Dirò subito che la mia non sarà una presentazione da critico letterario, né da critico d’arte (non è il mio campo), non sarà una presentazione “dotta”; sarà solo quella di una lettrice, appassionata di storia delle donne e di storie di donne; anche la presentazione di una nata e cresciuta in questi posti e che ha fatto in tempo a vedere gli ultimi scampoli del mondo in cui è ambientata la storia, che è il tardo medioevo. Perché il nostro medioevo è finito del tutto nell’ultimo dopoguerra. Anche l’autrice mostra di conoscerlo bene, nonostante sia più giovane. Non solo attraverso i libri, che pure frequenta molto – dietro il suo racconto c’è una preparazione sia storica che religiosa bella robusta. Il nostro medioevo lo conosce direttamente attraverso una nonna e una bisnonna con cui ha avuto la fortuna di crescere [allattata da sua nonna!! Non fatevi ingannare dall’aspetto, potrebbe avere 150 anni!]. Donne all’antica ma in verità modernissime, che trasmettevano ai figli – ma specialmente alle figlie – una forza, una cultura, una sapienza femminile di cui purtroppo erano le ultime depositarie. Da queste donne N. A. ha imparato (ma il verbo non è adeguato: ereditato, succhiato?) il talento del raccontare, lo sguardo attento e partecipe sulla natura e sulle persone, la memoria come criterio per decifrare il presente e agire nel presente [Che sarebbe poi la vera funzione della memoria, sia a livello individuale che collettivo, anche se oggi non sembra più così, ma sarebbe un discorso lungo…]. Non so se queste sue antenate facessero la tela in casa, di sicuro lei conosce anche l’arte della tessitura, solo che non l’esercita sul telaio ma nella scrittura. Come una donna al telaio tiene in mano le vite dei vari protagonisti come fossero navette di fili colorati, e le intreccia, le incrocia, le passa e ripassa nell’ordito storico che ha scelto così che la vicenda, come un arabesco, si precisa pian piano e proprio come in una coperta o in un tappeto il disegno completo appare solo alla fine del lavoro.
PIETRO
Ho parlato di protagonisti, sarebbe meglio dire le protagoniste perché, anche qui, non fatevi ingannare dal titolo, questa è, sì, la storia di Pietro dei colori, ma è soprattutto una storia di donne. Comunque, il protagonista che dà il titolo al libro è Pietro da Talada, conosciuto anche come il maestro di Borsigliana, per un suo trittico che si trova lì. Un pittore che opera sicuramente nel sesto decennio del ‘400 nell’alta Garfagnana, un pittore periferico ma estremamente affascinante, che si attarda nello stile del gotico internazionale mentre a Firenze è già in pieno rigoglio il Rinascimento. Partendo dal mistero della sua vita N.A.
gliene inventa una, plausibile, verosimile, facendo perno sulle pochissime notizie che si hanno di lui: il borgo di nascita, Talada appunto, la valle del Serchio come luogo della sua pittura, una riconosciuta ascendenza stilistica (che nel romanzo diventa genetica) in un pittore portoghese, Alvaro Pires de Evora, e poi l’amore per lo studio e la ricerca dei colori che traspare dalla sua pittura, dalle sue madonne. Una storia che, stranamente, mentre la leggevo, aveva per me la stessa magia del Maggio, (o almeno era questa l’immagine che mi ballava in testa). Perché? Forse perchè come quelle dei Maggi è una storia “all’antica”: drammatica, piena di colpi di scena, con rapimenti e salvataggi, abbandoni e ricongiungimenti, odio e amore, sentimenti elementari e complicati insieme. E come nel Maggio ci sono briganti e soldati, mercanti e donzelle, eremiti e creature fantastiche. C’è un altro motivo che, secondo me, lo accomuna al Maggio: nei Maggi l’azione si svolge concretamente in una radura in mezzo a un castagneto, un luogo per noi famigliare e quotidiano, direi, ma che si dilata a contenere tutto il mondo, e il canto si alza ora dalla reggia del Sultano, ora dall’accampamento dei Crociati e ora dalla capanna di un eremita e ci scordiamo dove siamo; così, in questo libro, c’è l’Appennino che conosciamo, con i nomi reali dei monti e dei paesi, la valle di Secchia e Pradarena e le faggete e le carbonaie, ma nello stesso tempo diventa un luogo fantastico, popolato di tutte le creature e le superstizioni del passato - le fate e il Serpente Regolo, l’Uomo Selvatico; crocevia del mondo - Venezia, Firenze, Roma e Bisanzio – e approdo di genti lontane - i vescovi turchi coi loro libri misteriosi e una sapienza antica, iniziatica – insomma una metafora del mondo. [Detto per inciso, non è l’ultimo dei meriti di questo romanzo invitarci a “guardare”, con l’occhio innamorato dell’autrice, il nostro Appennino, al di là dei guasti che anche qui ci sono stati, unito nei due versanti com’era nel passato e come si tenta di ricostituirlo oggi attraverso il Parco]. Vi dicevo di non lasciarvi sviare dal titolo (il titolo in un libro è importante): perché una storia in prevalenza femminile dedica il titolo a un uomo? Lo chiederò poi Normanna, io mi sono data questa risposta: perché Pietro è l’uomo mite. In un mondo di uomini violenti e sopraffattori, lui, che conosce la violenza, la rifiuta, sta dalla parte delle donne, riconosce il loro diritto al sapere, va al di là del giudizio e del luogo comune su di loro. La storia di Pietro è anche quella che cuce insieme le vite delle protagoniste femminili. Donne che rispecchiano esemplarmente il destino delle donne del tardo medioevo ma che hanno a che fare con il destino femminile di sempre. Normanna non è un’ ingenua che si diverte semplicemente raccontando le favole che nascono nella sua fantasia (anche, naturalmente), è una donna ben radicata nel presente, impegnata in campi che oggi suscitano le più grandi passioni e i contrasti più accesi. L’operazione intelligente che lei fa con i suoi romanzi - non solo in questo, in Isabella era forse ancora più trasparente - è quella di collocare le sue storie in un tempo per noi ormai pacificato, di svelenire i temi che le premono e indurci alla riflessione con il distacco che la distanza storica consente. Come se ci tenesse in una bolla riparata dove invece di accapigliarci possiamo fare qualche passo avanti nella comprensione della realtà e di noi stessi. Del resto i precedenti illustri non mancano (Manzoni, Tommasi di Lampedusa per non citarne altri).
gliene inventa una, plausibile, verosimile, facendo perno sulle pochissime notizie che si hanno di lui: il borgo di nascita, Talada appunto, la valle del Serchio come luogo della sua pittura, una riconosciuta ascendenza stilistica (che nel romanzo diventa genetica) in un pittore portoghese, Alvaro Pires de Evora, e poi l’amore per lo studio e la ricerca dei colori che traspare dalla sua pittura, dalle sue madonne. Una storia che, stranamente, mentre la leggevo, aveva per me la stessa magia del Maggio, (o almeno era questa l’immagine che mi ballava in testa). Perché? Forse perchè come quelle dei Maggi è una storia “all’antica”: drammatica, piena di colpi di scena, con rapimenti e salvataggi, abbandoni e ricongiungimenti, odio e amore, sentimenti elementari e complicati insieme. E come nel Maggio ci sono briganti e soldati, mercanti e donzelle, eremiti e creature fantastiche. C’è un altro motivo che, secondo me, lo accomuna al Maggio: nei Maggi l’azione si svolge concretamente in una radura in mezzo a un castagneto, un luogo per noi famigliare e quotidiano, direi, ma che si dilata a contenere tutto il mondo, e il canto si alza ora dalla reggia del Sultano, ora dall’accampamento dei Crociati e ora dalla capanna di un eremita e ci scordiamo dove siamo; così, in questo libro, c’è l’Appennino che conosciamo, con i nomi reali dei monti e dei paesi, la valle di Secchia e Pradarena e le faggete e le carbonaie, ma nello stesso tempo diventa un luogo fantastico, popolato di tutte le creature e le superstizioni del passato - le fate e il Serpente Regolo, l’Uomo Selvatico; crocevia del mondo - Venezia, Firenze, Roma e Bisanzio – e approdo di genti lontane - i vescovi turchi coi loro libri misteriosi e una sapienza antica, iniziatica – insomma una metafora del mondo. [Detto per inciso, non è l’ultimo dei meriti di questo romanzo invitarci a “guardare”, con l’occhio innamorato dell’autrice, il nostro Appennino, al di là dei guasti che anche qui ci sono stati, unito nei due versanti com’era nel passato e come si tenta di ricostituirlo oggi attraverso il Parco]. Vi dicevo di non lasciarvi sviare dal titolo (il titolo in un libro è importante): perché una storia in prevalenza femminile dedica il titolo a un uomo? Lo chiederò poi Normanna, io mi sono data questa risposta: perché Pietro è l’uomo mite. In un mondo di uomini violenti e sopraffattori, lui, che conosce la violenza, la rifiuta, sta dalla parte delle donne, riconosce il loro diritto al sapere, va al di là del giudizio e del luogo comune su di loro. La storia di Pietro è anche quella che cuce insieme le vite delle protagoniste femminili. Donne che rispecchiano esemplarmente il destino delle donne del tardo medioevo ma che hanno a che fare con il destino femminile di sempre. Normanna non è un’ ingenua che si diverte semplicemente raccontando le favole che nascono nella sua fantasia (anche, naturalmente), è una donna ben radicata nel presente, impegnata in campi che oggi suscitano le più grandi passioni e i contrasti più accesi. L’operazione intelligente che lei fa con i suoi romanzi - non solo in questo, in Isabella era forse ancora più trasparente - è quella di collocare le sue storie in un tempo per noi ormai pacificato, di svelenire i temi che le premono e indurci alla riflessione con il distacco che la distanza storica consente. Come se ci tenesse in una bolla riparata dove invece di accapigliarci possiamo fare qualche passo avanti nella comprensione della realtà e di noi stessi. Del resto i precedenti illustri non mancano (Manzoni, Tommasi di Lampedusa per non citarne altri).
Non vi racconterò la trama, molti che sono qui lo hanno già letto e agli altri non voglio togliere la sorpresa, vorrei solo suscitare la curiosità con i pensieri che sono venuti a me leggendo. Chi sono, allora, le protagoniste di questo romanzo?
PERUZZA
Peruzza, la vecchia dei chiodi, è la figura più tenebrosa, arcaica, complessa direi, senza età. E’ la donna del bandito, non per libera scelta ma per costrizione, odia il brigante Noè che le ha ucciso il padre e il loro bimbo appena nato e sconvolto la vita, che conosce solo la violenza; ma Peruzza mantiene intatti anche il desiderio e la capacità di amare, di proteggere fino al delitto i suoi amori - Pietro, l’Ostessa, Lucrezia Fina, vittime come lei - amori che prescindono dalla differenza sessuale, perché non esistono rapporti contro natura se non quelli imposti con la violenza. Di più, Peruzza deve fare i conti anche con una sorta di amore che prova per Noè, fatto di solidarietà, di vita selvatica comune, di pena per lui. Oggi forse la chiamerebbero sindrome di Stoccolma, ha a che fare certamente con la paura e l’istinto di sopravvivenza ma anche col bisogno insopprimibile di voler bene - nel modo che ci è concesso dalle circostanze - ha a che fare con l’incapacità di molte donne di staccarsi dal loro carnefice, con la difficoltà di vivere senza amore e di raggiungere l’indifferenza, l’indifferenza che Peruzza invidia alla luna (leggere il pezzo di p. 12 l’aveva tenuta d’occhio, l’aveva apprezzata, così distante dal dolore, svincolata dall’angoscia, da poter suscitare, in altre femmine, un’invidia onesta e dolorosa..). [Vedremo che la luna è anche lei protagonista]
LUCREZIA FINA
E poi c’è Lucrezia Fina - la figura più tragica - la sposa bambina che, nell’impotenza dei suoi 12 anni, vede l’unica via d’uscita per la sua vita rubata nel voto di castità, nel misticismo, nel rifiuto del cibo, in una parola nella mortificazione del corpo e dei suoi bisogni. (p.82 “Vivere in isolamento e preghiera, nutrendosi soltanto dell’ostia consacrata in modo da riuscire a sfuggire a chi voleva imprigionarla contro la sua volontà e dominarla: questo si proponeva Lucrezia Fina, non c’erano altre porte da aprire nella sua esistenza, gliele avevano sprangate tutte”). Un corpo adolescente che invece reclama prepotentemente cibo e amore. Lucrezia Fina è l’amore mancato di Pietro a cui fa da modella per la figura della Madonna. Lucrezia Fina non è una ribelle, non rifiuta la visione della donna della sua epoca, rifiuta lo sposo che il padre le ha destinato e sfida i suoi oppressori sul loro stesso terreno scegliendo l’altro modello di donna consentito, anzi il più alto e ammirato del suo tempo: quello della vergine votata a Dio. [ Un modello considerato superiore a quello della donna sposata, costruito e perfezionato a partire dal 12° secolo da chierici e laici su un’interpretazione tutta maschile delle sacre scritture, della patristica e dei testi aristotelici.] Quante sono oggi le Lucrezia Fina? Il tema è, chiaramente, quello del controllo sociale (o meglio maschile) sul corpo delle donne, che accompagna come un filo rosso la storia di tutti i tempi, controllo a cui le donne in parte cercano di sottrarsi ma che, per lo più inconsapevolmente, accettano. E sarà meglio non assolverci frettolosamente pensando che tutto questo riguarda il passato o, nel presente, culture lontane da noi. [Una taglia 38 può essere una prigione feroce quanto un burqa, così come la trasparenza, l’invisibilità che ci tocca oggi quando finisce la bellezza]. Perché il controllo può essere esplicito e imposto, oppure può usare strade più oblique e mezzi più subdoli ma altrettanto opprimenti. [Forse che per i maschi si sono fissate mai le misure del torace o l’altezza al cavallo? Ma per le donne sì, 90-60-90, ai miei tempi!] Quando le femministe nei cortei gridavano “Io sono mia” parlavano anche di questo. [Che poi gli esiti dei loro sogni rivoluzionari siano stati diversi da quelli sperati è un’altra questione e meriterebbe un’altra serata].
L’OSTESSA, LA STREGA
La vera ribelle nella storia di Pietro dei colori è l’Ostessa, senza nome; è la bella strega dai capelli rossi che pretende di amare chi vuole, che rivendica il diritto allo stesso comportamento dei maschi. Rappresenta un desiderio di libertà così incoercibile che può uccidersi ma non si lascia uccidere. Che proprio per questo continua a ricomparire come sogno e allucinazione nei boschi dove era stata brigantessa e maga, a proteggere e spronare Peruzza e Lucrezia Fina. Ma la sua ricetta per la salvezza è fare paura, essere crudeli e spietate come gli uomini, diventare come loro per salvarsi. [Devi far paura, devi far paura se vuoi salvarti! p.18 -19 è quello che grida ad ogni apparizione a Peruzza e Lucrezia Fina]. Anche il grido dell’Ostessa mi viene in mente aggiornato dal femminismo: “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” (Poi chiederò all’autrice dov’era allora e se e quale influenza ha avuto su di lei il movimento degli anni ’70). Ma diventare come gli uomini è una ricetta perdente, (almeno, questo mi sembra il messaggio), le streghe vengono bruciate, perché le donne hanno sempre fatto paura e proprio dalla paura dei maschi nasce il bisogno di controllarle e sottometterle – è un tema estremamente attuale anche questo - è una strada che non conviene neppure alle donne, vorrebbe dire accettare un mondo di violenza e di prevaricazione dei più forti sui più deboli, indipendentemente dal sesso.
ORSOLA
Ho tenuto per ultima Orsola - la figura più positiva - l’amore appagato di Pietro, la prostituta bambina, che conosce la violenza ma non si lascia scardinare dalla violenza. Anzi proprio l’aver conosciuto intimamente le miserie degli uomini, perché di lei hanno usato e abusato nobili, borghesi e uomini di chiesa, la rende acuta nei giudizi e dunque saggia e scaltra, la violenza non si può ascrivere come colpa a chi l’ ha subita e lei lo sa. (p. 148-49 La giovane prostituta a Nebbiana, aveva avuto un colloquio con il confessore delle monache ricavandone la precisa impressione di trovarsi davanti a un pazzo […] aveva mantenuto, anche se a fatica, sufficiente lucidità per distinguere ciò che è sano dalla follia e i consigli spirituali del religioso le erano parsi talmente dissennati che mai e poi mai li avrebbe seguiti…. Se possibile leggere tutta la pagina ). E’ lei a salvarsi.
E poi c’è la luna, che in forma di pietre misteriose diventa una sorta di talismano che unisce tutte queste figure. La luna, l’astro femminile per eccellenza (infatti si dice che le donne sono lunatiche), che protegge e vigila sulle donne e non le vuole pigre. Ed è alla luna che N.A. affida una raccomandazione per tutte noi, da ricordare e tramandare, o almeno a me piace pensare così e chiudere proprio con questa citazione: (p.127 “ Ma tu stringi forte la luna tra le mani [....] Vuoi che non soccorra te che sei femmina come lei? Ma devi farti forza, perché la luna non sopporta la pigrizia delle donne. [....] La pigrizia delle donne le era intollerabile. La pigrizia delle donne, piegate al loro destino, le reprimeva in una servitù perenne che la luna non voleva”).
(Dalmazia Notari – Cultrice di storia contemporanea – Università di Milano)
Pietro dei Colori è stato, forse, il propulsore alla riscoperta di un artista come Pietro da Talada per Noi della montagna reggiana; io non conosco molto di questo uomo, conosco quello che di lui ho appreso dal magnifico libro di Normanna Albertini e dalle molte e piacevolissime chiacchierate che abbiamo fatto sul tema..
RispondiEliminaGrazie al libro Pietro dei Colori ho colto le connessioni tra due lochi geografici che mi sono molto vicini, ma che conosco poco e ho tanto voglia di visitare e ri-visitare.. ho potuto rivalutare la valle di Talada e i luoghi della Garfagnana, vedendo tanti richiami di entrambi, nell’uno e nell’altro. Tutto grazie a un semplice libro. Grazie a una scrittrice con tanta voglia di studiare le sue terre e di non perderne le belle cose (senza andare chissà dove).