http://www.giornaledibarganews.com/2012/09/26/paradisoemilia/
Questa storia (non breve) inizia dalla fine di una giornata memorabile.
Siamo in una grande stalla che ospita centinaia di bovini di razza frisona. E’ il tardo pomeriggio e nella sala mungitura ragazzi indiani e allevatori emiliani collaborano al “raccolto” di quel prezioso liquido bianco che, una volta uscito dalla stalla sociale, diventerà uno dei formaggi più pregiati d’Italia: il Parmigiano Reggiano. Le grandi stalle, affiancate da spazi per il pascolo all’aperto, ospitano anche una mastodontica colonia di mosche (e affini) e innumerevoli nidi di piccione. Il fienile è grande quanto un piccolo palazzetto dello sport e le rotoballe di fieno non si contano. Nemmeno la loro ricaduta sul paesaggio, ma di questo parleremo più avanti.
Facciamo un passo indietro nella giornata che stiamo raccontando e ci troviamo tra i grandi bollitori in cui, nel caseificio sociale “Il Fornacione” di Felina (RE), nasce il Parmigiano Reggiano. Storia, tradizione, tecnologia e un moderno sistema di controllo garantiscono sapori e valori nutrizionali al termine di un lungo percorso. Arriva il latte, si fa il formaggio, si mette nelle fasce di plastica che imprimeranno l’inconfondibile scritta sulla forma, poi la forma va nella fasce di metallo e cala nella salamoia per circa venti giorni. Seguono mesi, fino a 24, di stagionatura e controlli. Enormi scaffali custodiscono migliaia di preziose forme, un robot le gira e le spazzola, un martellino e il sapere di mani esperte certificheranno la qualità finale. Il risultato è duplice: il marchio a fuoco del Parmigiano Reggiano sulla forma e il prezzo fissato per la vendita. Intanto, dopo il terremoto della scorsa primavera anche le scaffalature sono state rese antisismiche. E’ la misura minima per salvaguardare il valore del formaggio e la vita di chi tra quelle scaffalature deve muoversi.
A raccontarci tutto questo è un giovane (e bravo) operatore del caseificio, ma noi abbiamo una “guida” d’eccezione: Normanna Albertini. E’ grazie a lei che poco prima del tramonto siamo entrati nel caseificio e nella sala di mungitura. E’ grazie a lei che da ore ci muoviamo alla scoperta di una parte dell’Appennino Reggiano. I nostri occhi vedono ma Normanna ci apre porticine che non avremmo mai aperto, ci dà le chiavi di lettura per quello che vediamo. Poteva non essere così con lei che ha riscoperto “Pietro dei colori“?
il Blog di Normanna Albertini - Insegnante e scrittrice. "Ogni persona brilla con luce propria fra le altre. Ci sono persone di un fuoco sereno, che non sente neanche il vento e persone di un fuoco pazzesco, che riempie l'aria di scintille. Alcuni fuochi, fuochi sciocchi, né illuminano né bruciano, ma altri si infiammano con tanta forza che non si può guardarli senza esserne colpiti, e chi si avvicina si accende." (Eduardo Galeano)
mercoledì 26 settembre 2012
martedì 25 settembre 2012
SHEMAL (mio primo romanzo) - Incipit
Cap.
1
SAMAELE
A
Tuat le tempeste di sabbia da sempre si manifestavano così,
abbattendosi violente, senza alcun segno premonitore, almeno per gli
europei che osavano inoltrarsi nel Sahara sino a quelle latitudini.

Il
vento incalzante modellava e rimodellava il deserto, eliminando segni
e punti di riferimento stabili, costringendo l’uomo a volgere gli
occhi al cielo alla ricerca di un appiglio sicuro al quale
aggrapparsi per potersi orientare.
Forse
per questo, per primi, alzarono lo sguardo alle stelle gli uomini
delle dune, nomadi dai tempi dei tempi, imparando a riconoscerle, a
disegnarne il cammino, indicandole, ad una ad una, con il giusto
nome.
E
nella volta celeste, oltre alle stelle che mostravano loro la strada,
finirono per incontrare l’Altissimo, il misterioso Dio unico. Il
Dio dalle cui braccia usciva il turbine e soffiava il vento che
reggeva le montagne, le quali circondavano il mare da cui
s'innalzavano le colonne che sostenevano la terra. Il Dio dei popoli
pellegrini di tutti i deserti.
Il
Dio che, nel silenzio e nella solitudine di quei luoghi, un giorno si
chinò misericordioso verso la sua creatura prediletta e le si
rivelò.
A
Tuat, in quel 1447, Antonio Malfante ed altri esploratori della
Repubblica di Genova, incapparono, invece, nella loro prima tempesta
di sabbia. E credettero di essere piombati nel principio
dell’Apocalisse.
Avevano
attraversato il Sahara alla ricerca delle misteriose miniere d’oro,
dalle quali il prezioso metallo giungeva sui mercati del
Mediterraneo. Ma non avevano incontrato che deserto: sabbia, sabbia e
rocce infuocate a perdita d’occhio. Niente miniere. Niente oro che
potesse soddisfare la fame aurifera dell’Europa. Una fame ormai
implacabile.
I
mercanti orientali vendevano a quelli europei un enorme quantitativo
di merci definendo i prezzi a loro piacimento ed esigendo il
pagamento in oro. Il denaro perdeva progressivamente di valore e la
situazione economica dell’Europa appariva disastrosa, sull’orlo
del collasso. Così erano partiti, i genovesi, verso quei luoghi
sconosciuti dai quali provenivano le mercanzie tanto ricercate: le
spezie, le sete, i profumi e, soprattutto, l’oro, il prezioso
metallo degli dei. Erano partiti con il progetto di trovare un modo
per attraversare l’Africa, ancora totalmente inesplorata di là
dalla fascia desertica.
lunedì 24 settembre 2012
MIA INTRODUZIONE AL LIBRO "IL GIORNO DI NOZZE - COME ERA UNA VOLTA", DI IVO RONDANINI
PREFAZIONE
Le spose di ogni tempo risultano belle, eppure, quelle del passato hanno qualcosa in più: comunicano grazia e fascino quieti, disciplinati dalla consuetudine, plasmati dal lavoro, dalla pazienza e dalla tenacia; occhi innocenti tuttavia maturi, volti puliti, capelli acconciati con grazia, sguardi composti che nulla lasciano filtrare delle suggestioni d’amore. Giovani donne d’inizio Novecento del territorio di Carpineti, in questo terzo lavoro di Ivo Rondanini, e poi donne degli anni successivi, fino al Cinquanta/ Sessanta delle stesse zone; donne dei campi, ma anche figlie della media borghesia locale; donne energiche, alcune appena alfabetizzate, altre sicuramente ben istruite.
Accanto, i loro sposi: giovanotti con la pelle segnata dal sole e dalla vita, come non è più dei ragazzi di oggi; gli sguardi adulti, consapevoli e sicuri.
Un volume suggestivo e di valore per le immagini dei matrimoni del carpinetano e per le annotazioni che le accompagnano; una galleria di volti, di pose, di gruppi che colpisce per la forza dei visi e la successione delle bellezze non solo contadine - tipiche e severe - ma anche (quelle più vicine nel tempo) modernamente allegre e vivaci. Le donne del Novecento ostentano pose e avvenenza da originali vedette dell’epoca, come Amabile Arati, di Casteldaldo, dal viso intenso e dai capelli seminascosti dalla “cloche”. Siamo negli anni Venti, gli anni “ruggenti. Dopo le privazioni e le paure della guerra, si apriva una nuova epoca di benessere e ottimismo e un nuovo senso di libertà e speranza si diffondeva nella società.
Sono gli anni di Chanel e Schiaparelli (di cui, probabilmente, le spose di Carpineti nulla sapevano) artefici del nuovo abbigliamento femminile, pratico, funzionale, di grande eleganza e bellezza.
Gli abiti semplici, senza busti né stecche, liberavano per la prima volta
i movimenti della donna: le linee diventavano dritte, i tessuti morbidi,
la vita bassa, la gonna un po’ più corta. E poi i capelli tagliati a caschetto
scendevano, sbarazzini, sotto la “cloche” calzata fino alle sopracciglia. Il
marito di Amabile, Domenico Casoni - a parte una vistosa sciarpa a righe
- appare invece molto discreto; camicia bianca, quella delle occasioni particolari,
pantaloni ampi, introdotti intorno al 1925 e il cui uso scomparve
negli anni Trenta, giacca con fazzoletto bianco nel taschino e cravatta in tinta. Altra peculiarità dell’abbigliamento maschile, nel periodo fra le due guerre, furono i pantaloni alla zuava, come ci conferma la fotografia del giorno di nozze di Paolo Mercati e Cesarina Corbelli dell’anno 1937. Le foto di matrimonio sono, in realtà, degli inconsueti ed eccezionali “sociogrammi”: di una situazione descrivono e ci raccontano molto più di tante parole.
venerdì 21 settembre 2012
giovedì 13 settembre 2012
QUANDO LA VITE SI MARITAVA AGLI OPPI - Racconto di settembre
http://www.redacon.it/2012/09/13/quando-la-vite-si-maritava-agli-oppi-il-racconto-di-settembre-di-normanna-albertini/
la vallata di Felina, con le viti a piantata, nel 1961 |
La tina - al femminile
- era il grembo sicuro in cui l’uva diventava vino.
Piazzata in cantina,
era un’alta, maestosa signora dall’abito di legno bruno; le doghe
tenute insieme da possenti cerchi di ferro.
Femmina, come le botti
ben allineate lì vicino, sui basamenti contro una parete, emanava un
alcunché di magia e mistero dietro la piegatura sinuosa delle assi,
la loro perfetta saldatura.
Magici e misteriosi
erano i rumori, i brontolii sommessi che ne scaturivano nei
dieci/venti giorni seguenti la pigiatura, come indiscreto, eccessivo,
aspro e felpato, era l’odore che invadeva tutte le stanze e
impregnava abiti e cose. Quando sentivi quell’odore, già
t’immaginavi le “mondine” ritirate dalla stufa, sbrigativamente
spellate e tuffate, ancora calde, nel vino novello.
Il dolce della polpa
delle castagne e dei marroni, soavemente combinato con l’acido di
quel vino appena rosseggiante, dalla bassissima gradazione, ma dal
sapore speciale, era una delle finestre che s’apriva sull’autunno.
L’estate era davvero finita.
Io avevo paura a
scendere in cantina. Era una paura infusa a dovere, a furia di
raccomandazioni e favole, e serviva a tenere noi bimbetti a debita
distanza dal pericolo di ruzzolare per le scale.
E lontano dal vino e
dai salumi, quasi di sicuro.
Per quel che avevo
capito dalle parole di mio nonno Carlo, in cantina soggiornava la
Burda, una creatura spaventosa, forse una strega; un essere
che mi avrebbe acchiappato per le trecce e divorato al volo.
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