http://www.redacon.it/2013/01/05/blu-nocciola-e-verde-pisello-uno-stile-diverso-pieno-di-humor-della-scrittrice-normanna-albertini/
BLU, NOCCIOLA E VERDE PISELLO.
Soraggio, una voragine, un buco, un canyon. Mancano soltanto i coyote e gli avvoltoi a catapultarsi sui morti in fondo ai precipizi. Il nulla assoluto. Una persona per la strada, però, c’è.
Meno male.
BLU, NOCCIOLA E VERDE PISELLO.
Soraggio, una voragine, un buco, un canyon. Mancano soltanto i coyote e gli avvoltoi a catapultarsi sui morti in fondo ai precipizi. Il nulla assoluto. Una persona per la strada, però, c’è.
Meno male.
“Mi scusi: sa dirmi dove posso trovare un ristorante?”
Seguo le indicazioni e scendo fino allo specchio d’acqua che pare una diga. Superficie color colluttorio, tipo calderone delle streghe. Mi accosto. Improvviso, qualcosa di nero mi saetta davanti. Un gatto; lo evito per un pelo. Accidenti a lui; faccio il tifo per il Bigazzi televisivo e per i suoi arrosti felini alternativi. Peccato l’abbiano espulso dalla Rai, a me stava simpatico. Non faccio in tempo a rimettere in marcia la mia Pandina verde pisello che un’altra cosa, enorme stavolta, però, mi rovina sopra con frastuono da undici settembre. Dopo aver sacramentato un bel po’, tirando giù dal cielo tutti i santi e le madonne conosciute (e pure alcune testé ideate), scendo dalla macchina e verifico l’ identità del terrorista; ed eccolo lì, il cinghiale, che mi guarda con grugno da uomo politico (adesso non saprei dire quale) implorando aiuto. Almeno così risulterebbe dagli occhi sbarrati. E adesso? Chiamo i carabinieri? Un veterinario? E la mia Pandina ripartirà? E, soprattutto, chi mi ripagherà il danno? Troppo comodo pensare di usare il cellulare; fossimo a Gardaland funzionerebbe, ma qui non c’è campo; montagne russe naturali a costo zero, ma niente ripetitori. Ricomincio a stramaledire ogni autorità conosciuta, dal mio direttore al presidente del consiglio, quando mi capita di buttare l’occhio nel verde colluttorio. Mi viene da pensare che abbiano usato l’acqua per tingerci i fazzoletti e le bandiere del senatur, ma qui siamo in teronia, fuori dai confini dalla Padania. Impossibile. Però è bello, il lago. Lo studio meglio. Un tuffo al cuore. C’è qualcosa che galleggia vicino alla riva, e non pare un mucchio di stracci. Amenochè non sia un manichino con parrucca bionda. O una bambola gonfiabile. Rigetto il pensiero pornografico in cui, per un attimo, coinvolgo bambola di plastica, taglialegna e guardie forestali. Un morto. Tremiti ghiacciati mi salgono lungo la schiena. Sono solo, non passa un cane (solo gatti neri e ottusi cinghiali suicidi), di fronte a me c’è una rupe terrificante che pare ospitare soltanto uccellacci enormi - i quali saranno pur falchi, non avvoltoi, ma risultano comunque inquietanti - e tutt’intorno boschi, boschi a perdita d’occhio; nient’altro. E un cadavere nella diga fosforescente. Sono lì che prendo a calci la mia Pandina, quando un rumore simile a motosega su di giri mi dice che sta arrivando un apecar. Infatti. È un tizio che trasloca; nella parte posteriore del veicolo ha legato un divano tre posti e relativo televisore nuovo al plasma. Lo fermo, gli indico il cinghiale, poi il corpo nel lago. Strabuzza gli occhi e riparte a gran velocità:
“Vo’ a chiamare i carabinieri.”
Ricomincio a prendere a calci la Pandina. M’avessero mandato nella Padania legaiola di là dal Po, che lì, tra tangenziali e rotatorie – con annesso monumento al porco o al tortello di zucca, perché la rotatoria deve pur veicolare la cultura del luogo – si arriva in un baleno, salvo incappare in una gara tra camionisti pakistani, indiani e polacchi che con una mano manovrano il cellulare, con l’altra reggono il kebab, con cos’altro impugnino il volante non si sa, ma sorpassano a più non posso. M’avessero mandato là, sarei stato più tranquillo. Invece.
M’hanno spedito in Garfagnana, su monti che, se si chiamassero Alpi, significherebbero Cortina, alberghi, negozi di lusso, centri benessere dove fare bagni di fieno, luoghi di avvistamento (a pagamento) del rarissimo topo d’angora delle malghe. Invece: si chiamano Appennini, che è come dire un vestito cinese da cinque euro contro un abito da trentamila euro dello stilista lampadato e botulinato.
M’hanno spedito in Garfagnana, su monti che, se si chiamassero Alpi, significherebbero Cortina, alberghi, negozi di lusso, centri benessere dove fare bagni di fieno, luoghi di avvistamento (a pagamento) del rarissimo topo d’angora delle malghe. Invece: si chiamano Appennini, che è come dire un vestito cinese da cinque euro contro un abito da trentamila euro dello stilista lampadato e botulinato.
“Vai in Garfagnana in cerca del biroldo”, m’aveva ordinato il direttore, “che sai: fa tanto tendenza recuperare questi cibi antichi”. “Codesti cibi”, avrebbe detto Bigazzi, prima di consigliare la ricetta del gatto arrosto ed essere cacciato dalla Rai. “Codesti” lo usano solo in Toscana e qui, anche se pare l’Albania della guerra d’occupazione di mio nonno buon’anima, è Garfagnana, quindi Toscana. Foreste e foreste, e macchie e boschi, e burroni, e strettissime valli alle cui pendici sono agganciati paesini che ti chiedi se la gente la pagano per viverci. Oppure se ce la tengono relegata con nascoste reti elettrificate. Appunto: di cosa diavolo campano da queste parti? Mangeranno solo le patate e i fagiolini di Bigazzi? Oltre ai gatti, naturalmente. Lo chiamano vivere slow ed è tanto di moda. Alla faccia del vivere slow! E certo che vai slow, su queste strade! Prova a viaggiare fast se ci riesci, prova. Può essere che ti spappoli contro un gigantesco trattore carico di legname, il cui conducente, cuffie dello stereo sulle orecchie e aria condizionata in cabina, nemmeno si accorge della tua misera Panda verde pisello. Mi ha mandato qui il “Carlino”, il quotidiano, ovvio, non il barista del Centro sociale anziani “La Magnolia” che tutte le mattine mi serve il caffè e brontola perché a Reggio Emilia dei marocchini non se ne può più, mentre gli indiani sì che vanno bene, quelli lavorano nelle stalle, che senza di loro addio Parmigiano! Ecco, appunto: il Parmigiano. Un bel servizio sul Parmigiano no, eh? Mi mandano in Garfagnana per il biroldo. Che poi, quando, scendendo da Pradarena, sono arrivato a Sillano, il tom tom, con la voce stridula di quella che beve l’acqua che fa plin plin, mi ha detto di svoltare a sinistra. Malauguratamente, secondo il mio navigatore femmina, mi sarei dovuto infilare in un cunicolo, il riepilogo di una strada, diciamo.
“Ci passa la mia Panda, secondo lei?”
“Sì, sì, ‘un si preoccupi.” Mi ha tranquillizzato uno dei tanti seduti sulla via, ma proprio accomodati con tanto di seggiole, e molto, molto impegnati in accese discussioni.
“È davvero sicuro? Si va sul serio a Soraggio per di qui?”
“ E ‘un lo vede?” ha risposto quello, con la finezza, l’amabilità e lo charme tipico di queste parti, “’un l’ha visto il cartello?” Due le opzioni: o sputargli in un occhio, o stramaledire Dante Alighieri e tutti i suoi conterranei e proseguire. Ho scelto la seconda opzione e ho infilato il mio missile verde nel budello. Essere in viaggio da due ore e mezzo e non vedere la fine nemmeno col binocolo è davvero appagante. Fosse stata autostrada sarei già arrivato; magari a Gardaland; tanto, sempre di montagne russe si tratta. Il biroldo, mi hanno mandato qui per un salume che forse conosce solo il mio direttore; e Bigazzi, ovvio. Questa mania del recupero della cucina povera. C’è la chianina, in Toscana, ci sono le bistecche migliori del mondo. E c’è il chianti. No: mi tocca il biroldo. Ad un certo punto, sull’orlo di un burrone, mi si è presentata una galleria, ma mica un tunnel di cemento, no, no: una specie di spelonca dell’uomo di Neanderthal, e meno male che era breve, perché subito dopo ho dovuto infilarne un’altra, sempre nello stessa scuola architettonica, buia, lunga, tipo tunnel per l’inferno. Rimpiangendo le patrie vele di Calatrava, ho oltrepassato anche quella. E adesso sono qua, e c’è un cadavere in quel lago color evidenziatore.
“E che nome è Adriano Lievitati?” ridacchia il brigadiere, mentre la signora baffuta dell’agriturismo mi affetta, a mano, il famoso biroldo con cui imbottirmi il panino. Non me la prendo, certo: è un carabiniere. Ci vuole pazienza. Evito di raccontargli, per ritorsione, di quel suo commilitone che, mandato a recuperare un malato d’alzheimer, telefonò in caserma dicendo che lui, alle medie, aveva studiato francese, ma che la lingua inglese e la lingua alzheimer non le conosceva proprio.
“Sa, il mio bisnonno… figlio di ragazza madre. Gli inventarono il cognome.” Rispondo.
“Bene, signor Lievitati” e ridacchia ancora, mentre io gli auspico un bell’attacco di gastroenterite, “lei sarebbe dunque un giornalista…”
“Del Carlino, sì, di Reggio Emilia.”
“Ah, e che fa di bello da queste parti, oltre a pescare cadaveri nei laghi?” insiste a sogghignare il carabiniere.
“Un servizio sulla gastronomia locale”, rispondo, inoltrandogli mentalmente altri accidenti.
Si spalanca la porta, del tutto identica a quella dei saloon nei film western, ed entra un omaccione biondo con una sciarpa arcobaleno al collo. Una sciarpa della pace su un collo da Adriano Pappalardo quando gridava “lasciami gridare”.
“Ecco qui don Marcin Bogdan che è andato a dare l’olio santo alla poveretta. Meno male che era da queste parti, eh?” L’omaccione tauriforme bofonchia qualcosa in una fredda lingua indefinita e io credo di intendere che debba andare di corsa a celebrare tre o quattro messe; dà la manona al brigadiere che gli domanda se conosceva la vittima; lui mugugna una specie di no ed esce ancora. Sembra un lottatore di wrestling, ma, a quanto pare, si tratta davvero di un prete.
“Per fortuna ci sono i polacchi, altrimenti saremmo senza preti,” riprende il brigadiere, “immagina che guaio, senza preti?” Sì, sì, immagino; per un miscredente come me che è entrato in chiesa, l’ultima volta, per il funerale del sindaco, sei mesi prima, sarebbe davvero un bel guaio. Addento il panino; buono, il biroldo, buono davvero. Però devo ancora scoprire con che ingredienti lo fabbricano; non verifico nell’immediato, per prudenza, non si sa mai.
“Ci sono pure quelli neri,” rimanda la signora baffuta, riferendosi ai sacerdoti, “ giù, in un paesello qui vicino: un nero grande e grosso che dovreste vederlo! Fa un’impressione, ma l’è bono. E dicono che ci abbia tante sorelle, ma tante, che si danno il cambio in canonica. Però, santiddio, potrebbero vestirsi più da cristiane, invece che con quelle minigonne. Ma sa… in Africa vanno tutti a giro nudi.”
“Allora, posso riavere la mia patente?” chiedo al brigadiere.
“Certo, scusi, Lievitati, eccola; comunque sta per arrivare l’investigatore che la interrogherà. Per quanto… il cadavere l’ha ritrovato lei, no? Non sarà l’assassino, ma testimone sì, vero?”
Gli fracasserei uno dei vassoi di rame appesi alla parete su quel sogghigno nefasto, ma mi trattengo.
“L’investigatore? Della polizia?”
“Certo, una donna, una signora. Bel tipo!” E ride. Di nuovo.
Ancora la porta da saloon sbatacchia ed entra un piccoletto in giacca e cravatta, giornale sotto il braccio e cellulare in mano.
“Non prende, accidenti!”
È di quel color cenere specifico di chi fa vita da recluso e non ama né le spiagge né i lettini solari, qualcosa tra il cimiteriale e il mugnaio infarinato. Non so perché, ma mi aspetto che ordini un digestivo Antonetto, quello che Nicola Arigliano definiva così comodo che potete prenderlo anche in tram. Di sicuro, ha l’aria di portare a spasso, nello stomaco, una bella colonia di helicobacter pylori.
“Si sa qualcosa di quella povera ragazza, Luisa?” Chiede alla signora baffuta.
“No, professore, per ora si sa soltanto che l’hanno quasi certamente investita e poi trascinata fino al lago. Che fa, brigadiere, va via?”
“Eh, vado, vado, tanto passa tutto nelle mani della polizia. Vi saluto.” Esce, finalmente.
“Che posti, che posti,” fa il professore cimiteriale sedendosi al mio tavolo, “posti da lupi, vero?”
E mi guarda con occhietti da merlo. Sì: sembra proprio un merlo in cerca di lombrichi, a parte il color cadavere. Annuisco in silenzio. Si togliesse dai piedi che provo a scrivere del biroldo.
Niente. Insiste:
“Lei è in vacanza da queste parti? Perché, sa: la Garfagnana è bella, ma tanto selvaggia, non le pare? Inospitale, rude… eh, posti da lupi, da briganti. E adesso, quella povera ragazza… Ma si sa chi è? Certo, così giovane…”
Persino un merlo smunto omosessuale, mi doveva capitare. Mi scruta come se fossi il panino che sto mangiando. E sono pure brutto, diamine.
Decido di andare a dormire, sperando che il millepiedi vagabondante sul soffitto non abbia qualche congiunto acquartierato nella mia stanza.
L’investigatore, o meglio l’investigatrice, la vedrò domani.
“Santa madre di Calcutta, che strade.”
È tonda come un barile di birra, paonazza come se la birra se la fosse bevuta davvero, naso a patata, occhi ingenui da bovino, tre centimetri di ricrescita nel centro del caschetto color topo, la cui tinta primigenia doveva essere stata un mogano prugna. Punta dritta verso di me.
“È lei che ha trovato il cadavere, vero?”
“Scusi, ci conosciamo?” la blocco.
“Ah, mi scusi lei. Signor Lievitati, vero? Piacere, Wanda Bongiorno, sono l’investigatrice. Che cognome, Lievitati…”
E ride, scoprendo denti singolarmente belli. Forse l’unica parte decente in un disastro della creazione.
“Eh, sa, il mio bisnonno… i cognomi inventati…” bofonchio.
“Gli esposti, i bambini figli di nessuno, già, capisco… Allora, il cadavere; che mi dice?”
“Era nel lago, l’ho visto dalla strada, non so altro.”
“E pare che nessuno sappia dire di chi si tratta, vero?”
“Già, nessuno…”
“Peccato, così giovane,” eccolo di nuovo, all’alba, il professore merlo pallido, “e pensare che non ci sono nemmeno badanti, da queste parti, perché, sinceramente, avrei pensato ad una straniera.”
“Lei ha visto il corpo?” lo fulmina Wanda Nembostar.
“Tutto il paese è corso là, ovvio che l’ho visto.”
“Bene bene, e lei come mai è qui? Ci abita?”
Appunto: che ci fa un professore gay con aspetto sepolcrale in alta Garfagnana, se poi si lamenta di trovarla tanto rude e selvaggia? Sono curioso.
“Sono un botanico, signora, sto cercando un certo esemplare di cavolo selvatico, la Brassica oleracea L., una pianta che mi hanno segnalato essere presente da queste parti.”
“Il suo nome?”
“Professor Lorano Gualtieri, università di Pisa. Come le dicevo, sono qui per quella pianta, una sorta di reperto archeologico vegetale.”
“Mmmh, il cavolo, e, dica: lei ha un’automobile?”
“Sì, sì, guardi: è quella Panda là nel parcheggio, quella nocciola.”
“Bene, verifichiamo…”
“Sì, andiamo. A dire il vero ha qualche graffio. Mi ha preso di striscio un animale, forse un capriolo.”
“Anche lei! Ma è un vizio. E non l’ha soccorso?”
“Non ho fatto in tempo, è sparito nella macchia.”
Wanda Nembostar, più veloce della luce, è già di fianco alla Panda; si china sulla carrozzeria impolverata, tasta a lungo i paraurti, poi lancia un gridolino:
“Sangue!”
Torna indietro con aria di sfida.
“Non si muova da qui finché non avremo accertato di cosa si tratta.”
Adesso tocca a me. Wanda mi punta l’indice corto e tozzo:
“E lei, Lievitati, mi segua in ospedale che andiamo a visionare il cadavere. È un giornalista, no? È suo dovere riportare la notizia, o sbaglio?”
Come no. Scriverò del biroldo e di cadaveri ripescati in un lago di colluttorio. Vediamo chi avrà più l’ardimento di ingerire l’antico salume slow.
Che caldo, stanotte, non pare nemmeno di essere in montagna. Ci sono pure le zanzare, accidenti, mica saranno radioattive avendo origine nelle acque fosforescenti della diga. Pescosissima, dicono; acque che si possono bere. Sicuro. Intanto non riesco a dormire ed è già l’una. Mi pare d’udire uno scalpiccio come di passi forzatamente lievi. Sarà la signora baffuta che ancora traffica di sotto. No, adesso c’è il cigolio d’una serratura. Di nuovo i brividi lungo la schiena; sto all’erta. Però, quel che sento è proprio strano. Sembra che nella stanza di fianco il botanico Lorano stia godendosi un film hard. Un flash di lui con una bambola gonfiabile mi attraversa la mente. Ancora? Che effetti, il biroldo; mi sa che non è il finocchio l’erba con cui lo insaporiscono. Incollo l’orecchio al muro e distinguo un soffocato:
“Natasha… quanta… quanta sei…”
Vuoi vedere che ce l’ha davvero la bambola? Ho conati di vomito. Aspetto, finchè sento di nuovo passi strascicati lungo il corridoio. Socchiudo la porta. Allora non è gay, il professore! Un donnone enorme, dalle cosce della stessa circonferenza della mia cintura, fasciate in pantacollant rosa, imbocca le scale. Il suo sederone da ippopotamo ballonzola, evidenziando montagnole di cellulite. Non è un trans; quelli non hanno la cellulite. Vado alla finestra giusto in tempo per notare una Panda scura, forse blu, con la marmitta bucata che, fatta manovra, carica il pachiderma rosa e sparisce velocemente. Dovrò informare Wanda Wonder Woman, la quale, giusto nel mattino, mi aveva condotto davanti al cadavere prima che venisse sezionato per l’autopsia.
“Santa madre di Calcutta. Bella ragazza davvero, Lievitati, ma identificarla sarà un problema; niente documenti, niente di niente…”
L’ha tastata con la stessa accuratezza impiegata intorno al paraurti della Panda nocciola, poi si è concentrata sugli abiti impilati lì a fianco.
“Mmmh, roba cinese”, ha borbottato, raccogliendo alcuni fili e chiudendoli in una busta, “aspettiamo l’esito dell’autopsia, poi vedremo.”
Anche lì, non è stato facile trattenere il vomito. Soprattutto quando Wanda ha insistito nella descrizione dei vari liquidi di natura umana che potevano essere rimasi sugli abiti e sul corpo, nonostante il bagno in acqua.
E adesso come faccio a dormire? Invio un sms a Wanda pur sapendo che non mi risponderà: mi ha confidato, durante il viaggio, di essere genovese.
“Mov sosp prof lor puttna slava” Capirà? La suoneria mi avverte immediatamente che Wonder Wanda ha capito; leggo: “Dmttna h 7”
Infatti. Mi ero giusto addormentato quando lei bussa alla porta.
“Lievitati! È sveglio?”
“Eh? Sì, sì, arrivo.”
Le apro la porta, scordando che sono in mutande. Lei non ci fa una piega: fresca come una rosa, o meglio, come una rospa in amore. Gonfia e con i capelli elettrici che vanno da tutte le parti.
“Allora? Quel puttna si riferisce a quel che penso io?”
“Perché, ha un’altra interpretazione?”
“Lievitati… mi dica cosa ha visto.”
“Un donnone tipo granatiere, forse un’ucraina, dai capelli rosso rame. Era dal professore, stanotte. Ho sentito lui sospirare ‘Natasha’, poi, quando hanno finito, oddio che schifo, lei è andata via con una Panda che è venuta a prenderla.”
“Santa madre di Calcutta, bel tipino il botanico, eh, Lievitati? Mi sa che cerca patate, altro che cavoli. Di che colore era la Panda?”
“Nel buio non ho ben capito, ma mi è parsa blu.”
“Un giro di prostitute slave qui in montagna, neanche fossimo in Versilia. Tutto da ridere, eh, Lievitati?”
Un tramestio per le scale e guarda guarda: il professore. Sta uscendo quatto quatto con un borsone e uno zaino sulle spalle. Wanda Nembostar lo fulmina:
“Dove crede di andare, Gualtieri?”
“Signora, mi scusi, ma… avrei degli impegni improrogabili in università.”
“Ah sì? Bene, allora li proroghi, e si cerchi un avvocato, perché lei, finchè i Ris di Parma non avranno analizzato la sua Panda millimetro per millimetro, di qua non si muove. E poi devo interrogarla.”
“Mi sequestra? Non pensavo di essere in arresto.” Invece di impallidire, il merlo funereo lascia intravedere un accenno di rossore sugli zigomi ossuti.
“Lei non è in arresto, ma la sua Panda sì. Ci siamo capiti? Chiami l’avvocato, poi ci risentiamo.”
Wanda liscia la chioma cespugliosa, elettrizzando ancor più i capelli - il completo dorato che indossa è petrolio puro – poi torna ad interessarsi a me, mentre il merlotto cinerino riporta le valigie in camera.
“Lo sa, Lievitati, che lei mi ricorda un cantante degli anni settanta, quello con la permanente… Donatello, ce l’ha presente?”
“Mah, veramente ero piccolino…”
“Eh, beato lei, che ha ancora tutti i capelli neri e tanti sogni nel cassetto. Ce li ha, vero, dico… i sogni?”
“Per adesso vorrei scrivere del biroldo. Vede qua: …antico sanguinaccio realizzato esclusivamente con la testa di maiale, esclusa la lingua… Madonna bona: ma ci metteranno anche il cervello?”
“Oh, scriverà stanotte, risparmi il suo, di cervelli, invece di stare ad origliare le porcate di Gualtieri. A proposito: dobbiamo poi cercare e interrogare anche quella Natasha. Santa donna, se riesce a far risorgere qualcosa in quel poverino. Ora, però, ce ne andiamo, io e lei, sul luogo del delitto.”
“Alla diga?”
“E dove, se no?”
Santa madre di Calcutta, direbbe Wonder Wanda, sono qua da quattro giorni, confinato come un bandito ai tempi di Ludovico Ariosto, tra foreste e valloni infernali e ancora sul biroldo non ho prodotto nulla. Però l’ho mangiato, tagliato a striscioline, in mezzo a fette di pane di castagne e di patate. Ottimo. E sono pure salito dalla signora Margherita, a Villa di Soraggio, per farmene illustrare la trasformazione. Che donna! Che donne, queste garfagnine; un po’ streghe.
Con scarti che più scarti non si può sono riuscite, nei secoli, ad inventarsi una ricetta da re.
Spero, tuttavia, che usino proprio carne di maiale e non seguano i consigli gattofagi di Bigazzi.
Non ho scritto niente, mi licenzieranno; diventerò un free lance. Nel senso che sarò libero di non ricevere nessun stipendio. In ogni caso sono andato ad ispezionare il luogo del delitto.
Ormai sono l’aiutante dell’ispettrice. Sono l’Hastings di Hercule Poirot Wanda. Che, a parte gli scherzi, qualcosa della Signora in giallo, ce l’ha: come Jessica Fletcher non perde mai la calma ed è continuamente ovunque, neanche avesse il dono dell’ubiquità. Murder, she wrote, una che prende per i fondelli lo sceriffo con l’aiutante un po’ tonto, civetta con l’eroico dottore, smaschera l’invadente concessionario di automobili, assiste il figlio ebete della signora che ha massacrato il marito con una coscia d’agnello cavata dal freezer. Mi sento dentro un vecchio serial televisivo.
Sono ormai l’Hastings di Wanda Poirot e, dopo aver lasciato all’agriturismo Luisa (inaspettatamente depilata sul labbro superiore, si vede che era passata una presentatrice Avon), impegnata con don Marcin che si scolava una colossale birra schiumosa, pulendosi i baffetti con la sciarpa arcobaleno – che poi Wanda ha deciso che era meglio fare due domandine anche a lui, ma adesso c’erano altre priorità – due giorni fa io e la mia investigatrice capo siamo andati alla diga.
“Cerchi bene, Lievitati, e stia attento a non scivolarci dentro.”
L’ho guardata con occhi assassini:
“Mi dice che cosa devo cercare?”
“Secondo lei, una donna va in giro senza borsa? Soprattutto se è una prostituta? Non sa nuotare, vero, Lievitati?” e ha riso, con i denti perfetti che mandavano fasci luminosi da cartone animato.
Chi non se lo ricorda? Sfavillio di denti e megapupille: “Yattaman, Yattaman, al nemico da' battaglia/Yattaman, Yattaman, con gran comicità/Yattaman, Yattaman, vince in ogni guerra/Sentinella della terra, Yattaman.”
Yattaman Wanda si è messa a raspare tra i cespugli. L’ho osservata, incerto su da farsi.
“Una borsa. Però, guardi, lassù, nella curva, sull’asfalto: segni di frenata.” Dico con tono sostenuto.
“Già, già, potrebbero averla investita là e, dopo, averla trascinata fin quaggiù per poi buttarla in acqua.”
“ E la borsa?”
“L’avranno scaraventata lontano, nel bosco, per esempio, o di là dalla strada, verso il precipizio.”
“Siamo a posto, allora…”
“Soffre anche di vertigini, Lievitati?”
“Che vuol dire? Penserà mica che io mi cali lì sotto a cercare la borsa!”
“Lei? Figuriamoci! Vado io.”
Con le sue gambette ciccione ha valicato il parapetto e, tenendosi agganciata con una mano, ha cominciato a scrutare in basso, spostando erbe con l’altra. Già me la vedevo ruzzolare nel vuoto e ridursi in poltiglia sulle rocce, quando ha emesso il solito gridolino di vittoria:
“La borsa, lo sapevo!”
Ed è riemersa sulla strada tutta pimpante, con semi di bardana attaccati ovunque e la borsa in mano.
“È piena di lupi…”
“Cosa?”
“I semi di bardana, noi li chiamiamo lupi.”
“Non dica scemenze, Lievitati, e tenga la borsa, intanto che io continuo ad ispezionare il terreno intorno.”
Nient’altro, non abbiamo rinvenuto nient’altro, a parte dei fili intrappolati in un pruno, subito rastrellati dall’ispettrice. Però, nella borsa c’erano i documenti. E oggi la televisione ha diramato la notizia dell’avvenuta identificazione, facendo nome e cognome della vittima e presentandone la fotografia. Pheona Andress, inglese, giovane designer dell’Ikea. Altro che prostituta.
Insegnava in un istituto artistico privato di Firenze ed era alloggiata all’hotel “La Lanterna” di Castelnuovo Garfagnana. Appassionata d’arte, era in vacanza, in cerca di opere di anonimi pittori della metà del Quattrocento. E l’autopsia ha confermato: investita da un’auto; l’urto le ha spezzato il collo. Morta all’istante. Ora della morte: le otto del mattino. Era arrivata fin lì in autostop da Castelnuovo.
“Lievitati! Andiamo, ho trovato Natasha.”
Ancora Wanda! Un sobbalzo mi alza la pressione probabilmente a trecento. Finirò per andare in terapia col Triatec come mia nonna, se continua ad angariarmi così.
“Non immagina, non immagina…” e mi trascina sulla sua campagnola Wrangler (immatricolata autocarro), perché, dice, dobbiamo scendere fino a Piazza al Serchio.
“Il brigadiere dei carabinieri,” continua Wanda trafelata, “mi ha parlato di un donnone con leggings rosa confetto e capelli rosso rame seduta su una panchina con altre straniere proprio a Piazza.”
“Be’, che c’è di strano? Potrebbero essere badanti, anche se Gualtieri dice che su questi monti non ce ne sono.”
“Che c’è di strano? Lei non ha idea, se sapesse da dove il brigadiere ha visto uscire l’elefantessa fulva capirebbe…”
“E il professore? Cosa pensa di lui? Potrebbe essere il pirata della strada?”
“Quel Gualtieri”, mugugna stizzita, “sa che il sangue sulla sua Panda è davvero di un animale? Però… però… Adesso interroghiamo Natasha, poi, lui… qualche spiegazione dovrà comunque darcela.”
Ormai l’adoro, Wanda, perché parla al plurale, come se io c’entrassi qualcosa col suo lavoro. E poi abbiamo in comune l’identica repulsione per il professore merlo cimiteriale.
Usciti dalla galleria di Neanderthal, quella più lunga, alla prima curva, per un pelo non ci maciulliamo contro una Panda blu assolutamente contromano.
“Quella!” grido, “È quella: ho riconosciuto la sagoma dell’autista e il rumore della marmitta forata!”
“È sicuro, Lievitati? È l’auto su cui è salita Natasha?”
“Sicurissimo. Non ho visto l’uomo in faccia, ma sono sicuro che è la stessa auto e che è lo stesso uomo.”
“Guardi, se è così è un bel casino, perché io l’ho visto, l’autista. È il prete, il polacco, ha presente?”
“Don Marcin Bogdan? Ma guarda te, davvero un buon samaritano.”
Un prete magnaccia. E polacco. E in Garfagnana.
E dove c’è magnaccia c’è bordello, magari non d’alto lignaggio, magari non di escort, insomma - che quella è roba da ricchi veri, di quelli che nuotano gagliardi, alla guisa di pesci siluro, e ingrassano nel percolato unto della globalizzazione dei mercati - ma sempre bordello è.
Mi concentro sul paesaggio, perché viaggiare con Wanda dà, in pratica, le stesse emozioni che si vivono sull’autoscontro. Oppure a Gardaland, su Icaro, dove non puoi salire se hai meno di diciotto anni o se il tuo cuore è fuori giri. Apro il finestrino, respiro fragranza di faggi e castagni. Cominciano a diventarmi familiari i boschi e i valloni, cominciano a piacermi.
In realtà, la zona è di un fascino magico, anzi: infernale. So che è un ossimoro, ma non trovo altra espressione altrettanto efficace. Mi godo il biancore remoto delle Apuane, le Panie, termine che immagino significhi pagine, perché sono lì, come un libro aperto, verticali e taglienti.
A Piazza al Serchio c’è una locomotiva ferma, inquietante. In alto, all’ingresso del paese, un castello emerge da uno scoglio, a pochi metri dalla vecchia motrice a vapore.
Ed eccoli, i doglioni, ciclopici blocchi di roccia vulcanica che si levano alla confluenza dei due rami del Serchio: quello di Soraggio e quello di San Michele.
Passiamo oltre e finiamo su un ponte medioevale; un cartello indica San Michele. No, abbiamo sbagliato. Wanda chiede informazioni, attraversa il ponte, poi torna indietro.
“Continuo a chiedermi di che si vive, qui,” dico, “perché non vedo industrie, né agricoltura paragonabile a quella dell’Emilia.”
“Lievitati! Non faccia il padano, per favore. C’è agricoltura e ci sono anche industrie, soprattutto della produzione di materiali da costruzione e dell’abbigliamento.”
“Cinesi anche qua, immagino. A Reggio si stanno comprando ogni attività, dai bar, alle manifatture, ai negozi.” Tex Willer se ne uscirebbe con un bel ‘maledetti musi gialli’, ma io mi taccio, avendomi già la mia chauffeur collocato nelle verdi legioni del senatur.
Wanda sterza bruscamente, poi accosta.
“Ecco: vede che, a dirla tutta, pure in Emilia non è che ve la passiate meglio? Su, legga quel cartello, guardi se è via Marconi.”
“Mi pare proprio di sì.”
“Bene, parcheggio. Siamo arrivati.”
Suoniamo il campanello; Wanda è sicurissima di trovare Natasha lì dentro. Infatti, è lei ad aprirci.
“Buongiorno. Parroco è dormito. Lui no sta bene. Lui detto no vuole disturbo.”
Wanda la incenerisce:
“Polizia.” Entriamo.
Incredibile quel che scopriamo. Natasha è la badante del vecchio parroco paralitico, nel cui appartamento vive anche don Marcin; è un’infermiera bielorussa con regolare permesso di soggiorno e, quella famosa notte, all’agriturismo si era dovuta recare per lavoro.
Ma non per il lavoro più antico del mondo, no: era stata chiamata dal professor Gualtieri per un’iniezione e una flebo, avendo avuto, il poveretto, una grave crisi.
Leucemia: il professore ha il cancro. Altro che nottata hard! E quella frase che io avevo percepito (mai origliare, si prendono sempre lucciole per lanterne), in realtà era: “Natasha, quanto… quanto sei brava…”, ma si riferiva all’abilità di infilare aghi nelle vene.
Naturalmente, era stato don Marcin a portarla lassù; ecco spiegata la presenza della Panda blu smarmittata. Siamo, pertanto, ad un punto morto.
Dopo aver dovuto patire dall’anziano sacerdote il resoconto dettagliato di tutta la sua vita, incluso il momento della Resistenza - quando lui aveva rischiato di essere trucidato prima dai tedeschi perché nascondeva i partigiani, poi da alcuni sedicenti partigiani per il semplice fatto di essere un prete - un po’ scoraggiati, e davvero a mani vuote, rimontiamo sulla jeep e ce ne torniamo a casa.
Cioè: rientriamo nell’infernale Valle di Soraggio, nella patria del biroldo.
In una curva vicino a Molinello, superiamo, a fatica, un apecar zeppo di mobilia; quasi certamente è lo stesso del mio scontro col cinghiale; direi che il conducente è impegnato in una vera e propria transumanza, una diaspora da passaggio del Mar Rosso e scarpinata fino alle pendici desertiche del Monte Horeb, se non l’ha ancora concluso dopo una settimana.
Eccoci all’agriturismo e, guarda guarda: c’è la Panda blu parcheggiata lì.
E c’è don Marcin Bogdan, al banco del bar, con un gigantesco boccale di birra, tracimante, piazzato di fronte; e c’è Luisa, la signora non più baffuta, anche un po’ truccata, fresca di parrucchiere e fasciata in un succinto abitino, che gli parla con occhi adoranti.
La mia Wanda Fletcher è agitata. Ha appena avuto gli esiti delle analisi su quei fili trovati sia tra gli abiti della ragazza, sia sull’arbusto in riva al lago.
“Residui di corde”, dice entusiasta, “corde per balle di fieno e paglia. Ha presente, Lievitati? Quelle di foraggio pressato a parallelepipedo.” E mima, con le mani, un solido rettangolare.
“Sì, sì, ho capito, ma allora, l’assassino le ha usate per trascinare il cadavere fino al lago?
“No, troppo scomodo. Più credibile che lui avesse degli avanzi di corda in qualche taschino e che, mentre la trasportava, questi siano caduti addosso alla donna e tra i cespugli.”
Annuisco e Wanda riprende:
“Mica è finita; c’è anche un’altra novità, che riguarda l’auto del pirata. Sulla borsa sono stati rilevati residui di vernice. Indovini di che colore?”
“Blu? Vuol dire che don Marcin…”
Wanda scuote il capo, fa segno di diniego con l’indice, tozzo e paffuto, guarda la mia Pandina posteggiata poi mi gela:
“Eh no, blu proprio no. Hanno trovato vernice… verde pisello.”
Non fiato; rimango lì inebetito mentre, inaspettatamente, per chi sa quale grazia della scienza tecnologica, il mio telefonino prende a trillare come una civetta iettatrice.
“Ma cosa… come mai adesso prende?”
“Che fa, Lievitati? Risponda, su!”
Rispondo; è il mio direttore. Subisco, servilmente, tutti gli improperi più velenosi, compreso il fatto che, appena avrò finito di pascolare i porci in cerca di ghiande, e poi avrò ammazzato il maiale per farci il biroldo, sarò liberissimo di andarmi a cercare occupazione in altro luogo, che lui non è il padre fesso del figliol prodigo e che non ha vitelli grassi da arrostire al mio ritorno. Tutt’al più griglierebbe volentieri me in un bel letto di peperoni e melanzane.
Non so se, delle due iatture, sia peggio il licenziamento poc'anzi subito o la vernice dello stesso colore della mia Pandina rinvenuto sulla borsetta della morta.
“Paura, eh, Lievitati?” ghigna Wanda Carlo Lucarelli, “Su, su… si riprenda, sappiamo che lei non c’entra: la ragazza è defunta approssimativamente tra le sei e le otto del mattino; lei è giunto dopo, no?”
“Mi hanno licenziato.” farfuglio mogio mogio.
“E di che si preoccupa? Santa madre di Calcutta! Si liberi da questa ossessione del posto fisso, non lo sa che la vera libertà sta nel precariato? Lei, ora, è un uomo libero. Sia felice, dunque, e mi dia una mano che dobbiamo trovare l’assassino.”
Intanto che la signora Luisa e don Marcin si dileguano in cucina - immagino per recitare un rosario, e per cosa, se no? - entra il professor Gualtieri avvinghiato ad un vero e proprio covone di piante erbacee da cui ciondolano steli carichi di fiorellini gialli. Con la bandana rossa in testa, è una via di mezzo tra la donzelletta che vien dalla campagna di leopardiana memoria e mia nonna quando riappariva dai campi - gli stivali di gomma lunghi fino ai polpacci - carica d’erba per i conigli.
“Guardate”, dice esultante, “ho trovato la Brassica oleracea L., non ci speravo più!”
Continuiamo ad essere ad un punto morto. È il settimo giorno e io sto pigiando i miei pochi abiti nel borsone, perché la mia postepay è quasi vuota e ho ultimato anche i contanti. Devo tornare in quel dei “Lombardi”, alfine! Mi dispiace, però. Stavo entrando nel ruolo di aiuto detective affibbiatomi da Wanda e stavo imparando ad amare l’incanto barbaro della terra dei “Toschi”.
Decido di partire così, senza dire niente a nessuno, subito dopo aver saldato il conto.
La signora Luisa mi stringe la mano, poi, non paga, mi bacia per tre volte sulle guance e ci manca poco che si metta a piangere. Mi porge un pacchetto:
“È un biroldo,” dice, “un pensierino, giusto perché si ricordi di noi e torni a trovarci.”
Che tenera. Anch’io, quasi quasi, mi commuovo.
Parto, ed eccomi di nuovo con la mia Panda verde pisello nei tunnel paleolitici, sperando di non incrociare né trattori né camion. Mi va bene, finchè, all’improvviso, l’apecar del trasloco biblico non mi si ripropone giusto lì, in mezzo alla carreggiata, ribaltato, le ruote all’aria come zampette d’un cinghiale moribondo. Tutt’intorno, sedie, pentole, piatti rotti, pacchi e suppellettili, ancora in parte legati con corde da fieno, formano una sorta di barricata di là dalla quale, come un generale pronto all’attacco, l’ispettrice Wanda Bongiorno sta sbarcando dalla jeep.
“Ma chi cavolo è questo deficiente? Lievitati! Mi dia una mano che guardiamo se si è fatto male! Chiami i carabinieri e l’ambulanza!”
“Non c’è campo, il cellulare non funziona.”
Lei rientra in macchina e chiama con la radio, mentre io estraggo il “deficiente”.
Lo corichiamo a terra; pare svenuto, può darsi per la botta, tuttavia l’olezzo di alcool e di rosmarino bruciato che esala fa pensare a birra e canapa in allegra associazione.
È un ragazzo sui trent’anni, piccoletto, magrolino, capelli rasta legati a coda di cavallo, una miriade di orecchini e tatuaggi ovunque.
“Lei dove stava andando, Lievitati?” mi domanda Wanda con fare indagatorio.
“A casa, non vedo perché fermarsi ancora.”
Arrivano, al contempo, ambulanza e brigadiere.
“Guarda guarda,” dice quest’ultimo, “il nostro elfo dei boschi. Gli abbiamo ritirato la patente proprio sette giorni fa a Piazza al Serchio per guida in stato d’ebbrezza. Era sbronzo al mattino presto. Non ha perso il vizio, vedo.”
Io e Wanda ci scambiamo un’occhiata; pensiamo tutti e due la stessa cosa? Wanda si china sul ragazzo, introduce le mani nelle tasche della sua felpa e ne estrae degli avanzati di corda.
Mi punta il consueto indice cicciotto:
“Lievitati! Secondo lei, il qui presente brigadiere Salvo Muto potrebbe essersi dimenticato di comunicarmi qualcosa?”
Il brigadiere la osserva stupito, ma Wanda insiste:
“Non ha forse trascurato che potrebbe esserci qualche nesso tra quella patente da lui ritirata e la morta del lago?”
Non so che dire; scruto il brigadiere Muto; lui ci squadra sconcertato. Pare proprio non capire e a me vengono in mente tutte le barzellette possibili sui carabinieri.
Avranno mica un fondo di verità?
“Brigadiere,” ora Wanda punta il dito addosso a lui, “ha pure sequestrato l’auto del qui presente elfo deficiente?”
“Certo: è ferma a Piazza. Si vede che il tipo ha pensato di ripiegare su un apecar…”
“E bravo,” continua lei, “e mi dica: di che auto si trattava? E di che colore? Ed era per caso ammaccata?”
Meraviglia delle meraviglie: un lampo di ingegno attraversa il volto del brigadiere; si illumina tutto ed esclama:
“Sì, ho capito, è vero, è vero: l’auto era una Panda… verde pisello! Ed era ammaccata di fresco!”
“Ma bravo, Muto! E lei non ha considerato nemmeno per un attimo, qualche ora dopo, che poteva trattarsi dell’auto assassina?”
Posso proprio rientrare a Reggio Emilia, ora. Il caso è risolto e non ho più un centesimo in tasca. Quella mattina di sette giorni fa, poco prima che io arrivassi, il ragazzo rasta, strafatto di innumerevoli sostanze psicotrope, aveva investito Pheona Andress poi, spaventato, l’aveva trascinata fino al lago, dove l’aveva scaraventata. Infine, era sceso a Piazza al Serchio.
Qui i carabinieri l’avevano fermato, sequestrandogli la Panda verde pisello.
Lui, appena un po’ più lucido, aveva recuperato un vecchio apecar e, con quello, era risalito nella Valle di Soraggio, giusto in tempo per incappare nel mio incidente.
Caso chiuso. Addio Wanda Wonder Women, addio Garfagnana.
Sono qua, a Sillano, svolto a destra per Pradarena. Sulla via gli uomini questionano, seduti; per un pelo non ne travolgo uno.
“E ‘un vedi dove vai? ‘Un ce l’hai gli occhi?”
Sorrido e accarezzo il pacco del biroldo.
Scortese, ma meravigliosamente slow, amabile Garfagnana.
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