruna: distribuiva “i pani e i pesci” e
riusciva, miracolosamente, a moltiplicare il poco che aveva
dividendolo.
Le
castagne le sgranocchiavamo anche crude mentre s’andava a scuola,
passando per i castagneti dei Valeti, sulla carraia che attraversava
la costa dei Monti Ferrari, proprio in faccia a Beleo e Leguigno.
Tutto un
avvicendamento di veri e propri frutteti, con le piante di castagno e
marroni regolarmente distanziate e i percorsi sinuosi dei
cataletti/sentierini a disegnare i declivi; solchi dove le castagne
si raccoglievano cadendo e rotolando in pendenza.
Crodavano,
le castagne. Un verbo dialettale che, per me, significava il suono
tipico, smorzato, ma anche musicale - quasi una pioggia lenta, una
calma grandinata - delle castagne picchiettanti sul terreno foderato
di muschi, brugo, foglie secche e ricci.
Sotto gli
alberi, non un filo d’erba, non un rovo, non una felce. Solo il
primo fogliame caduto e i ricci, che bisognava scansare attentamente
durante la raccolta per non pungersi le dita, non prima, però, di
averli giustamente aperti premendoli sotto il tallone.
Li
schiacciavi e si schiudevano, rivelando il velluto dell’interno e
la lucentezza bronzea dei tondi semi o, purtroppo, la buccia vuota,
piegata come un piccolo cappuccio nero, dei cuplùn.
La
pulizia dei castagneti, anche di quelli più ripidi e scomodi, era
imprescindibile.
Gli
strumenti erano quelli consueti di altre attività contadine: falce,
quella con cui si tagliava l’erba durante la fienagione, ‘msura
(falce messoria), pennato (anzi, podaglio, che ha la lama
anche dietro) forcone, rastrello e zappa. Tanto lavoro di braccia,
tanto tempo; le famiglie intere a ripulire i castagneti. Si sterpava,
cioè si tagliava il sottobosco cresciuto dalla fine dell’inverno
precedente, si accumulavano gli sterpi, li si bruciava, si
ripristinavano i sentierini in modo che l’intera superficie del
terreno fosse tanto monda da permettere la raccolta .
Perché
non si poteva tollerare di perderne una di castagne.
Mentre i
miei nonni paterni possedevano, tra Soraggio e Gombio, molti
castagneti di cui si prendevano cura - sia per la pulizia sia per la
raccolta - i miei nonni materni pulivano e raccoglievano nel
castagneto di “Nirigh”, alla Piagna.
Una
specie di giardino. Enormi castagni, sicuramente centenari, in uno
spazio semipianeggiante attraversato da due carraie, che poi erano
antiche strade; brugo dai fiorellini violacei a tappezzare il
terreno, felci e giovani pioppi ai confini di un campo coltivato,
fragoline di bosco ormai senza frutti nelle radure più soleggiate.
Nei
tronchi dei castagni, i nidi degli scoiattoli che mio nonno Ambrogio,
da esperto cacciatore, mi insegnava a riconoscere e, alla base degli
alberi, ben nascoste in diversi buchi, le loro riserve di cibo. Poi i
fori rotondi del picchio verde e del picchio muratore, ma rotondi
rotondi, quasi li avessero progettati con il compasso.
Un favo
di api selvatiche gocciolante miele in una larga fenditura d’un
vecchio fusto fu, un giorno, una golosa scoperta e fu tutta
un’avventura vedere mio nonno andare a raccoglierlo scacciando le
povere bestiole col fumo.
Oppure
prese su anche lo sciame delle api per “addomesticarlo”? Non
ricordo, ma c’era chi possedeva delle rudimentali arnie, a Predolo,
e la smielatura era un piacere per noi bambini, che passavamo il
tempo a succhiare i pezzi delle cellette già spremuti. L’estrazione
del miele dai telaini veniva compiuta appunto con la spremitura dei
favi e successivo filtraggio del prezioso liquido.
Questo
comportava, purtroppo, la distruzione dei favi e significava portare
via tempo ed energia ai poveri insetti per la successiva
ricostruzione.
Ma era
così buono, il miele fresco! Tanto da farci avvicinare troppo alle
arnie, durante la smielatura (anche se gli adulti ci strillavano di
stare lontani) e da essere assaliti, noi bambini, dalle api
spaventate e rabbiose. Mi ritrovai, in una di quelle occasioni, con
gli occhi completamente chiusi per il gonfiore delle punture e con
mia nonna Jusfina che mi diceva di tenerci sopra la lama di un
coltello per lenire il bruciore.
Il
castagneto di “Nirigh” diventava, a quell’epoca, assoluto luogo
di spasso per me e per mio zio Giuseppe (mio coetaneo) mentre nonno,
nonna e bisnonna sterpavano.
La cosa
più divertente era il fuoco. Sterpi e foglie ammonticchiati venivano
dati alle fiamme con riguardo, ma davvero con tanta tanta attenzione,
perché il fuoco non “scappasse”.
E noi lì
intorno a saltellare, ballare, correre. Intorno al fuoco. Una sorta
d’incantesimo.
L’odore
penetrante, particolare, dovuto al tannino delle foglie e delle
ramaglie di castagno - ma anche agli arbusti ed erbe aromatiche del
sottobosco - il calore della vampa, la tinta arancio traslucido delle
fiamme che s’alzavano erano ipnotici: non riuscivi a staccarti.
Poi,
però, io ebbi un’idea… Raccolsi un po’ di foglie di castagno,
le arrotolai a mo’ di sigaro, le avvicinai alla fiamma e provai a
fumarle, ovviamente obbligando mio zio (vittima abituale dei miei
esperimenti) a provare anche lui. Atroce! Un sapore d’un amaro
assurdo e tanta tosse; tuttavia gli adulti, per nostra fortuna, non
se ne accorsero, troppo stanchi e troppo impegnati nel loro lavoro.
Le
castagne cadevano, dunque, su un terreno pulito, dove solo le foglie
e i ricci, sotto i quali si andava accuratamente a cercare, potevano
sottrarle alla vista.
Che la
raccolta non fosse per niente piacevole, piegati per ore, con il
gomito sinistro appoggiato sul ginocchio e la mano destra a scansare
ricci e a raccattare senza tregua, fino a riempire il cavagn di
vimini per poi svuotarlo nella “sacchella”, forse oggi è
difficile da spiegare. Ancor più difficile accettare, per la
mentalità odierna, che fossero pure i bambini e i vecchi a
sottostare a tanta fatica per ore e ore. Succedeva di ritrovarsi,
dopo un po’, con le dita della mano destra tutte sforacchiate dalle
spine dei ricci, gonfie e dolenti - soprattutto l’indice e il
pollice - e con la schiena che era un stilettata continua di dolore.
Quando non capitava di scivolare e di atterrare, simpaticamente, su
un tappeto di ricci pungenti.
Eppure,
la mia bisnonna Jusfina portò a termine la sua ultima raccolta a 86
anni, cinque mesi prima di morire. Ce l’ho davanti: chinata, il
grande scialle nero incrociato sul petto, il grembiule legato a
formare una specie di marsupio, comodo contenitore per le castagne,
le maniche della veste rimboccate, il fazzoletto stretto sulla nuca a
coprirle i capelli, le sue grosse mani nodose – mani da uomo, mani
di chi aveva tanto lavorato – a selezionare attentamente i frutti,
scartando i cuplùn, prima di metterle nel grembiule.
Perché
le castagne, come i fagioli, si “leggevano”. Fu proprio mia nonna
Jusfina a spiegarmi che “leggere” voleva dire “scegliere”:
pur senza averne la consapevolezza, aveva proprio ragione. Cicerone,
per esempio, adotta l’etimologia di lex da legere, perché
si riferisce al verbo legere nel significato di “scegliere”.
Aveva di
queste intuizioni, mia nonna Jusfina, oppure inventava sue
spiegazioni con “licenza poetica”; come quando mi disse che il
mondo si chiamava mondo perché, in realtà, era da mondare, o che il
parto, l’atto della nascita, poteva indicare, purtroppo (lo diceva
la parola), una partenza: quella della mamma come quella del bambino,
o di tutti e due.
La
pratica del silenzio, delle lunghe ore soli nei boschi e nei campi,
affinava, nei contadini, l’attitudine alla riflessione,
l’abitudine a pensare. Istruzione, cultura e saggezza sono tre cose
diverse; mia nonna non era istruita, ma era immensamente saggia e
possedeva a fondo la cultura dei campi, quella che noi abbiamo
perduto.
Mi
piaceva stare con lei. La vedo ancora: chinata, in quell’ultimo
autunno della sua vita, si drizzava solo per svuotare il contenuto
del grembiule nella sacchella di tela bianca fino a riempirla;
poi la legava chiudendola per bene, la sollevava sulle spalle
e se la portava fino a Predolo, a casa.
Tutto da
sola, per giorni e giorni, finché nel castagneto di “Nirigh” non
restò più una castagna; soprattutto, non una masangaia: quelle
grosse, lucide che i pianzani, poco esperti, scambiavano per
marroni. Quell’anno io mi sposai e lei, dopo pochi mesi, morì.
Un dolore
sconfinato; mi ero sentita amata e protetta da lei per vent’anni e
avrei voluto vederla trisnonna, farle questo regalo. Non conobbe mai
mio figlio, ma, quando seppe che ero incinta, mi disse che avrei
avuto un maschio, e che sarebbe stato buono: “Trattalo bene, non
farlo soffrire mai”, fu il suo caldo consiglio.
Durante
la mia infanzia, le castagne si vendevano quasi tutte, tranne una
parte dei marroni e le più grosse masangaie, che si tenevano
per farci le mondine e i balöss durante l’inverno.
In
assenza di moderni freezer, per conservare marroni e castagne si
ricorreva ad una sorta di bagno/novena: i frutti (che poi sono semi)
venivano posti in un mastello pieno d’acqua a temperatura ambiente.
Il primo giorno si rimestavano le castagne per far emergere ed
eliminare quelle bacate, poi le si lasciava lì per nove giorni. I
frutti diventavano leggermente aciduli; forse germogliavano,
fermentavano e si formava un po’ d’alcool?
Sta di
fatto che, passati i nove giorni, li si sciacquava e li si poneva ad
asciugare su piani di legno. Una volta asciutti, li si conservava in
sacchetti di juta, dove si mantenevano freschi e intatti per lungo
tempo. Pronti per finire arrostiti sul piano della stufa!
Le
castagne secche, invece, le compravamo, perché nessuno, a Soraggio,
le seccava più nei metati. Ce n’erano diverse, in paese, di
queste casette/essicatoi talmente annerite, all’interno, da
sembrare asfaltate, ma erano ormai in disuso e trasformate in
ricovero attrezzi.
Soltanto
Peppo e Dirce avevano ancora un metato in funzione nel loro
castagneto, vicino alla fontana della Pianella; tutti chiamavano il
luogo “la capanna di Peppo”, perché una capanna c’era
davvero, dove Peppo stipava il fieno del suo unico campo in mezzo ai
castagni, e dove sostavano a dormire, in svariati periodi dell’anno
e per diversi giorni, strambi personaggi dal lungo tabarro nero e
dalle barbe bianche; girovaghi, forse ombrellai, forse,
semplicemente, barboni.
Una
volta, una della tante in cui avevo deciso di scappare di casa,
anch’io mi nascosi nella capanna di Peppo, allestendomi, nel fieno,
un comodo nido; ma erano le quattro o le cinque del pomeriggio,
troppo presto per dormire e, dopo essere stata un po’ lì a
sopportare il fieno che trapassava i vestiti e punzecchiava ovunque,
mi venne fame, tornai sui miei passi e decisi che da casa sarei
scappata in un altro momento.
Mio padre
racconta che Peppo, durante la guerra, poiché erano state requisite
tutte le armi e non c’erano cacciatori in giro, ebbe la luminosa
idea di portare tutti i suoi conigli là intorno al metato e di
liberarli a terra in un recinto. Risultato: i conigli scavarono
innumerevoli tane e si dileguarono nei boschi. Peppo, allora, da
creativo qual era, cominciò ad elaborare un progetto secondo cui se
avesse posto degli specchi intorno al metato i conigli, attirati
dalle loro immagini riflesse, sarebbero tornati e sarebbero rimasti
lì (progetto che poi Peppo, forse per il costo, lasciò
prudentemente cadere).
L’altro
metato funzionante era alla Bocca, ce l’aveva Pedrìn; Pedrìn da
la Boca, appunto, il nonno della mia bellissima, biondissima
amica Luisa.
Ci entrai
una sola volta con mia nonna Jusfina. Arrivammo lì e ricordo un
vapore cotonoso che usciva dal tetto, tra i coppi, e saliva lento,
sparpagliando un aroma piacevole nell’aria.
Il metato
somigliava al Ventasso col suo cappello di nuvole; sembrava che
stesse lentamente bruciando. Invece no.
Dentro, a
circa due metri dal suolo, le castagne s’asciugavano adagio distese
su una grata di travicelli di legno, i canìc; sotto, grossi
ceppi di castagno bruciavano pigramente.
Durava un
mese, l’essicazione, e credo che dovessero anche rivoltarle, le
castagne, perché seccassero del tutto; alcune, però, rimanevano
mollicce (al muian), così i bambini si mettevano a cercarle,
mentre gli adulti, dopo averle liberate dalla buccia sbatacchiandole
in un sacco su una grossa pietra, le passavano nella vasura.
Era una
gioia poterle mangiare subito senza cuocerle!
Pedrìn
da la Boca era rimasto l’ultimo a fare questo pesantissimo
lavoro con castagne e metato.
Pedrìn,
piccolo, silenzioso poeta capace d’improvvisare rime, era anche un
grande un fungaiolo. Uno dei primi a partire all’alba, uno di
quelli che mai nessuno è riuscito a pedinare quando s’avventurava
tra gli alberi della Piagna. Spariva e tornava carico di funghi e
faceva arrabbiare quelli di Predolo che volevano a tutti i costi il
primato di migliori raccoglitori.
Pure mia
nonna Jusfina dei boschi e dei castagneti conosceva ogni angolo, ogni
albero, ogni sentiero. E ogni fungaia. Le vene, quei luoghi
misteriosi in cui si aprivano famiglie intere di bei porcini: le
cuselle. Che poi, cosa importa se i porcini che si
raccoglievano erano, in realtà, di almeno quattro specie diverse?
Tutte cuselle, e basta.
Perché è
femminile, in dialetto, il nome del fungo porcino: la cusella;
il sostantivo boleto veniva invece principalmente usato, nei
nostri paesi, non tanto per il porcino, quanto per definire l’amanita
buona:“al bulée ross”.
Mia nonna
Jusfina le conosceva tutte le vene. Non partiva mai con
l’intenzione di girovagare per ore; sicura e svelta, si dirigeva
subito verso quei magici cerchi delle streghe e, ben attenta, come
tutti, che nessuno la seguisse per carpirle il segreto, riempiva il
grembiule o il cavagn o la borsa di stoffa nera - con due
anelli per manico - di profumato bottino.
Quando la
chiacchiera che “venivano i funghi” cominciava a diffondersi per
i paesi, questi si svuotavano e i boschi diventavano più affollati
della piazza del mercato il lunedì a Castelnovo. Partiva Pedrìn da
la Boca, partiva Peppo, partiva Ennio Croci - di Soraggio -
quando ancora era buio, che non ho mai capito come facessero a
vederci sotto le frasche! E partivano quelli di Predolo, tutti i miei
parenti, che guai a rimanere indietro!
Mio nonno
Carlo (che tutti chiamavano Carlùn, perché era alto, così
come suo fratello, morto giovane, era chiamato Prusprùn e
due suoi zii – Albertini di Cunt - di Gombio erano Tiliùn
e Cuntùn), andava invece ai funghi negli orari più
impensati, come il primo pomeriggio, e le sue erano visite
brevissime.
Conosceva
delle vene sotto ai pini (i pini silvestri, antico relitto
dell’ultima glaciazione) lungo la strada per Gombio. Si limitava ad
arrivare là, togliersi il cappello e metterci dentro i funghi, senza
tanto vagabondare. Mi aveva insegnato alcune vene anche ai
Valeti, in mezzo ai castagni, dove le cuselle venivano sempre
enormi, con un cappello marrone proprio simile a quello in cui mio
nonno le riponeva.
Più
piccole, morette, magre, sode e dal gambo paffuto erano, invece, le
cuselle della Piagna che spuntavano in mezzo ai fiori di brugo
in quel tipico terreno di sabbione rossastro. Ero al corrente di ogni
vena in quel luogo perché la mia bisnonna e mio nonno
Ambrogio me le avevano insegnate tutte.
Partivamo
pure noi bambini per l’avventura fungaiola: maglione rigorosamente
alla rovescio e occhi non lavati (che portava fortuna), stivali di
gomma, bastone, un cesto o una borsa di stoffa dove riporre il
raccolto. Anche noi, come gli adulti, ci sentivamo in competizione e
facevamo a chi ne avrebbe trovati di più.
Mio
cugino Ciro era il migliore, ma non scherzava nemmeno Domenico
Venturi, che, mica per niente, era nipote di Ennio Croci!
Quelli
eran giorni in cui i funghi li vedevi stesi a seccare dappertutto:
sulle aie, ben allineati sulle assi, sul tetto basso del pozzo,
davanti alle porte delle case, in cucina vicino alla stufa quando il
tempo minacciava. E l’odore di fritto, a mezzogiorno e a sera, si
diffondeva per i cortili.
Peppo e
Dirce credo che mangiassero solo funghi in tutte le salse, da tanti
che ne rastrellavano su!
Si
raccoglievano soltanto i porcini, i galletti (carnasö),
l’ovolo buono (amanita cesarea); tutti gli altri erano bisacàn,
li ritenevamo velenosi e li calciavamo, levandoli dal terreno.
O li
schiacciavamo, come le “loffe”, per far uscire quel
puzzolente fumo nero che poi altro non era che un soffio di spore.
In
primavera mio nonno Ambrogio prendeva su anche i bianchi prugnoli, e
mia mamma faceva ottime frittate con i chiodini, ma, in genere,
questi non erano ritenuti “veri” funghi; il “vero” unico
nobile fungo, quello che meritava ore e ore di cammino, era soltanto
la cusella.
Però,
chi era emigrato aveva imparato che non tutti i bisacàn erano
davvero velenosi. Come Gigeta, uno zio di mio nonno Carlo, che si
chiamava forse Luigi ma che, invece d’essere alto come gli altri
Albertini, era piccoletto, con una massa incredibile di capelli
bianchi sempre un po’ lunghi e un volto dolcissimo; pareva un
attore francese. Infatti era stato in Francia, e il tipico basco blu
che portava sempre ne era la riprova.
Gigeta da
Gombio saliva spesso a trovarci e un giorno ci portò due o tre
vasetti di funghi sott’olio che lui stesso aveva raccolto e
confezionato.
Mia mamma
lo ringraziò con calore, ripose i vasi nel tricantùn poi,
quando lui se ne fu andato, li riprese in mano, li osservò bene, si
consultò un po’ con mio nonno Carlo e decisero. Non erano cuselle;
non erano bulée ross, non erano carnasö.
Erano
quei porcini rossi dal gambo bianco picchiettato di grigio che
crescevano sotto i pioppi.
“Bisacàn”,
decisero. E li buttarono nel letamaio.
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