mercoledì 23 aprile 2025

ANSELMA, CHE VISSE IN UN CASTELLO CON TANTO DI TELEFERICA



L'intervista risale a diversi anni fa, quando era già novantenne. Oggi Anselma non c'è più, ma vive nel cuore dei suoi cari e di tutti coloro che l'hanno conosciuta


Le fascine le acquistava il casaro di Banzola che le usava per alimentare il fuoco sotto le caldere. A quei tempi, la latteria era privata e i contadini vi conferivano il latte della zona: una superficie collinare piuttosto aspra, dove le strade, le carraie, i sentieri si arrampicavano scomodamente sulle alture e rendevano più duro ogni spostamento. Dal Castello di Paullo, le fascine venivano spedite in basso con una rudimentale teleferica - costruita chissà quando - del tutto simile a quelle usate nei lavori forestali di allora o dai contadini delle Alpi per il trasporto del fieno. Se la ricorda bene, Anselma Franzini, oggi novantunenne, che al Castello si trasferì dopo il matrimonio con Rodolfo Morani, mezzadro, il quale lavorava un podere di proprietà dei signori Barchi. Aselma era nata a Casa Mazzoni di Giandeto, nel comune di Casina, il 21 aprile del 1927. Famiglia benestante, la sua – secondo i parametri del tempo - di coltivatori diretti che possedevano terra, casa e stalla con ben tre mucche, Anselma ricorda un’infanzia felice senza particolari privazioni. Certo, quando s’innamorò i Rodolfo, semplice figlio di mezzadri, i genitori non approvarono la sua scelta e la contrastarono, per quel che fu possibile. Alla madre, Anselma spiegò che il suo innamorato era un uomo buono e che quella era la cosa più importante, per cui voleva lui e soltanto lui. La ragazza vinse e, alla fine, si celebrò il matrimonio. Da Case Mazzoni andò a vivere a casa di lui, al Castello, un posto isolato, una rupe sovrastante la valle del rio Fiumicello, in mezzo al bosco, un tempo sede di un vero e proprio fortilizio. “Il castello sorse in luogo aspro e selvoso e bene adatto alla difesa. Era ristretto e cinto da un sol muro, con un palazzo e una torre sovrastante la porta d’ingresso, e, come quello di Paderna e di Montalto, dominava la stretta valle del Crostolo”, scrive il professor Arturo Montruccoli nel suo volumetto su Paullo, e ancora: “Finchè imperarono i marchesi di Canossa, il castello, come pure tutto il resto di Paullo, rimase nell’orbita del loro dominio, ma alla morte di Matilde passò sotto l’influenza del vescovo di Reggio, il quale ricevette conferma da Federico I nel 1160 dei beni già goduti da Paullo e li tenne fino al seguimento voluto dal Comune cittadino nel 1197”.

Castello di Paullo (Casina), foto di GIUSEPPE COLIVA

Quando Anselma arrivò lassù, della fortezza non restavano che parti delle mura ormai inglobate in una costruzione colonica composta di case e stalle. C’era una grande aia, al limite della quale si innalzavano due querce, unite alla base, che si allargavano a V verso il cielo. Agli stessi alberi era stato fissato il cavo della teleferica che, da quella postazione, scendeva al monte di Banzola, giù in basso. Al Castello le terre erano divise tra due proprietari: Ido Barchi, di Banzola, e l’avvocato Piero Fornaciari, di Reggio. Quest’ultimo, fu un antifascista convinto, tanto da finire torturato al carcere dei Servi, e diventò poi un grande protagonista del mondo giudiziario: fondamentale il suo ruolo nel processo a Leonarda Cianciulli, dove rappresentò una delle famiglie delle vittime costituitasi parte civile. C’erano, dunque, due poderi e due mezzadri, dove prima c’era stato il fortilizio appartenuto a varie famiglie nobili, tra cui i Fogliani. Sappiamo che quel castello fu distrutto per la prima volta nel 1349 dai Gonzaga insieme a molte altre fortezze della montagna. L’edificio odierno non ha più niente dell’antica rocca, come già ai tempi della giovane sposa Anselma Franzini. Allora, c’erano due famiglie, c’erano sei vacche in tutto - rosse reggiane - campi scomodi, in pendenza, da lavorare con la sola forza delle braccia e con l’aiuto degli animali. Ecco il perché della teleferica, utile per il trasporto del latte fino al caseificio, troppo distante per essere raggiunto a piedi due volte al giorno. Il signor Ermanno Motta, che oggi ha ottantotto anni e che a Banzola faceva il taxista, racconta che, oltre ai bidoni del latte, la teleferica veniva utilizzata per portare giù i sacchi di frumento da macinare al mulino ubicato sul rio Fiumicello. A suo parere, la costruzione di quella funicolare risalirebbe al primo dopoguerra ed è rimasta in funzione fino agli anni Settanta. Persino lui ci salì, il giorno in cui si arrampicò fin lassù per andare a funghi; al ritorno, non ebbe voglia di farsela a piedi e si accomodò sulla cassetta attaccata al gancio. Probabilmente, altre persone usavano la teleferica per ridurre fatica e tempi del viaggio; quasi certamente l’avrà usata anche Rodolfo, il marito di Anselma, tuttavia lei non se lo ricorda. Si rammenta, invece, di quell’individuo, poi soprannominato ‘Cassetta’, che s’imbarcò, appunto, sulla cassetta della teleferica. Questa, a metà tragitto, si sfondò, tanto che lui giunse a Banzola con i piedi penzolanti nel vuoto, tenendosi con le mani al gancio. E poi si ricorda quella volta delle fascine: “Avevamo fatto ben mille fascine e dovevamo spedirle giù al casaro. Lavoravamo insieme, le due famiglie unite, e io avevo preparato i tortelli di bietole per tutti.

Immagine di una teleferica dalla
Domenica del Corriere

Le fascine venivano ordinate in mazzi di dieci, undici; le spedimmo giù in quel modo, poi, però, ne rimasero 27. Allora, preparammo un mazzo da 13 e uno da 14. Spedimmo prima quello da 14, perché si diceva che 13 era il numero del diavolo e chissà cosa sarebbe potuto succedere! Quando inviammo il mazzo da 13, il filo si spezzò e il carrello rimase a metà percorso. Interrompemmo il lavoro e pranzammo con i miei tortelli, poi ritornammo alla carica, usando delle pietre che spedimmo giù per sbloccare il carrello. Niente da fare, anzi: si rischiò un incidente, quando due pietre si scontrarono, producendo scintille, proprio sopra il capo di un uomo di Leguigno che lavorava come servitore a Banzola e che, per il terrore, scappò a gambe levate fino al suo paese”. Della teleferica, come della roccaforte medievale, al Castello di Paullo non resta nulla; restano i ricordi di Anselma, che lì visse per diversi anni insieme al marito e ai cognati, ai quali era legata da grande affetto. Anselma che si spostava solo la domenica per andare a messa e che, ogni quindici giorni, tornava a trovare la mamma a Casa Mazzoni, ovviamente a piedi (un’ora e mezzo di cammino): “Avevo buone gambe, camminavo veloce e non mi pesava”, racconta. Quando si era sposata, aveva 23 anni: lei, il marito e i due cognati, insieme, contavano soltanto 84 anni. Avrebbe voluto subito dei figli, ma perse i primi due, così, al Castello, lei e Rodolfo non ebbero bambini. Non si persero d’animo, i due sposi, molto innamorati e decisi a formarsi una famiglia numerosa, così, poi, quando lasciarono il Castello di Paullo, misero al mondo ben quattro figli. “Mia mamma non voleva che io sposassi Rodolfo perché era povero”, conclude Anselma, “ma si sbagliava di grosso. Io e lui siamo sempre andati d’accordo, ci siamo voluti bene tutta la vita. Fino ai suoi ultimi giorni, la sera scherzavamo riguardo a chi doveva spegnere la luce: ‘spegni tu?’, ‘no, spegni tu!’, poi ci addormentavamo sereni. Era un modo per parlarsi anche se c'era stato qualche contrasto. Eh, sì, mia mamma si sbagliava... era un uomo buono, mio marito, e questa è la cosa più importante”.

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