Credo in chiesa, dove il prete, Donvalerio (pronunciato
tutto attaccato, visto che solo verso i sei anni compresi che si trattava di
“don” seguito da “Valerio”), celebrava la messa in latino ma predicava in
italiano. La nuova lingua, appunto.
Avevo imparato a memoria tutte le risposte dopo quell’ “Introibo ad altare Dei…”,
partendo da “ad Deum qui laetificat juventutem meam” e via con tutto il
dialogo.
In italiano c’era solo la predica e Donvalerio predicava
davvero come mangiava (e come mangiava!), con semplicità e affetto; lo capivamo
tutti.
Lo capivo anch’io, che l’italiano non lo sapevo.
Oppure, la nuova lingua l’avevo ascoltata alla radio, quando
mio nonno, dopo pranzo, si sedeva accanto all’apparecchio di legno e metallo
dorato (ottone?) appoggiato in alto su una mensola (nuova divinità del
focolare), estraeva il pacchetto di moro e le cartine, si arrotolava la seconda
delle tre o quattro sigarette che fumava durante il giorno; infine, dopo il
cinguettio di un uccellino radiofonico, ascoltava il “Bollettino”.
Lo chiamavano in quel modo probabilmente dal tempo di
guerra: “Bollettino”, oppure “Comunicato”, ma era semplicemente un giornale
radio.
La nuova lingua l’avevo ascoltata ancora da un girovago che
era capitato in paese con un mucchio di cartoline e altre cianfrusaglie; si era
messo a cantare in un cortile che “niuiorch è sempre in america” e mio nonno,
per un bel po’, parlando di lui, lo chiamò così: “Niuiorchsemprinamerica”.
Poi l’avevo ascoltato, l’italiano, da un venditore ambulante
di stoffe che, sceso dal furgone nell’aia vicino all’oratorio, davanti a noi bambini
seduti in terra a giocare, mi aveva tirato le treccine e mi aveva detto:
«Bella bambina, vai a chiamare la tua mamma e le dici che
c’è L., se ha bisogno?»
Ci capii poco, scesi verso casa ripetendomi quelle parole ad
alta voce, ma quando dischiusi l’uscio non riuscii a spiegare alla mamma né
perché ero lì, né che cosa il tipo mi avesse detto e me ne scappai subito
fuori. A quei tempi, i ceffoni erano sempre pronti per i bambini; c’era da
prenderli da tutti, mica solo dalle mamme, (e non era una questione di
violenza, ma di allenamento alla sopravvivenza in una realtà piena di pericoli)
perciò si stava sempre sul chi vive.
Comunque, quella volta le schivai.
![]() |
Viacava (Felina), mamma e nonni di Danila Cilloni |
Insieme alla radio che, in quel periodo, ogni famiglia aveva
provveduto ad inserire tra i pochi arredi delle cucine.
Era stato tutto uno squarciare di pareti (far dei buchi nei
muri a sasso delle case vecchie implicava provocare voragini…) per infilarci
delle mensole su cui poggiare la radio, anzi: l’ “aradio”, sostantivo maschile
che iniziava per vocale.
Così, l’”aradio” andava a fare compagnia all’asse attaccata
sopra al lavandino a cui erano appesi i secchi dell’acqua potabile, alla stufa
dal piano con i cerchi di ghisa (la cucina economica smaltata di bianco, con
quella scritta illeggibile in tedesco che era la marca), alla panca di legno.
L’ “aradio” si accendeva solo per il “Bollettino” e guai ad
accenderla se era morto qualcuno in quei giorni!
Insomma: quando la maestra attaccò alla parete i cartelloni
delle vocali, cominciando da quello dell’ape, e mi stampigliò un bell’asino,
un’oca, un elefante, un grappolo d’uva e
un imbuto con dei timbri di gomma e l’inchiostro blu sul quadernino (a
quadretti), io qualcosa della nuova lingua sapevo già. Ma non era la mia
lingua.
Non era la nostra lingua. Eravamo cresciuti con altre
pronunce, ritmi, timbri, come la “u” dal suono dolce e stretto, che poi avremmo
ritrovato in francese, o quel suono intermedio tra “e” e “o” , molto chiuso ed
inesistente in italiano.
Eravamo cresciuti con parole e modi di dire, frasi
idiomatiche che non avevano un corrispondente in italiano e per noi fu davvero
difficile doverci poi esprimere e raccontare in quella nuova lingua.
Come tradurre “garotle” o “garutlada”? E mettersi “in cul
busun?” Come tradurre “a l’aibasìn”?
Così, ai primi tentativi, si tendeva semplicemente ad
italianizzare le parole dialettali, o le frasi, magari aggiungendoci in fondo
una vocale.
Esemplare l’imperativo “Vieni qua”, che in dialetto suona
“Ven utre” e che i bambini “meno bravi” traducevano “vieni otro”.
A ripensarci, si consideravano errori quelli che, in realtà,
erano gli accomodamenti di chi, cresciuto con un’altra lingua, era costretto a
pensare e scrivere in una nuova.
E in casa, la lingua degli affetti, la lingua del
quotidiano, rimaneva comunque il dialetto.
Davvero mi sarei vergognata a rivolgermi in italiano ai miei
genitori o ai miei nonni.
Intanto, anche in chiesa, con il Concilio Vaticano Secondo,
si era passati all’uso dell’italiano e Dovalerio (tutto attaccato) ci aveva
fatto imparare le risposte da dargli, appunto, in italiano.
Ma il rosario nell’oratorio, nel mese di maggio, con mia
nonna Eva che guidava, rimaneva ostinatamente in latino e pure ogni sera,
salendo le scale per andare a dormire, mia nonna Eva sgranava il suo rosario di
Ave e Pater e Gloria in latino.
“Le casette stupefatte/ sono bianche come il latte./ Tutto è
bianco, monti e valle/ è un diluvio di farfalle…” credo che sia stata la prima
poesia che ho imparato a memoria, ma quella che più mi fece soffrire fu la
poesia di Natale:
“Tutti vanno alla capanna/per veder che cosa c’è/ c’è un
bambin che fa la nanna/ tra le braccia della mamma./ Oh se avessi un vestitino/
da donare a quel bambino!/ Un vestito non ce l’ho/ un bacino gli darò!/.
Mi misero in piedi su una sedia, in mezzo alla chiesa. Mi
pareva immensa, allora, la chiesa, e mi parevano altissime le persone intorno:
le donne col fazzoletto legato sotto la gola, gli uomini con il cappello in
mano.
Mi aveva rassicurato la voce bella e calda di mio nonno
Carlo che accompagnava sempre i canti, compreso “Tu scendi dalle stelle”,
laggiù, in fondo, vicino alla porta dove stavano gli uomini, ma quando mi
trovai su quella sedia, anch’io col mio fazzoletto in testa legato sotto la
gola, non riuscii a staccare gli occhi dalla punta dei miei scarponcini.
Dissi la poesia tutta d’un fiato con le lacrime che
premevano, chiedendomi perché ai bambini si dovessero imporre simili durezze.
A leggere, ad ottobre, avevo imparato subito; nonostante il
dialetto, era stato facile: mettere insieme consonanti e vocali mi era sembrato
un esercizio sempliciotto. O forse la maestra Alda era stata bravissima. E
dopo che la mia compagna di banco,
Adele, aveva esordito, rispondendo alla maestra, con un bell’ “A come… A come…
bega!”, perché così si dice in dialetto, Alda, invece di arrabbiarsi, era
scoppiata a ridere.
Qualche settimana e avevo subito scoperto che l’esercizio
del leggere ti apriva altri mondi e, in una realtà senza televisione, quella
era l’unica vera possibilità d’avventura!
Divorai letteralmente il libro di lettura e la nuova lingua,
finalmente, cominciò a diventare anche quella dei miei pensieri e dei miei
sogni.
Fu la Befana del ’63 a portarmi un dono incredibile. Aprii
il pacchetto e trovai un libro.
Un libro intero, un romanzo tutto per me. Seppi solo anni
dopo che ad avere quel meraviglioso pensiero era stata la mia bisnonna materna,
Giuseppina; non era mai andata a scuola, lei, e aveva imparato a leggere e
scrivere da sola. Comprarmi un libro era stato, lo capisco ora, un gesto di grande
amore e intelligente speranza. Sguardo sul mio futuro.
La storia del burattino Pinocchio, con tutte le difficoltà
di quell’italiano ancora troppo toscano, entrò nel bagaglio delle mie
conoscenze ma, prima di tutto, nelle mie emozioni, nella mia immaginazione e
nel mio cuore.
Poi la maestra Alda cominciò a portarmi da casa tutti i
libri che volevo: “Tom Sawyer” e “Huckleberry Finn” di Mark Twain, “Alice nel
Paese delle Meraviglie”, i romanzi di Jules Verne, “Piccole donne” di Louisa
May Alcott , “Peter Pan” di James Matthew Barrie, “Il piccolo Lord” e “Il
giardino segreto” di Frances Hodgson Burnett , “Cuore” di Edmondo De Amicis (quanti
pianti!), “Kim” e “Il libro della giungla” di Rudyard Kipling , “Zanna Bianca”
e “Il Richiamo della Foresta” di Jack London, “Senza famiglia” di Hector Malot
… ma anche “Le avventure di Oliver Twist” e “David Copperfield” di Charles
Dickens.
Credo di aver letto una media di tre o quattro libri a
settimana per tutto il corso delle mie scuole elementari. A quel punto, la
nuova lingua era anche quella dei sentimenti, era anche quella della scrittura.
Così, un giorno, in terza elementare, durante un dettato in
classe, mentre la maestra Alda ripeteva per i più lenti, io presi un foglietto
dal quadernino di brutta e mi misi a scrivere una poesia.
La maestra mi sgridò e mi chiese di portarle il foglio.
Glielo consegnai, imbarazzatissima.
Lei lesse, mi guardò, non disse niente.
Poi prese dal cassetto della cattedra della carta da lettera
e, durante l’intervallo, la vidi che scriveva tenendo il mio foglietto a
fianco.
La mia poesia venne pubblicata, a Pasqua, su “Famiglia Cristiana”.
La nuova lingua, adesso, era mia.
Nessun commento:
Posta un commento