Cap.
1
SAMAELE
A
Tuat le tempeste di sabbia da sempre si manifestavano così,
abbattendosi violente, senza alcun segno premonitore, almeno per gli
europei che osavano inoltrarsi nel Sahara sino a quelle latitudini.

Il
vento incalzante modellava e rimodellava il deserto, eliminando segni
e punti di riferimento stabili, costringendo l’uomo a volgere gli
occhi al cielo alla ricerca di un appiglio sicuro al quale
aggrapparsi per potersi orientare.
Forse
per questo, per primi, alzarono lo sguardo alle stelle gli uomini
delle dune, nomadi dai tempi dei tempi, imparando a riconoscerle, a
disegnarne il cammino, indicandole, ad una ad una, con il giusto
nome.
E
nella volta celeste, oltre alle stelle che mostravano loro la strada,
finirono per incontrare l’Altissimo, il misterioso Dio unico. Il
Dio dalle cui braccia usciva il turbine e soffiava il vento che
reggeva le montagne, le quali circondavano il mare da cui
s'innalzavano le colonne che sostenevano la terra. Il Dio dei popoli
pellegrini di tutti i deserti.
Il
Dio che, nel silenzio e nella solitudine di quei luoghi, un giorno si
chinò misericordioso verso la sua creatura prediletta e le si
rivelò.
A
Tuat, in quel 1447, Antonio Malfante ed altri esploratori della
Repubblica di Genova, incapparono, invece, nella loro prima tempesta
di sabbia. E credettero di essere piombati nel principio
dell’Apocalisse.
Avevano
attraversato il Sahara alla ricerca delle misteriose miniere d’oro,
dalle quali il prezioso metallo giungeva sui mercati del
Mediterraneo. Ma non avevano incontrato che deserto: sabbia, sabbia e
rocce infuocate a perdita d’occhio. Niente miniere. Niente oro che
potesse soddisfare la fame aurifera dell’Europa. Una fame ormai
implacabile.
I
mercanti orientali vendevano a quelli europei un enorme quantitativo
di merci definendo i prezzi a loro piacimento ed esigendo il
pagamento in oro. Il denaro perdeva progressivamente di valore e la
situazione economica dell’Europa appariva disastrosa, sull’orlo
del collasso. Così erano partiti, i genovesi, verso quei luoghi
sconosciuti dai quali provenivano le mercanzie tanto ricercate: le
spezie, le sete, i profumi e, soprattutto, l’oro, il prezioso
metallo degli dei. Erano partiti con il progetto di trovare un modo
per attraversare l’Africa, ancora totalmente inesplorata di là
dalla fascia desertica.
Sino
a quel momento gli unici tentativi per cercare l’agognato passaggio
verso est erano stati fatti via mare, nel 1291 dai genovesi Ugolino e
Vadino Vivaldi, i quali non avevano fatto più ritorno, e nel 1455
dal veneziano Alvise di Ca’del Mosto e da Antoniotto Usodimare,
anch’egli di Genova, che raggiunsero le Isole di Capo Verde.
La
carovana di Antonio Malfante era partita da Tunisi in direzione di
Tàngeri; poi gli esploratori erano discesi a Safi e, infine, dopo
settimane di cammino, avevano avvistato le palme delle oasi di Tuat.
Qui li aveva sorpresi la tempesta ed ora Antonio Malfante se ne stava
rannicchiato, al riparo del cammello inginocchiato a terra, cercando
di respirare piano per non ingoiare la sabbia. E si sentiva
soffocare, si sentiva morire.
Si
sentiva anche solo. Non una voce, non un rumore. Soltanto il sibilo
terrificante del vento che spazzava le dune. Una solitudine completa,
cosmica; un vuoto infinito ed eterno che si spalancava, come una
bocca affamata, sopra, sotto ed intorno a lui. Poi, fulminea, così
com’era cominciata, la tempesta si acquietò.
Antonio
udì allora un suono fluttuante, struggente, acuto, completamente
sconosciuto: era forse quella la voce del Dio dei deserti? Un tremito
lo percorse da capo a piedi. Fissò la sua attenzione su ciò che
aveva percepito, sempre rannicchiato a terra, la testa in mezzo alle
ginocchia, completamente avvolto nel velo beduino e in parte sepolto
dalla sabbia.
No,
non si trattava di una voce; sembrava più un rumore, ma restava
qualcosa di strano, di nuovo. Provò a concentrarsi per qualche
minuto, mentre una sottile paura gli montava dentro. Poi capì: era
soltanto l’eco assordante del silenzio.
Un
silenzio immenso, che aveva sostituito il sibilo stremante del vento.
Terrorizzato, di scatto si alzò in piedi, liberandosi dalla sabbia
che lo ricopriva e aprì gli occhi, urlando con quanto fiato aveva in
gola.
–
Calma, signore, –
lo apostrofò una voce divertita – il peggio è passato! La
tempesta è finita. Ora possiamo raggiungere l’oasi e ristorarci.
A
parlare era stata una delle guide beduine che componevano la
carovana. Antonio rientrò in sé e si guardò intorno: la sabbia era
di nuovo immobile; il cielo sereno e infuocato, i cammelli già in
piedi col loro carico di bagagli intatto e tutti gli uomini pronti a
ripartire.
Ma,
proprio sul punto di avviarsi, egli si premurò di verificare il
contenuto di una bisaccia, prima di fissarla alla gobba del cammello.
S’inginocchiò a terra, la aprì e ne estrasse un lingotto d’oro.
Un raggio di sole, riflesso dal lucido metallo, gli colpì le
pupille, ferendole e accecandolo per qualche secondo. Istintivamente
chiuse gli occhi, ma quel lampo di luce sembrava ormai impresso
dentro di lui, indelebile e ostinato, illuminandogli il cervello di
sotto alle palpebre serrate.
Intanto,
sulla sabbia, qualcosa si muoveva, strisciando, nella sua direzione.
Una serpe, una piccola vipera dorata si avvicinava, lenta e sinuosa,
alla sacca aperta. La raggiunse e si dileguò al suo interno,
confondendo le proprie lucenti scaglie con il giallo brillante dei
lingotti.
Antonio
riaprì gli occhi, ripose il pezzo di metallo nella bisaccia, la legò
saldamente agli altri bagagli e ordinò alla carovana di riprendere
il cammino.
–
Cercherete le
miniere da cui proviene quell’oro fino in capo al mondo, signore? –
gli chiese la guida beduina.
– Voi
sapete dove si trovano?
– No,
ma so a chi appartengono…
– E
a chi, di grazia, se potete dirmelo?
–
L’oro appartiene a
colui che è il veleno di Dio, a Shemal, il più grande
principe del cielo, Samaele, colui che aveva fatto le tenebre, la
madre notte, prima che Dio creasse il suo universo nella luce. E il
principe delle tenebre segue sempre la sua unica possibilità di
luce: l’oro; la luce sepolta nelle profondità della terra insieme
con lui, quando fu gettato fuori dell'Eden dall’arcangelo Michele.
– Ah!
E questa sorta di angelo caduto seguirà il mio oro sino a Genova,
secondo voi?
– Non
il vostro oro, ma il suo. Egli lo seguirà sino a
Genova, lo seguirà in ogni luogo, perché egli regna e regnerà
sulla terra per mezzo suo. Ridete? Ditemi: che cos’è che tiene in
piedi gli imperi, i regni, i principati europei, le repubbliche
marinare? Su cosa credete siano fondati? Perché sono tanto assetati
d’oro?
Antonio
Malfante, banchiere e ricco commerciante ben in confidenza con l’oro
e con il denaro, era troppo razionale per prestare attenzione alle
favole del beduino, perciò non rispose e chiuse la conversazione,
scacciando il fastidioso senso d'inquietudine che si stava
impadronendo di lui.
Avrebbe
continuato la sua ricerca e sarebbe poi rientrato a Genova, era la
sua speranza, con buone notizie per la Repubblica e per l’Europa
intera.
Sì,
c’era bisogno d'oro, tanto bisogno, e ci si doveva affrettare per
trovarne nuove fonti. A scacciare e tenere lontani Samaele e tutti i
demoni, in Europa, ci pensava, già da secoli, la Santa Inquisizione.
Rasserenato, Antonio volse lo sguardo verso le oasi di Tuat, verdi
smeraldi incastonati nell’oro della sabbia, già pregustando un
bagno ristoratore nelle acque che là scorrevano, limpide e
trasparenti, ai piedi delle palme.
Intanto
nella sacca, in mezzo ai lingotti, una piccola serpe dorata riposava
tranquilla, arrotolata a spirale, come una galassia di stelle nel
cielo, preparandosi a sbarcare, con il suo oro, nel porto di
Genova.
– Dio
mio, Martìn, dove avete trovato tutto quell’oro?
Cristobál
Colón è senza parole, sinceramente sorpreso, mentre pare uno dei Re
Magi, il capitano Pinzòn, davanti al suo ammiraglio, in quel giorno
dell’Epifania del 1493. Dal momento in cui avevano messo piede in
quelle terre sconosciute, per la prima volta si ritrovavano tra le
mani un tesoro tanto grande e l’emozione è inevitabile.
Martìn
Alonso Pinzòn sembra imbarazzato e cerca persino di giustificarsi:
– Me
lo sono procurato commerciando con i nativi… Mi scuso per il mio
comportamento, ammiraglio: non era mia intenzione ingannarli, ma quei
selvaggi sono così ingenui che non sanno dare valore a ciò che è
veramente prezioso… Preferiscono le cianfrusaglie che abbiamo
portato dalla Spagna!
– Ah!
Pinzòn! Attento a non lasciarvi prendere dal demone dell’avidità!
Abbiamo già avuto abbastanza problemi nel viaggio d’andata e
abbiamo bisogno dell’aiuto del Signore per il ritorno! Non
mettiamoci contro di lui! Ed ora chiamatemi Juan del Campo: voglio
comunicargli la bella notizia.
Il
nome dell’isola presso la quale erano ancorate le caravelle, in
quel 6 gennaio 1493, secondo Guacanagarì, capo degli indigeni, era
Haiti, ma Colón l’aveva subito ribattezzata Isla Hispaniola, in
onore della Spagna. Poteva trattarsi della famosa Cipangu?
La
cultura del luogo sembrava più avanzata, rispetto a quella delle
isole vicine, gli abitanti più laboriosi e civilizzati, ma non si
era ancora riusciti a trovare niente che potesse confermare i
racconti di Marco Polo sulle favolose terre del Gran Khan.
Finalmente
Colón prova un certo sollievo: tutto quell’oro lascia ben sperare
nella possibilità di trovarne le miniere, da qualche parte. Il
rischio di rientrare in Spagna vergognosamente a mani vuote è
allontanato:
–
Juan, amico mio,
venite… guardate: è il tesoro che mostreremo ad Isabella, ed è
solo il primo, piccolo assaggio delle immense ricchezze sepolte in
queste terre!
Juan
del Campo si era imbarcato, con l’amico Cristobál Colón, il 3
agosto 1492 nel porto fluviale di Palos de la Frontera, sul Rio
Tinto. Veniva da Toledo e non era un marinaio. Non lo aveva spinto la
voglia d’avventura, né il desiderio di ricchezze e nemmeno lo
aveva mosso lo spirito cristiano dell’evangelizzazione di nuovi
popoli.
A
condurlo fino a Palos era stata la disperazione; il vuoto in cui,
ormai da tempo, era confinata la sua esistenza. Desiderava lasciarsi
alle spalle un’immensa sofferenza che da sei anni lo attanagliava,
lo soffocava e non gli permetteva di risollevarsi. Aveva vissuto la
traversata atlantica con indifferenza, tutto assorto nel suo dolore,
fino a quegli ultimi tremendi giorni in cui l’equipaggio aveva
urlato il proprio disprezzo all’ammiraglio Colón:
– Dove
vuole portarci quel pazzo di un genovese? Navighiamo da più di un
mese e non si vedono altro che acqua e cielo…
Juan,
in quel difficile frangente, era stato d’aiuto all’ammiraglio; lo
aveva rassicurato e consolato. Poi, alle due del mattino del 12
ottobre, il grido di Rodrigo de Triana dalla coffa della Pinta:
“Tierra! Tierra!” e il colpo di cannone che annunciava al nuovo
mondo l’arrivo dell’uomo bianco e delle sue nuove, terribili
armi. A mezzogiorno, Cristobál Colón si era potuto finalmente
inginocchiare sulla terra della baia Fernandez e baciarne il suolo,
tra lacrime di gioia.
– Oro,
Colón, finalmente! – Juan soppesa con lo sguardo il tesoro nelle
mani di Pinzòn – Adesso potete rientrare in Spagna; la vostra
ricerca è terminata.
–
Rientreremo, Juan,
insieme… Non penserete di fermarvi in queste terre? Sono obbligato
dalla perdita della Santa Maria a lasciare qui il capitano Diego de
Haranta con i suoi uomini: ma voi no, voi dovete ritornare con me!
La
Santa Maria si era arenata su un banco corallino proprio alla
mezzanotte della vigilia di Natale. Forse a causa della distrazione
di un marinaio troppo stanco, forse perché la nave era stata
costruita con poca cura ed era stata danneggiata dalla traversata, la
chiglia si era irrimediabilmente forata e la nave era affondata lì,
nei pressi dell’Isla Espanola.
L’ammiraglio
aveva così improvvisamente deciso di istituire un presidio di
trentanove uomini che avrebbero atteso, cercando e raccogliendo
campioni d’oro, una nuova spedizione dalla Castiglia.
Ed
ora Colón attribuiva alla mano di Dio la responsabilità
dell’accaduto: il Signore aveva voluto indicargli la via dell’oro
costringendolo, con un incidente, a fermarsi su quell’isola.
Ma
il vero motivo e il vero artefice del naufragio, Juan li conosceva
benissimo e ne era ancora sconvolto. Da allora le parole del profeta
Ezechiele, tante volte lette e meditate insieme con la sua sposa, gli
risuonavano ossessive nella mente:
“Tu
eri perfetto nella tua condotta quando fosti creato, finché non si
trovò in te malvagità. Con l’abbondanza del tuo commercio ti
riempisti di violenza e di peccati; io ti disonorai cacciandoti dal
monte di Dio! Ti feci perire, cherubino guardiano, cacciandoti via
dalle pietre di fuoco! Il tuo cuore s’inorgoglì per la tua
bellezza; perdesti la sapienza a causa del tuo splendore… Con
l’abbondanza delle tue colpe, con la malvagità del tuo commercio
profanasti i tuoi santuari… Diventasti oggetto di terrore e non
sarai mai altro che terrore.”
Ed
era stato vero terrore quello che, la notte di Natale 1492, si era
impadronito del marinaio assegnato al timone della Santa Maria e di
Juan del Campo, che con lui si era intrattenuto a conversare.
Era
comparso in un guizzo di luce, come materializzandosi dal nulla. Un
serpente, forse una vipera del deserto, gialla come la sabbia, si era
improvvisamente avvinghiata al timone. Juan del Campo e il marinaio
erano indietreggiati per lo spavento, abbandonando la guida della
caravella.
La
testa eretta, gli occhi gelidi, le fauci spalancate e la lingua
biforcuta ben in vista, la bestia li osservava in atteggiamento di
sfida. I due avevano cercato di scacciarla, colpendola ripetutamente,
ma la serpe si era avventata sibilando contro di loro, invulnerabile
e ben determinata a non mollare il timone.
Poi
il disastro: un tonfo sordo, uno scossone violento, le urla dei
marinai. La nave si era arenata. La serpe era scomparsa “…
eleverò il mio trono là nel supremo settentrione…”,
aveva predetto Isaia.
Shemal,
il veleno di Dio, era giunto a destinazione.
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